La meglio gioventù
Un affresco storico che abbraccia quarant’anni, da Capo Nord a Palermo. Da uno straordinario copione di Rulli & Petraglia, Marco Tullio Giordana disegna il suo capolavoro
Due densissimi atti per un lungo e a tratti straziante affresco che parte nel 1966 e arriva ai giorni nostri: il precedente del capolavoro di Marco Tullio Giordana è un’altra pellicola italiana dalle identiche coordinate e ambizioni storiche – Novecento di Bernardo Bertolucci – anch’esso distribuito nei cinema in due parti. Li accomuna, altresì, la sottotraccia melodrammatica (Giordana confessa di avere pensato a Fassbinder), il respiro grande dell’opera lirica, l’assoluta mancanza di vergogna nel bagnarsi con le lacrime della vita, con l’assoluto e la purezza (il tormentato personaggio di Matteo, per il quale si tifa: e grazie ad Alessio Boni), con la coerenza e l’etica (Nicola: un’altra straordinaria testimonianza di Lo Cascio), con il ripudio e le scorciatoie (l’intensa, ispida brigatista di Sonia Bergamasco), con il feroce pragmatismo istituzionale (il pacato, sottile Carlo di Gifuni, qui alla sua prova cinematografica più matura). Il meglio e il peggio di una generazione, pasolinianamente contrastata, coinvolta e distaccata, calda e distratta, come un’opera al nero di Rainer Werner Fassbinder appunto. Da uno dei migliori copioni scritti in Italia negli ultimi vent’anni (di Sandro Petraglia e Stefano Rulli), Giordana – già cantore dell’ossimoro, a cominciare dal suo felicissimo esordio del 1980, Maledetti vi amerò, del che facciamo noi dopo la Rivoluzione? – dipinge, colora, mostra, guarda, osserva, scava, divelle i suoi personaggi predatori di un futuro migliore con l’affetto del fratello maggiore che ci è già passato e che ha voglia, innanzi tutto, di sottolineare quanto molto di buono c’era anche se si scivola sempre e ancora. In questo, un autentico film sessantottino, libero e svincolato da dogmi cinematografici e ideologici e perfettamente in linea col percorso artistico del regista. Così come segue le passioni del cuore lanciate verso antiche e mai sopite scandalose tenerezze (Truffaut, Visconti, il più volte citato RWF e a noi piace ritornare a/su Bernardo Bertolucci), avvolte in echi musicali (House of the Rising Sun, certo, ma è Oblivion di Astor Piazzolla il sotterraneo motore di ricerca interiore) che paiono (ma probabilmente è proprio così) sopraggiungere da lontano, da un mondo trasformato in fotografia di un tempo, irrimediabilmente passato. Ci innamoriamo, allora, di Matteo e di Mirella, di Giulia e di Nicola, di Carlo e di Francesca, di Giorgia e di Adriana, perché già amati da Giordana e dalla sua fluttuante macchina da presa, davvero – una volta di più – nel senso del prendere, del rubare emozioni, dell’imparare a stare e a starci – e quindi anche davanti e dietro a un obiettivo. Scene madri con una vera madre (quei libri sotto la pioggia, Adriana Asti, Nicola e la dolce, sorprendente Valentina Carnelutti…) che sfida a pugni la tragedia, con un poliziotto che si toglie le scarpe e di mezzo e si getta via perché se non si può avere il meglio dalla gioventù è bene andarsene da un’altra parte, per tornare più tardi, pacificati e consapevoli di poter finalmente essere ciò che si pretendeva. L’esperienza del dolore, la sofferenza delle perdite, l’incomprensione degli sguardi, l’impossibilità che – chissà perché – spesso (ci) si regala a proposito di quella cosa chiamata amore. Ma, e Giordana coglie in pieno il senso della scrittura di Rulli & Petraglia, ognuno è ciascuno e tutti sono liberi e arbitri del proprio destino. È vero, c’è (anche) la Storia: un’alluvione a Firenze e un attentato a Capaci, uno psichiatra che libera i “matti da legare” e qualche milione di giovani sparsi negli angoli più suggestivi di un pianeta che vorrebbe cambiare, (s)travolgere, ribaltare. Ma è il primo prato, la crosta sul quale muoversi e viaggiare, da Capo Nord a Palermo, per capire magari perché si può morire per scelta o per sventura, onore o tumore, perché si è la meglio gioventù o il peggio possa capitarci. Un fiume, questo capolavoro che si presenta in punta di piedi, con pudore e compassione, con (s)balzi di piena che tracimano ostacoli e innocenti. Un romanzo di ottocento pagine e una volta scorte impossibili da riporre sul comodino. Un contenitore, e non nell’accezione mediatica moderna: piuttosto, una realtà “virtuosa”. O come vorremmo (dovremmo) vivere nel mondo.
Aldo Fittante, Film TV – 2003