Prefazione
Sono sempre più convinto che i teatri, oggi più che mai, siano il luogo dove poter giocare una battaglia fondamentale per i destini culturali del nostro paese. Non mi vengono in mente tanti altri luoghi, come il teatro, dove una comunità possa continuare a ritrovarsi, liberamente, per condividere uno spazio di pura conoscenza emotiva.
Il corpo a corpo con lo spettatore fa del teatro un’esperienza unica e irripetibile. Il campo magnetico prodotto dall’incontro tra il corpo degli spettatori e quello dell’attore può determinare, a patto che in scena accada realmente qualcosa, un cortocircuito che non ha uguali dal punto di vista delle emozioni e della conoscenza.
Il teatro è anche uno degli ultimi luoghi dove si esercita ancora l’arte della memoria. Intesa sia come mnemotecnica (gli attori sono gli ultimi depositari di questa disciplina) sia come serbatoio di una coscienza storica collettiva. Per questo il teatro oggi fa più paura al potere.
Perché molti italiani ricordano. E non sono disposti a dimenticare. Perché molti italiani sanno che la sistematica distruzione della memoria storica del nostro paese è stata e resta uno degli obiettivi più pervicacemente perseguiti negli ultimi decenni. Perché azzerare e annullare il valore della memoria significa poter dire e fare, oggi, tutto e il contrario di tutto.
Il progetto Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione nasce da questo: dal desiderio di organizzare un grande racconto sulla trasformazione del nostro Paese. Su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Per capire cosa è accaduto, come sia stato possibile arrivare a tutto questo. Una mappa cromosomica dell’Italia e degli italiani per orientarsi meglio in un presente troppo spesso buio, opaco e pericoloso. Ho iniziato così, circa dieci anni fa, un lungo ed entusiasmante viaggio con Giuseppe Bertolucci – che non ringrazierò mai abbastanza per avermi accompagnato con il suo talento e la sua umanità – prendendo in prestito le parole di due autori per molti aspetti diametralmente opposti per formazione, lingua e visione della Storia. Attraverso ‘studi’ e passaggi successivi, hanno preso vita e corpo i due spettacoli “‘Na specie de cadavere lunghissimo” (da alcuni testi di Pasolini e da un poemetto di Giorgio Somalvico) – andato in scena a partire dal 2004 – e “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” (da due testi del gran Lombardo e dall’Amleto di Shakespeare), che ha debuttato nel gennaio del 2010.
Quello che ne è venuto fuori, a distanza di anni, è un doppio sguardo sulla nostra storia del ‘900, feroce e inesorabile. Dove al ‘teorema pasoliniano’ sulla mutazione antropologica di un intero Paese si aggiungono, come tessere di un unico mosaico, le note gaddiane sulla Grande guerra e le sue annotazioni psico-letterarie sul ventennale flagello fascista. Due sguardi incrociati sulle dinamiche della grande Storia, spesso sorprendenti, dove termini come ‘progressista’ o ‘conservatore’ cedono il passo alla sola forza di due intelligenze in continuo movimento.
I due autori, pure così distanti, si ritrovano sul terreno comune di un amore furioso verso il proprio Paese, partendo dalla loro personale tragedia privata. Due uomini che si conquistano sul campo la possibilità di poter esprimere un giudizio su ciò che li circonda, solo dopo aver fatto a pezzi se stessi. E’ per questo, credo, che le loro parole sembrano avere, oggi, un peso specifico così grande, come munite di una speciale forma di autorevolezza. Da questa pratica auto demolitoria, da questo continuo far naufragio del proprio io, credo derivi la forza dei loro ragionamenti, oltre che della loro scrittura. In questo esercizio spirituale e al contempo laico sta lo statuto etico del loro pensiero. Perché non basta esprimere un pensiero alto o condivisibile, ma è necessario che chi lo esprime sia credibile per chi lo ascolta.
Gadda e Pasolini analizzano da differenti angolazioni i sintomi di quella piaga – antropologica prima che storica – che fu il fascismo. Osservando la riemersione carsica (e dunque periodica) di quel liquame nero presente nelle arterie del nostro Paese, marcano differenze e continuità tra il vecchio e il nuovo e individuano con precisione chirurgica i connotati endemici di quel fenomeno definito da Piero Gobetti con lucidissimo intuito, nel novembre del ’22, ‘l‘autobiografia della nazione’.
Nel primo dei due spettacoli – ‘Na specie de cadavere lunghissimo – l’emergenza drammaturgica nasceva dal desiderio di distillare sostanze linguistiche dai sapori apparentemente opposti: la prosa politica e polemica del Pasolini luterano e corsaro e gli endecasillabi inediti e sorprendenti di Giorgio Somalvico, che – in un romanesco crepitante e reinventato – costringe in metrica il delirio dell’omicida, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Su questo formidabile poeta milanese – ancora incredibilmente troppo poco conosciuto rispetto al suo valore – ci sarebbe molto da dire. Poeta, romanziere, autore di libretti d’opera, pittore, espressione della migliore operosità ambrosiana, eppure schivo e appartato come Gadda, Somalvico nasconde nel ritmo dell’endecasillabo tutti i segreti artigianali del suo sapere teatrale e musicale. Grazie all’invenzione del personaggio di Piero Pastoso ( “Detto Rana – e nun Pecora né Biscia/ Comm’ a tutti voantri ‘n malaffede/ – ve pozzino cecà! – ve piasce crede.”) il testo dello spettacolo è in grado di operare uno scarto semantico imprevedibile, trovando nei versi di Somalvico l’indispensabile anti climax alle parole di Pasolini.
E così il ‘teorema pasoliniano’ – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentale dei media da parte del Nuovo Fascismo – si dispiega inesorabilmente in tutta la sua lucida disperazione, delineando – attimo dopo attimo – i connotati dell’assassino.
Generandone i tratti identitari, le de-motivazioni profonde, “pensandolo” quell’assassino, prima ancora di incontrarlo, in un vertiginoso (quanto involontario?) processo di invenzione. Una sorta di agone tragico (inteso come scontro, ma anche come agonia) tra un Padre e un Figlio, vissuto in scena da un solo corpo e una sola voce, che de-genera, senza soluzione di continuità, da vittima a carnefice, da Dottor Jekyll a Mister Hyde, in una reazione a catena culturale e linguistica tutta da sperimentare.
Anche ne “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” (il cui ‘primo studio’ risale al 2006: una lettura drammatica all’interno del Museo della Fanteria di Roma), la drammaturgia originale si fonda su testi in origine non destinati alla scena. Gli scritti gaddiani scelti – smontati e riordinati per andare a comporre un nuovo testo, questa volta destinato al teatro – sono Il Giornale di guerra e di prigionia ed Eros e Priapo (oltre a due piccoli frammenti da La cognizione del dolore).
I Diari di guerra sono la testimonianza diretta della partecipazione di Gadda al primo conflitto mondiale (arma di fanteria, V reggimento Alpini), il racconto della personale tragedia dello scrittore e di un intero Paese, dal 24 maggio del 1915 – primo giorno di addestramento del Sottotenente Gadda al magazzino di Edolo – agli inizi del 1919, quando il futuro autore de Il Pasticciaccio farà rientro a casa dopo quasi due anni di detenzione nei campi di prigionia tedeschi. Eros e Priapo è, invece, un testo che assume l’originale forma letteraria di un simil trattato di psichiatria. Oggetto di anamnesi la psicopatologia erotica del Presidente del Consiglio, Benito Mussolini, e l’altrettanto patologica attrazione che il popolo italiano prova, periodicamente, verso le figure di tiranni affetti da ‘delirio narcissico’. Scritto in un reinventato fiorentino Cinquecentesco, inizialmente intitolato Da furore a cenere, il libro è un autentico saggio di psicoanalisi sui legàmi erotici che uniscono il Potere alle masse e, allo stesso tempo, un vertiginoso viaggio all’interno dell’ineguagliata lingua del genio gaddiano.
A unire i due testi ci pensa Amleto, principe di Danimarca e di Longone (in Brianza). Amleto fu per Gadda qualcosa di più di una passione letteraria. Gadda si rapportò, si può dire per tutta la sua vita, ad Amleto come a un archetipo che lo riguardava profondamente. Stessa coscienza della propria statura intellettuale all’interno di una società e di un tempo ‘fuori dai cardini’. Simile il rapporto devastante con la propria madre, che entrambi collocano al centro di una ragnatela mortale di menzogne di cui devono liberarsi. Uguale il temperamento naturalmente predisposto alla melanconia e agitato da infinite nevrosi. Entrambi, infine, costretti – per stare al mondo – a fingere di essere affetti da una particolare forma di pazzia. E così se Amleto finirà con l’assumere con i suoi simili il comportamento di Yorik, il buffone di corte idolo della sua infanzia, Gadda si trasformerà definitivamente nel genio letterario che tutti conosciamo. Sparire dietro una lingua fuori dall’ordinario, scatenando il suo lessico fantasmagorico, sarà il suo nuovo modo di comunicare col mondo, la folle scommessa di un Ingegnere schivo fino all’eccesso. E se la Danimarca malata di Amleto si fa con Gadda metafora del nostro Paese, l’amore del Principe per il teatro finisce per coincidere con il mio stesso sconfinato amore. Per questo, ho preso ad immaginare Gadda come un Amleto non più giovane, solo, senza più un padre o una madre da invocare o da maledire, sempre più debole di nervi, collerico. Solo con i suoi fantasmi. La lingua squassata da lampi di puro genio proteiforme. Sempre sull’orlo di una follia tragica eppure, a tratti, comicissima. E ricca di metodo. Ah sì, ricca di metodo.
Un ‘Amleto Pirobutirro’ (protagonista-ombra del suo più grande romanzo, La cognizione del dolore) che riavvolge il nastro delle sue nevrosi camminando a ritroso – come un granchio – sulle tavole della memoria. Una discesa agli inferi che riapre antiche ferite, mai rimarginate. Fino ad arrivare alla ferita originaria. A ciò da cui tutto discende. Nel male e nel bene. Al pozzo nero della sua futura infelicità ma anche, forse, all’involontaria miniera della sua immensa arte. La partecipazione dell’Ingegnere al primo conflitto mondiale, la disfatta di Caporetto, la detenzione nei campi di prigionia tedeschi e la morte del fratello Enrico, modificheranno per sempre la vita dello scrittore.
Ma il dolore non è mai solo fatto ‘privato’. Anzi. Si fa sempre inesorabilmente ‘pubblico’. E così con progressione implacabile, la furia del Gaddus inizia a montare e ad abbattersi, a colpi d’ascia, sul suo Paese – che è pur pronto a difendere con la vita – sul suo popolo e sui suoi governanti. Scritti dall’assai scomodo osservatorio delle trincee, i suoi Diari di guerra e di prigionia squarciano il velo su qualsiasi retorica patriottarda per farsi atto d’amore autentico e doloroso.
Acquisita coscienza del proprio dolore, questo Amleto un po’ avanti con gli anni è ormai perfettamente in grado di analizzare le storture di una Storia ciclicamente “fuori dai cardini”. Preso l’abbrivio, il flusso è inarrestabile. Con il trascorrere del tempo (quanto?), la demenza totale di un popolo frenetizzato ha ora consegnato il suo Paese a un tiranno che si preoccupò de le femmine; al delirio narcissico di un ultra-istrione, auto – erotomane affetto da violenza ereditaria.
Seguito ideale, dunque, di un discorso aperto qualche anno prima dalle riflessioni performative luterane e corsare (di ‘Na specie de cadavere lunghissimo), anche questo nuovo capitolo si presenta al pubblico come un atto cognitivo ‘sacrale’ – rituale laico di un consorzio civile che si vorrebbe migliore – utile forse a chiunque, oggi, voglia provare a riannodare i fili di una tela in brandelli. La tela di un paese chiamato Italia.
Dice Gadda in Eros e Priapo: “I crimini della triste mafia e di tutti gli entusiasmati a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano, con una penetrazione capillare (oh si, davvero!), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano ora intervenire nel giudizio del male, patito e fatto.” Perché (…) “l’atto (sacrale) di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione, se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie.“
Spaliamo il fango, liberiamo i campi, dissodiamo i terreni, rimettiamo in movimento gli aratri. Torniamo a seminare con cura per le primavere future. Difendiamo con uguale tenacia il grano e i fiori, gli alberi che danno frutti e quelli che ci servono a respirare. Stordiamoli di profumi. Sorprendiamoli con l’amore per il nostro lavoro. Hanno appestato questo paese. E’ il momento di riprenderselo. Coraggio, pazienza e luce negli occhi.
Fabrizio Gifuni