‘Na specie de cadavere lunghissimo - Foto di Filippo Manzini

"‘Na specie de cadavere lunghissimo" - 2004

Un’idea di Fabrizio Gifuni (da Pier Paolo Pasolini e Giorgio Somalvico)

regia di Giuseppe Bertolucci

con Fabrizio Gifuni

disegno luci: Cesare Accetta

direttore tecnico e fonica: Paolo Gamper

produzione: Teatro delle Briciole-Solares Fondazione delle Arti

tournèe a cura di Natalia Di Iorio

Appunti per uno spettacolo

“Per Eraclito il mondo non è altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l’unità, il Dio che vi sta dietro”. Continuo a trovare in queste parole qualcosa che si avvicina moltissimo a quel profondo senso di mistero che accoglie la vita, l’opera e la morte di Pier Paolo Pasolini. Quando alcuni anni fa iniziavo a pensare all’idea di uno spettacolo su Pasolini, è proprio in termini di opposizione che il mio istinto si muoveva : padre e figlio, natura e opera d’arte, vittima e carnefice, erano solo alcune delle antinomie che continuamente si affacciavano sul mio cammino. Ma anche il buio e la luce, la violenza e la mitezza, Dottor Jekyll e Mister Hyde. Certo, l’urgenza politica era altrettanto forte: Così forte – in questi tempi bui – da rischiare di travolgere tutto. Il fiume si ingrossa pericolosamente e gli argini rischiano di rompersi. Ogni giorno che passa. C’era il desiderio di raccontare la tragedia pubblica e privata di un poeta che aveva visto scomparire in soli tre lustri il solo mondo in cui voleva riconoscersi. Il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l’immoralità e la cecità del vecchio Potere che stava aprendo la strada all’avvento di un Nuovo Potere – di un nuovo fascismo – “il più potente e totalitario che ci sia mai stato.” Ma anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella stessa catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i “corpi” dei suoi amati ragazzi, che sembravano trasformarsi – sotto i suoi occhi – da “simpatici malandrini” in “spettrali assassini”. I suoi amati “riccetti” stavano cambiando maschera: dall’innocenza al crimine. Ma quella frase, scritta da Giorgio Colli, nella sua Nascita della filosofia, proprio nel 1975, anno della morte del poeta di Casarsa, ma riferita al grande sapiente di Efeso, continuava come un ragno invisibile a tessere la sua tela. E la lettura di Petrolio – un viaggio spericolato nell’ultimo dei labirinti – mi riportava ancora a quella linea d’ombra: Carlo di Polis e Carlo di Tetis, protagonisti nella scissione del romanzo incompiuto, tornavano a spaccare l’io. Come Paolo di Tarso. Come Paolo di Casarsa. Al centro del labirinto stava la bestia immonda. Ma non era che l’immagine dell’eroe riflessa allo specchio. Passato a una Nuova gioventù, Narciso, al termine di infinite danze, si inabissava nel suo specchio d’acqua. “Io sono una viola e un ontano, lo scuro e il pallido della carne…”, ”io sono nero di amore, né Santo né Diavolo…”, “io sono un prete e un uomo libero, due scuse per non vivere…”. La frantumazione e l’ossessione dell’identità tornavano a commuovermi. “Noi siamo perciò una persona sola (la Dissociazione è la struttura delle strutture: / lo sdoppiamento del personaggio in due personaggi / è la più grande delle invenzioni letterarie)”dice il poeta in Bestia da stile. “Il Dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame”, dice Eraclito in uno dei suoi frammenti. Non mi restava che seguire il corso dell’acqua.

Fabrizio Gifuni

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