Quei borghesi piccoli piccoli
Può ancora servire a qualcosa la critica? Se ci fosse speranza, non perdetevi “Il capitale umano”, un grande film italiano dal respiro universale che non ha bisogno della consueta slavina di aggettivi promozionali. L’unico problema dell’opus n°11 di Paolo Virzì è quello di farci pensare al fatidico Gulliver: un gigante imbracato con mille lacci e lacciuoli dai formicolanti lillipuziani decisi a capire se possa tornargli utile. Complici poche tessere della (peraltro magnifica) sceneggiatura fuori controllo, infatti, a leggere o sentire qualcuno sembra che il suo valore stia tutto nei messaggi estraibili col minimo sforzo: un modo di porsi al cospetto del puzzle venato di noir, liberamente tratto da un romanzo dell’americano Amidon, meschino e sconfortante. Perché i riferimenti diretti, penetranti, spietati al nostro paese, a un suo emblematico habitat provinciale, ai meccanismi della finanza d’assalto che fa pagare i costi della crisi sul piano mondiale (dunque c’entrano poco le presunte induzioni al disastro degli “avidi e corrotti” imprenditori italiani), dell’aspirazione all’ascesa sociale e delle intensificate collisioni tra giovani e vecchi, piccoloborghesi e benestanti, inquadrati e alternativi, altroché se ci sono e pesano nell’ossatura narrativa; ma ridurre un procedimento un po’ alla Simenon (o alla Tom Wolfe per restare in ambito letterario Usa) al solito predicozzo dei “migliori” contro i “peggiori” connazionali fa torto al regista e ai suoi complici scrittori Bruni & Piccolo. L’espressione “Il capitale umano”, che parametra il costo dell’indennizzo in caso di morte di un assicurato, qui serve a mettere in luce i confini etici, civili, legali fino ai quali dovrebbe o potrebbe spingersi ciascuno di noi schivando o accettando la tentazione dell’imbarbarimento. Otto personaggi si dispongono, così, in un ciclo di quattro capitoli visti da diversi punti di vista come in un “Rashomon” della Brianza a partire dal notturno incidente stradale che ha ridotto in fin di vita un cameriere reduce da un catering e fatto scattare una tenace indagine della polizia locale. Assoluto è il controllo che Virzì applica a questo congegno, teso, allarmante, cupo, ma attraversato da picchi improvvisi d’isterica ridicolaggine e scorci di un conturbante erotismo chabroliano; così come superiore è la qualità del suo sguardo rivolto ai grandi spazi verdi, ai circuiti chiusi degli eleganti centri storici, alla sontuosa immobilità delle ville e al vitalismo residuale dei locali dello svago e del consumismo. L’affresco poliedrico e beffardo convince anche e soprattutto per le recitazioni calibrate come non si vedeva da anni in un film nostrano: lo strepitoso Gifuni con bieca quanto strenua immedesimazione escludente didascalie di comodo; la Bruni Tedeschi torpida sognatrice nel ruolo che vale la carriera; Bentivoglio micro-immobiliarista convinto di fare il colpo della vita come nel classico “La fiamma del peccato”; il velleitario professorino sinistrese Lo Cascio; la rivelazione Gioli nella parte della figlia e il simil-“Trota” Bernaschi in quella del suo scapestrato, ma non malvagio fidanzato; il giovane misero Anzaldo e lo zio Pierobon nient’affatto protetti dall’aureola di devianti perseguitati dal perbenismo borghese.
Valerio Caprara, Il Mattino – 9 gennaio 2014