Virzì: noir nella ricca Lombardia. Basta con le commedie fragili
Che cosa spinge un autore che ha sempre rivendicato con orgoglio la propria italianità, se non addirittura la propria «livornesità», ad adattare uno scrittore americano? Ad affidarsi a un romanzo che sembra il frutto diretto dell’11 settembre, che di quella crisi esplora le conseguenze e le influenze sulla borghesia del Connecticut? Paolo Virzì non ha un momento di esitazione: «Perché è un paradigma dei nostri tempi presenti e ormai Italia e Stati Uniti si assomigliano sempre di più».
Il romanzo in questione è Il capitale umano di Stephen Amidon, destinato a diventare, con lo stesso titolo e il marchio Indiana Production, l’undicesimo lungometraggio del regista toscano (da anni però trapiantato a Roma). L’ha riambientato in Italia, nella «ricca Lombardia» e dopo aver girato sette settimane tra neve, pioggia e nebbie sfrutta il sole per le ultime due settimane di riprese. «Mi è piaciuta l’idea di una storia da raccontare attraverso diversi punti di vista, una specie di puzzle narrativo capace di dirci quello che siamo diventati quando abbiamo creduto che la ricchezza si potesse moltiplicare senza fatiche e invece ci siamo ritrovati in un baratro».
A interpretarlo ha chiamato Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti, Gigio Alberti e tre giovanissimi, esordienti o quasi: Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli e Giovanni Anzaldo. Perché Il capitale umano parla di adulti ma soprattutto di giovani: c’è un ciclista buttato fuori strada da un Suv e l’inchiesta per scoprire il responsabile; c’è un immobiliarista che si sforza di entrare nelle grazie di un ricco finanziere e poi una moglie incinta e un’altra infelice, c’è un teatro da riaprire, ma ci sono soprattutto tre adolescenti che cercano di affrontare la vita con le loro forze, a volte fragili a volte più salde di quel che appaia.
«Nel romanzo, e nel film, si intrecciano il noir e il thrilling, c’è l’ironia beffarda verso una piccola borghesia che vuole fare il passo più lungo della gamba ma soprattutto c’è un viaggio dentro il conflitto tra genitori e figli. Anzi, proprio tra padri e figli». E lo dice con tutto l’affetto e la preoccupazione di chi è appena diventato padre per la terza volta: «Ho appena avuto una bambina, dopo che con Micaela (Ramazzotti, ndr) avevamo già un maschietto. Che si aggiungono alla figlia del mio primo matrimonio, che studia a Berlino e non ha intenzione di tornare in Italia. Posso darle torto? Se mi guardo in giro non vedo un bel panorama: genitori infantili e narcisi, che schiacciano i figli sotto le loro ambizioni e li legano per tutta la vita ai loro destini. Sembra quello che fa il Pd con i suoi».
Non siamo messi molto bene.
«No, la vedo proprio male. Per la politica, di cui mi spaventano i faciloni che seguono chi grida di più e semplificano tutto in uno slogan o una battuta. Per la società, dove gli adulti non aiutano i giovani a maturare. E per il cinema, dove sembra che manchi l’aria. Sto pensando seriamente di girare il mio prossimo film in inglese».
Verrebbe quasi da cambiare mestiere. Eppure nei suoi film non è così pessimista. Anzi, le buone letture danno l’impressione di poter salvare la vita, se non il mondo…
«I piccoli eroi dei miei film leggono molto come me: in Ovosodo Pietro raccontava Dickens agli operai, in Tutta la vita davanti Marta usava la filosofia per sopravvivere così come faceva Guido con gli studi classici in Tutti i santi giorni. E nel Capitale umano la speranza arriva dai tre giovani studenti. Ma oggi chi difende la cultura umanistica è preso per retrogrado. I nuovi tecnocrati la trattano come se elargissero carità. E invece sarebbe un sistema da mettere a reddito. Altro che ministero della Cultura, quello dello Sviluppo economico ci vorrebbe per cambiare davvero qualcosa».
Ma se questa è la situazione, serve ancora fare film? E soprattutto, che film si dovrebbero fare?
«Sicuramente non c’è niente di più mortifero del rifare sempre le stesse cose, le stesse commedie stiracchiate. Basta! Sono convinto che il cinema serva ancora. Non è mai un lusso perché ti nutre l’immaginazione. Non spetta certo a me dettare la linea editoriale del cinema italiano, anche perché potrei solo ripetere che serve un cinema capace di raccontare il nostro Paese, soprattutto in questo brutto momento. Serve un cinema che sappia rischiare, che non si faccia condizionare e ritrovi la libertà che l’aveva fatto grande in altre stagioni. Più coraggio, registi!».
Le sue commedie spesso parlavano di politica dietro le risate.
«E non voglio abbandonarle. Mi piacerebbe anche tornare a Ventotene e vedere come sono cambiati i Mazzalupo e i Molino, le famiglie di “destra” e di “sinistra” di Ferie d’agosto. Ma forse sarebbero tutti irriconoscibili. Sarebbe anche bello vedere com’è finito il protagonista di Ovosodo quindici anni dopo. Ma la fabbrica dove andava a lavorare oggi non esiste più, rasa al suolo. E allora che cosa racconto? Il deserto e le macerie?».
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera – 14 giugno 2013