L’ultimo tram
“Forse ho sbagliato, il cinema italiano non sta poi tanto male. Almeno a vedere il film di Gianluca Tavarelli”
Per fortuna siamo ancora abbastanza aperti, e abbastanza confusi, per accogliere con gioia ogni messaggio che ci consegni la prova capace di smentire quanto avevamo solennemente affermato un’ora prima. Passano mesi bui da cui ricaviamo una visione amara della vita, e la sosteniamo con pensieri profondi e citazioni di melanconici poeti, la trasformiamo quasi in un punto di forza, in un lato fascinoso della nostra personalità, come un capooto nero indossato per darsi un tono di sdegnata eleganza: e poi d’improvviso arriva una mezza giornata di sole, fuori e dentro, e tutte quelle cupe considerazioni si rivelano pura presunzione, ogni filosofica invettiva stona come un piagnisteo infantile e il nostro impeccabile cappotto nero è ridicolo in quella bella mattinata primaverile.
Dopo aver tirato il sasso e mostrato sfacciatamente la mano, ci ritroviamo con un piccolo regalo sul palmo, un dono inaspettato giunto proprio dalla direzione del nostro lancio, e ci sentiamo stupidi e contenti. Così, dopo aver severamente scritto appena una settimana fa che il cinema italiano è nelle pesti, mi ritrovo commosso ed entusiasta all’uscita di un film quasi perfetto, pensato e girato con mano sicura da un giovane regista di Torino, Gianluca Maria Tavarelli, e interpretato da attori talmente bravi da non sembrare neanche attori.
Il film, travolto e scacciato dagli eserciti trionfanti delle guerre stellari tra mummie, si è andato a asserragliare in qualche saletta laterale, poche poltrone e uno schermo come una feritoia: trovarlo non sarà facile, ma va visto ad ogni costo, bisogna portargli i viveri delle nostre 10mila lire e della nostra gratitudine. Il film si conclude con una poesia di Umberto Saba così bella che desidero riportarla interamente: “Non dormo. Vedo una strada, un boschetto, / che sul mio cuore come un’ansia preme; / dove si andava, per stare soli e insieme, / io e un altro ragazzetto. / Era la Pasqua; i riti lunghi e strani / dei vecchi. E se non mi volesse bene / – pensavo – e non venisse più domani? / E domani non venne. Fu un dolore, / uno spasimo fu verso la sera; / che un’amicizia (seppi poi) non era, / era quello un amore; / il primo; e quale e che felicità / n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste. / ma perché non dormire, oggi, con queste / storie di, credo, quindici anni fa?”. E questo è il film, la storia di un amore che resiste tutta una vita come una nostalgia e un rimpianto, perché a volte – sberleffi del destino – ci si incontra troppo presto, quando ancora non si è pronti per intrecciare insieme un nido e tutti i giorni futuri, quando la smania, le folate dei desideri, le aspettative giovanili bruciano troppo forte perché quel primo amore sopravviva intatto.
Poi ci si accorge che la smania ha prodotto solo macerie, che le aspettative si sono sbriciolate come grissini in attesa di un pranzo sontuoso mai arrivato, che a Parigi e a Londra nessuno ha bisogno di noi e la capanna poetica da inventare ai carabi era solo una bugia puerile. Allora si vuol fare resuscitare a tutti i costi quel primo purissimo amore, tirare fuori Lazzaro dalla tomba e spingerlo all’altare. La ragazza della storia insegue quella speranza con un furore sentimentale che fa soffrire, il ragazzo vi si rassegna come si è rassegnato quasi a tutto, a un lavoro redditizio ma meschino, a una vita subita come una sconfitta. Per quasi vent’anni i due amanti si prendono e si lasciano e si ritrovano, si sposano con altri, fanno figli, divorziano e invecchiano nel sospetto che il meglio sia già stato, e forse è perduto per sempre.
E’ la ballata del disincanto e dei giorni sprecati, una canzone amara da motel che l’uomo canta a mezza voce e la donna rifiuta con tutte le sue forze, nell’illusione che il treno passi ancora una volta. E quando il treno passa, nell’ultima notte del secolo, finalmente i due amanti salgono insieme, anche se sono stanchi, logorati dalle offese e dalle incomprensioni: e se il cielo esplode di fuochi e di ardori, le loro luci sembrano fioche e il treno è solo un tram che sferraglia gentile in discesa.
Marco Lodoli, Diario – ottobre 1999