L’ingegner Gadda va alla guerra
Dopo averci fatto rivivere in ‘Na specie de cadavere lunghissimo la grandezza tragica e preveggente del Pasolini che osservava il progressivo disfacimento del nostro Paese, l’attore Fabrizio Gifuni, sempre guidato e pungolato dalla regia di Giuseppe Bertolucci, ci conduce nel mondo di Carlo Emilio Gadda. Il confronto, infatti, in L’ingegner Gadda va alla guerra (o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro) è con la vicenda umana dello scontroso gran lombardo, che si affaccia nei suoi romanzi come una biografia sotterranea. La sua malinconica solitudine, la sua ironia crudele, la sua refrattarierà se non incapacità alla vita sociale, il rapporto con la madre e quello difficile con il fratello Enrico, quella sua errata certezza di non poter mai essere, proprio come Amleto “il primo della schiera”, trovano in Gifuni un interprete straordinario. L’idea che percorre questo spettacolo è quella di riconoscere in Gadda le stigmate di un Amleto novecentesco (di qui le citazioni dalla celeberrima tragedia), nemico a un mondo che gli è nemico, lucidamente consapevole della propria estraneità proprio come il protagonista della Cognizione del dolore Pirobutirro, nei confronti dell’odiata Pastrufazio. La prima parte di L’ingegner Gadda va lla guerra è costruita sui diari dell’autore, sottotenente della milizia territoriale, arma di fanteria, V reggimento Alpini, durante la prima Guerra mondiale. Diari sconvolgenti dove è raccontato con umana pietà ma con uno sguardo ironico, dove tutto l’orrore di quegli anni terribili, il sacrificio di quei poveri esseri destinati a essere carne da macello dentro e fuori le trincee. E dove la condanna di Gadda per la guerra è totale senza se e senza ma.
Lo snodarsi dell’interpretazione veramente impressionante di Gifuni – attorno al quale Bertolucci costruisce una ragnatela fitta di rimandi e di azioni -, dentro e fuori il personaggio, la sua forte fisicità rendono le parole di Gadda con una evidenza sconvolgente, quasi restituendoci la sua presenza massiccia, la sua forza di penetrazione delle cose. Che si esalta nella seconda con Eros e Priapo, inquietante e risibile requisitoria, vera e propria guerra di Gadda ai guasti di ogni dittatura di ieri e di oggi. Un’ analisi sulla psicopatologia del Cuce, cioè il duce, Mussolini, che trova il suo humus favorevole nel popolo completamente “frenetizzato”, nel “delirio narcissico” del dittatore, nella sua figura esaltata dallo stravedere erotico delle donne, nel suo io senza freno, per tanta devozione, nel suo “giganteggiare” fasullo sui tacchi doppi o tripli degli stivali. Non vi ricorda qualcosa, qui e oggi, di questa Italia che sembra aver perduto la cognizione di se stessa?
Da vedere.
Maria Grazia Gregori – Del Teatro, 20 gennaio 2010