Ragazzi di vita di Pasolini secondo Gifuni
«… sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,
ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite».
Da “Poesia in forma di rosa”
Scriveva così Pier Paolo Pasolini nel 1964, facendo ancora una volta i conti con la morte, ed è così che prende il via Ragazzi di vita con Fabrizio Gifuni. L’attore scandisce questi versi facendo leva su una semplice, ma emblematica gestualità: indica e gira di 180° intorno a quel corpo immaginario, è come se il poeta si vedesse profeticamente morto ammazzato. Spesso la parola “profeta” è stata sovrausata e per questo svuotata di significato, ma mai come nel caso dell’artista originario di Casarsa è d’obbligo, è lo stesso Gifuni a dichiararlo: «Non si riesce mai a distinguere chi precede cosa, se l’esperienza ha preceduto la creazione o viceversa, e quanto i due aspetti siano intrecciati e confusi» (dal saggio di Ilaria Mainardi “Danza di Narciso” in “Omaggio a Pasolini. ‘Na Specie de Cadavere Lunghissimo”). Se a una lettura autonoma del corpus pasoliniano questa idea si avverte, associando tra loro poesie, romanzi e – ampliando il raggio – anche film, quando l’attore romano va in scena intrecciando versi poetici anche dalla raccolta de “La meglio gioventù” con brani da “Ragazzi di vita” è come se quel pensiero si materializzasse grazie a quel corpo e a quella voce che si fanno veicolo per gli spettatori.
Può capitare che assistendo a un reading si abbia la sensazione spiacevole che non abbia aggiunto nulla, che si sia trattato di una lettura ad alta voce di ciò che potevamo aver letto o leggerci comodamente a casa, ma questo pensiero non sfiora la mente mentre si partecipa a Ragazzi di vita. Lo aveva dimostrato con “Omaggio a Cesare Pavese – Non fate troppi pettegolezzi” (Milanesiana 2010), con la lettura di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, con “Lo straniero” di Albert Camus (visto poco meno di un anno fa sempre al Parenti) e lo conferma in questa serata. Dietro e sopra quel leggio ci sono due mondi: quello dell’attore Gifuni presente non solo con la sua voce pronta a declamare (azione, anzi, quasi rifiutata nell’accezione consueta) e quello dell”artista dalla cui penna son sgorgate quelle parole, di fronte c’è il mondo della platea di turno, tutti e tre son pronti a dialogare grazie a un’atmosfera da rito collettivo che si viene a creare (non scontata). Non è un caso che il primo brano tratto da “Ragazzi di vita” (edito da Garzanti nel 1955) sia il secondo capitolo del romanzo intitolato proprio “Il Riccetto”, che ci introduce ancor più a quel “simpatico malandrino” (o almeno così era all’inizio), accalappiato dal gioco delle carte messo in scena da un napoletano all’angolo di via delle Zoccolette. Con una spiccata capacità descrittiva e un linguaggio che esalta la lingua (romanesca e non solo), Pasolini sulla carta e Gifuni sul palco ci fanno visualizzare la scena come se si stesse svolgendo davanti ai nostri occhi e sarà così per ogni estratto dal libro e ogni verso. Lo spettatore resta profondamente toccato e spiazzato quando la polvere delle tavole del palcoscenico si alza dopo aver rievocato/mimato il pestaggio di un frocio eppure, poco prima, si era riso, di quel riso che nasce dalle parole e dalla cadenza pur parlando di quella miseria umana che il regista de “La ricotta” sapeva mettere a tema e l’attore sa restituire. Con una precisione millimetrica si crea, infatti, quasi un ossimoro tra il modo di affrescare una giornata – «Era una bella mattina, col sole che ardeva, libero e giocondo, battendo sui Grattacieli puliti, freschi […] e facendo piovere oro da tutte le parti» – e il linguaggio adoperato dai ragazzi di vita – «Aòh, – fece dopo un pò esitando Alvaro, con l’ossame sgretolato di soddisfazione sotto la cotica, – a Riccè, che ti sentiresti in caso de fatte na pella, a Ostia?». Ecco quando Gifuni dice dell’«ossame sgretolato» o l’espressione «rimestando le mandibole» non riporta solo delle parole, ma è come se la sua bocca e il suo corpo mimassero per rievocare concretamente, nell’hic et nunc di quell’attimo, anche il rumore fisico, lo stesso vale per il Picchio «infregnato» nella nottata a Villa Borghese. Tutto il corpo dell’attore emana e asseconda una vibrazione.
Gli estratti scelti da questo primo romanzo di Pasolini riescono a comunicare, nonostante le ellissi, un arco narrativo coerente, capace di trasmettere quell’humus umano presente nelle borgate romane dopo la Seconda Guerra Mondiale e che arriva con tutta la sua potenza concreta di vita e morte. Giocando in dissolvenza tra narratore e personaggio, possiamo affermare che quello di Gifuni non sia una mera lettura di “Ragazzi di vita” e l’unico modo per poterlo comprendere completamente è parteciparvi non appena ne avrete l’occasione.
Mentre assistiamo al cambiamento della maschera del Riccetto – da ragazzo innocente a ragazzo che si muove quasi in modo spettrale tra le fratte e inosservato osserva la sorte che tocca a un altro ragazzo – tornano in mente questi versi della poesia dell’incipit:
«La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi».
Ci piace pensare che il lavoro di artisti come Gifuni (vedi anche “Realtà e verità – serata per Pasolini in 21 movimenti e chiusura” di e con Alessio Boni e Marcello Prayer) che si mettono a servizio di voci artistiche com’è quella di Pasolini, secondo le proprie corde «per giocare con le corde del mondo» di noi spettatori, permetta, invece, di comprendere – forse finalmente – Pasolini, al di là della morte fisica.
Maria Lucia Tangorra, culturaeculture.it – 8 giugno 2015