360°

Ho detto che la cultura sta morendo, su questo nessuno ha da obiettare?

L’attore finito oggetto di una polemica per aver usato la parola “compagno” al Palalottomatica: una tragicommedia. E invece bisogna ascoltare e ragionare.

Un’intera nottata / Buttato vicino / A un compagno / Massacrato / Con la bocca / Digrignata / Volta al plenilunio / Con la congestione / Delle sue mani / Penetrata / Nel mio silenzio / Ho scritto / Lettere piene d’amore / Non sono mai stato / Tanto / Attaccato alla vita». Questa è Veglia, poesia di Giuseppe Ungaretti scritta su Cima Quattro il 23 dicembre 1915, durante la prima guerra mondiale. Contiene la parola «compagno». Attendiamo con ansia una mozione di qualche giovane del Pd per prendere le distanze dal poeta. Non siamo impazziti. E Veglia non è un’idea nostra. Ieri abbiamo chiamato Fabrizio Gifuni per commentare il can-can seguito al suo intervento di sabato al Palalottomatica, concluso con le fatidiche parole «Compagni e compagne, è tanto che volevo dirlo…». Gifuni, che è un bravissimo attore (e che per inciso, in carriera, ha benissimo interpretato Alcide De Gasperi in un film per la televisione), non credeva alle sue orecchie e non voleva nemmeno parlarne. Poi ha accettato di far due chiacchiere con l’Unità, giornale letto ancora da molti «compagni». E ha voluto raccontarci una telefonata che aveva chiuso pochi minuti prima di parlare con noi (ieri il suo telefonino era rovente). «Mi hanno chiamato diverse persone non per esprimermi solidarietà, non esageriamo, ma per condividere un po’ di stupore, di costernazione. Fra queste Corrado Stajano, che mi ha ricordato appunto la poesia di Ungaretti Veglia. Se ti va di citarla, sappi che fa piacere anche a me: se avessi tirato fuori Pavese, o Quasimodo, avrei rinfocolato gli animi, qualcuno avrebbe gridato: ecco, i soliti bolscevichi. Ungaretti non era un bolscevico e soprattutto era un poeta ermetico, che misurava le parole e sapeva dar loro il giusto peso. Secondo Stajano Veglia è la più bella poesia che contenga la parola ‘compagno’. Dopo averla riletta, mi sembra di potergli dare ragione». Siamo anche noi doppiamente contenti di citare Ungaretti perché siamo d’accordo con Gifuni quando afferma che la polemica seguita al suo intervento è un clamoroso esempio di informazione deviata. Ci spieghiamo – anzi, facciamolo spiegare a lui: «Premesso che non faccio parte del Pd e non ho in tasca la tessera di nessun partito, io sono stato chiamato a intervenire, da attore e da cittadino, su un tema preciso: i tagli alla cultura. Ho espresso 5-6 pensieri, forse stupidi, o male articolati, che esprimono il disagio profondo di chi lavora in questo campo, oggi, in Italia. Beh, avessi sentito una parola di commento, anche di dissenso, nel merito. No: all’interno del mio intervento, sono state estrapolate due parole che corrispondevano a una virgola, a un segno d’interpunzione… si analizza una frase aggrappandosi a una virgola e ignorando il soggetto, il predicato verbale, il complemento oggetto…». Allora, Fabrizio, visto che parliamo di cultura, diamo un senso a Ungaretti e ai poeti come lui e ripartiamo dal soggetto. La cultura. Vogliamo ridare centralità ai pensieri e ribadire cosa davvero hai detto, in quell’intervento, prima di rivolgerti ai compagni e alle compagne? «Il grido di dolore per i tagli imposti dal governo alla cultura è usurato. Il problema non va affrontato a compartimenti stagni. Guai se il cinema difendesse il cinema, la lirica la lirica, e così via: sarebbe l’ennesima guerra fra poveri. La battaglia per la cultura dev’essere unitaria. Bisogna rimettere al centro del dibattito alcune parole d’ordine. Non aver paura di dire che la cultura, lo studio, la scuola, la ricerca scientifica sono il tessuto connettivo di una democrazia. Non sono parole vuote. Sono parole con un peso specifico enorme. Pensare che invece siano sinonimo di ‘tempo libero’ è grave. Se passa un simile concetto, i tagli diventano logici: c’è crisi, mancano soldi dovunque, dove si taglia? Nel superfluo! Ma la cultura non è superflua, è anzi alla radice del concetto stesso di democrazia: nell’Atene di Pericle si andava la mattina in senato, il pomeriggio al mercato, la sera a teatro, e queste tre attività avevano tutte la stessa importanza, contribuivano alla crescita della polis. Ora: mi si può dire che sbaglio, si può discutere. Mi si può rispondere: Gifuni ha torto, la cultura fa parte del superfluo, del ‘di più’ rispetto alle necessità della vita. Ma non si può tralasciare totalmente il senso di un discorso e aggrapparsi alla parola ‘compagni’ per innescare una polemica». Polemica che, ovviamente, non ti aspettavi… «Per carità, l’avessi saputo… forse l’avrei detto ugualmente! Perché ho la sensazione di aver sottoposto questi militanti ad una sorta di test involontario. Mi rattrista che la reazione sia arrivata da giovani esponenti del Pd. Mi viene da risponder loro: ma lo sapete, che nel nome della parola ‘compagno’ c’è gente che è andata in galera, che addirittura ha sacrificato la vita? Ma forse sarebbe una reazione, a mia volta, esagerata. Preferisco quindi un’altra risposta: cerchiamo di non essere pavloviani! Mi spiego: la rabbia suscitata dalle mie parole mi sembra una reazione pavloviana che scatta in modo automatico all’ascolto di certe parole. Allora, proviamo ad andare al di là delle parole. Proviamo ad ascoltare le opinioni altrui, a valutarle, e nel caso a contraddirle con argomenti validi. Purtroppo sembra che nessuno, nella politica italiana, sia più abituato ad ascoltare e a ragionare. È più facile buttarla in tragicommedia». O in commedia all’italiana, aggiungiamo noi. E ci viene in mente la Magnani, che in Mamma Roma di Pasolini sgrida il figlio che non le obbedisce dicendogli «ahò, che te metti a fa’ er compagno?». È una citazione meno alta di Ungaretti, ma forse può servire.

Alberto Crespi, L’Unità – 22 giugno 2010