Teatro, Gifuni in guerra con Gadda
Si avverte subito, già dal momento in cui l’attore appare e dalla sua bocca escono le prime parole che non sono quelle dell'”ingegnere” ma sono rubate ad Amleto, un nevrotico Amleto la cui figura fa da filigrana, che sarà una serata fortemente adrenalitica, pronta a lasciare un segno forte. Fabrizio Gifuni è solo in scena, e lo spazio, quello della piccola sala del franco Parenti (da cui parte la sua nuova sfida), si anima di azioni che, insieme alla sua voce chiara, dura, piegata su tutti i toni, saranno a raccontare il suo corpo e il suo viso condotto a una mimica estrema. Ha Gifuni lasciato Pasolini per incrociare un altro grande intellettuale che ha marcato il destino della nostra letteratura con il suo humour travolgente e la sua rara intelligenza. Ed ecco questo L’ingegner Gadda va alla guerra in cui si saldano insieme testi che sono un’analisi spietata di certa nostra italia, la parte peggiore: i dolenti Diari di guerra e di prigionia e quella grande invettiva pubblica che è Eros and Priapus, l’opera con cui, il “Gaddus”, diede sfogo (lo sfogo di un uomo “malato di dolore e di bile”) agli sdegni e ai rancori suscitati dal tragico Ventennio. C’è grande contrasto di stile tra i due lavori. Asciutto e straziante il primo, barbaro e barocco il secondo, ma Gifuni, benissimo aiutato dalla regia di Giuseppe Bertolucci, raccorda alla perfezione. Usa l’ironia tagliente per raccontare dalle trincee “la bestialità monotona dei commilitoni”; la rabbia feroce verso i profittatoti di guerra.
Ma s’affaccia anche la commozione quando parla di chi rischia la vita o la perde per dar sepoltura a un compagno. Ancora, con lucidità ci riferisce della prigionia subita e con sgomento della morte del fratello Enrico. Poi il grottesco divampa quando attacca Eros and Priapus dove la scrittura di Gadda ha ormai assunto ben altra, magnifica e sperimentale, dimensione. E’ straordinario Fabrizio Gifuni. Mette in atto tutte le sue capacità istrioniche e il pubblico lo premia con un’ovazione.
Domenico Rigotti – Avvenire, 17 gennaio 2010