Il canto di Ulisse – frammenti di una battaglia
Due uomini corrono a perdifiato, trascinando pesanti taniche d’acqua.
Tutt’intorno strade divelte, palazzi sventrati, macerie fumanti.
Nell’aria sospesa, qua e là, un grido d’allarme.
Siamo ai primi di dicembre del 1994 e il vecchio ponte, da cui la città ha preso il nome, è stato abbattuto, con venti granate, poco più di un anno prima.
L’uomo che sembra più anziano ha i capelli bianchi, arruffati dal vento.
Inciampa, cade. Ma poi si rialza e riprende la corsa.
Durante due soste, per riprendere fiato, confida all’altro che ha passato mesi e mesi chiuso in un laboratorio, nel tentativo di risolvere la formula di una vecchia sostanza chimica. E che i suoni delle sostanze che sgocciolavano sembravano, a tratti, la musica di una misteriosa canzone.
Poi è scoppiata la guerra; e da allora si è dedicato solo a proteggere la cinemateca della città, di cui è direttore. “Che ne resti la memoria”, dice. E con occhi spauriti di bambino, conclude: “.. ma adesso che senso potrebbe avere qualsiasi cosa, in mezzo a tutto questo massacro?“.
Mine anti-uomo, cluster bombs, cecchini fantasma – chirurgia dell’orrore. In quella voce affannata c’è la furia bestiale dell’uomo sull’uomo che, attraversati i suoi occhi, per canali segreti, si è fatta suono. Agonia di parola. Radiografia vocale di un paesaggio straziato. Poi, in un lampo d’improvvisa ironia, mormora: “In questa città la migliore amica degli uomini è la nebbia. Manca la visibilità, i tiratori sono costretti a fare una pausa. Qui i giorni di nebbia sono giorni di festa.”
I due, stremati, riprendono, infine, la corsa.
Li vediamo, di spalle, correre verso un ponte e attraversarlo. Ma prima di averlo passato completamente una voce, da un altoparlante, gli intima di fermarsi: “Stop!!”
L’uomo giusto – narra una leggenda turca – raggiunge l’Altrove passando su una passerella più sottile di un capello e più affilata di un rasoio.
Un arco celeste, purissimo.
Il giorno dopo i nostri uomini sono ancora vivi. Via da Mostar. Diretti a Spalato;
da lì a Zagabria. In aereo raggiungono Skopje, in pullman Florìna.
Durante il tragitto, l’uomo che sembra più anziano ha voglia di cantare. Sussurra qualcosa. Forse ricorda quella strana canzone? Ad un tratto ripensa ai suoi film: “una sequenza ininterrotta contro la cultura della morte”.
E’ notte adesso e vorrebbe dormire. Nella sua stanza d’albergo – chissà perché – si siede per terra. Il suo cuore è stanco, troppa guerra negli occhi. Ma mentre si addormenta si domanda se correre, trascinando pesi, fra le macerie di una città sia una pena infernale adeguata per un attore.
E con un sorriso beffardo, Gian Maria Volontè varca il suo ponte verso l’Ignoto.
Quelle girate a Mostar, il giorno prima, sono le sue ultime immagini.
Fabrizio Gifuni