Con le vite degli altri
Un bambino come tanti cresce segnato da un dolore segreto in un’Italia che molti ricordano ancora. Quando aveva solo 9 anni sua madre è morta misteriosamente, o forse di misterioso e malsano c’è solo il silenzio che circonda da sempre quella morte improvvisa e mai spiegata. Così il bambino cresce nel rancore e nel sospetto, diventa grande, si scopre giornalista, viaggia, vede il mondo, racconta la squadra dell’infanzia e del cuore, il Torino, va anche a Sarajevo da inviato di guerra – ma non elabora mai fino in fondo quel lutto irrisolto. Anzi ritrova qualcosa di sé perfino dove meno se lo aspetta. Come quando si sorprende a fotografare con la sua macchinetta, sconvolto, il fotoreporter che con cinismo sta scattando le immagini di un bambino sprofondato dentro un videogame pur di non vedere ciò che non potrebbe sopportare…
In scene come questa, e in tante altre disseminate dentro un racconto volutamente raspodico, vibra il senso profondo di Fai bei sogni, film di Marco Bellocchio ispirato al best seller autobiografico di Massimo Gramellini, giornalista della Stampa.
Altre sono meno incisive perché Bellocchio è un regista dalle accensioni folgoranti più che un narratore “puro”, cioè racconta attraverso immagini capaci di condensare in un lampo tutto il mondo, un conflitto, una vertigine. Così, emoziona veramente quando intreccia il destino di Massimo a incontri decisivi, come quello con il prete-professore che gli dà una sonora lezione di vita, il sempre magnifico Roberto Herlitzka; o quello, notturno e avventuroso, con l’innominato “presidente” (un magistrale Fabrizio Gifuni) che in pochi minuti illustra al cronista il gusto del rischio, la passione del gioco, le doti visionarie di un vero capitano d’industria, per poi uscire di scena in modo inaspettato (offrendo al giornalista, oltre allo scoop, ampia materia su cui riflettere…).
Magari non è sempre altrettanto trascinante quando il povero Massimo (che da adulto è Valerio Mastandrea), viene lasciato solo con i suoi fantasmi (Belfagor, terrificante serie tv anni 60), i ricordi della madre (l’intonatissima Barbara Ronchi), o quel padre in difficoltà (Guido Caprino). Però a ben vedere Bellocchio aggiunge un capitolo meno personale ma tutt’altro che banale a quell’autobiografia collettiva, proprio così, che corre segretamente sotto tutto il suo cinema. Con un film forse più fragile se visto da vicino, ma sotterraneo e potente se considerato accanto a tutti gli altri.
Fabio Ferzetti – il Messaggero