Il Capitale Umano

Human Capital - 2013

Press

Le vite meschine degli speculatori quelli che vincono sui disastri italiani
Virzì cambia passo con un thriller corale sul nostro Paese

Paolo Virzì ha cambiato passo. Come se fino a ieri avesse guidato una macchina di cui non conosceva il pulsante segreto, quello del decollo. Ora che si può’ anche volare è pronto per il giro del mondo. Si è trasformato in un viaggiatore esperto di sentieri, un entomologo che raccoglie dettagli e li cataloga. E’ andato in Brianza a raccontare com’è cambiata l’Italia, lo ha fatto come se partisse per l’Alaska: vergine la curiosità, controllata l’apprensione, sottolineate cento volte le guide. Ha messo in valigia i suoi attrezzi da sarto di storie (il filo dell’ironia, questa volta meno dolce del solito, beffarda e un po’ crudele persino, le stoffe pesanti per il freddo che c’è dentro casa e anche fuori, su al Nord, le sete per le sere di festa, le lamette per la disperazione, l’alcol per non pensarci, uno zainetto e una tuta per scappare, caso mai) e come un esploratore si è addentrato di soppiatto nella terra dei ricchi. Di quelli che “hanno scommesso sulla rovina del nostro paese, e hanno vinto”. Gli speculatori, i maghi della finanza, quelli che ti promettono di guadagnare il 40 per cento sui tuoi risparmi e che poi se li mangiano, con la tua vita intera. Quelli che calcolano con un algoritmo quanto costa la tua morte, il “capitale umano” del titolo: il risarcimento agli eredi per l’assenza.
Il film è bellissimo, il suo migliore. Potente, lieve, preciso. E’ un congegno che funziona come l’ingranaggio di un orologio, ogni ruota gira in un verso diverso e tutte insieme battono il tocco delle ore. Non è una commedia ma è anche quello, non è un thriller ma un po’ sì, non è un racconto a tesi ma un caleidoscopio di sguardi che tiene insieme i punti di vista senza dare lezioni. Senza quel tono di sufficienza e di distacco che confina col disprezzo e balla il mano fatalista del qualunquismo. Dirige un gruppo di attori eccezionali rendendo ciascuno di loro, se ancora possibile, una sorpresa.
Giovanni Bernaschi è un finanziere di quelli che fra mezz’ora hanno un volo per Londra, vive in una villa con due rampe di scale all’ingresso i campi da tennis e una piscina riscaldata nel sotterraneo, ha una moglie bellissima ex attrice, un figlio adolescente che va alla scuola privata e tiene il suv in garage. Fabrizio Gifuni lo incarna con torva esattezza di sguardi, padronale volgarità di gesti tuttavia sempre eleganti, mai caricaturale, millimetrico nel passo brutale e segretamente consapevole della disperazione di chi, ormai, non può’ tornare indietro. E’ Gifuni-Bernaschi, il motore mobile, la causa e la ragione di ogni cosa. Della rovina dell’Italia, appunto, su cui il suo fondo ha puntato. Fabrizio Bentivoglio è Dino Ossola, un immobiliarista sull’orlo della rovina la cui figlia è fidanzata con il figlio di Bernaschi. Ha perciò accesso alla villa, alla vita dei ricchi, ai loro doppi di tennis. Decide di investire 700 mila euro che non ha, facendoseli prestare, nel fondo miracoloso. Qui Bentivoglio abbandona il consueto charme distratto e inventa una figura patetica e tragicamente ordinaria, l’uomo in bilico sulla disfatta: è suo il primo dei tre sguardi sulla scena. La storia avviene alla vigilia di Natale in un piccolo paese della Brianza. C’è una cena di gala, c’è un incidente – il cameriere della cena che torna a casa in bici, investito da un Suv – c’è un colpevole ignoto.
Si legge il racconto con gli occhi di Ossola, dunque al principio. E con quelli della sua compagna Roberta, psicologa in un consultorio pubblico, incinta: Valeria Golino impeccabile nel sottinteso e nel sorriso, dolce e saggia, struggente interprete di una normalità smarrita. Poi daccapo, la scena rivive dagli occhi di Carla, la moglie di Bernaschi. Una Valeria Bruni Tedeschi fragile e una volta ribelle, sensuale e goffa insieme, fonte di grande ilarità (“C’è la polizia? Cos’è la polizia”), bravissima. Ex attrice dilettante, Carla vuole salvare dalla rovina il Politeama locale. Va in scena la contesa fra cultura e denaro, è il racconto postumo della disfatta. “Capisci – dice al marito – non c’è un teatro in tutta la provincia”. “E’ grave, amore?”, le risponde lui distratto, a letto. Il direttore artistico designato, un professorino di storia del teatro, è Luigi Lo Cascio. Strepitosa Caporetto delle loro velleità è la scena di sesso tra i due nella sala cinema della villa, davanti a un vecchio film di Carmelo Bene.
Il terzo sguardo è quello di Serena, la figlia di Ossola. Matilde Gioli, nuotatrice nella vita qui al debutto, è la rivelazione del film. Non ama più Massimiliano Bernaschi (Guglielmo Pinelli, anche lui alla prima bella prova di attore) ma lo accudisce come una madre. E’ invece innamorata di Luca (Giovanni Anzaldo, febbrile, poetico), un paziente della sua matrigna psicologa, condannato per spaccio. Lo zio di Luca, Piero Pierobon, racconta in due scene dure come schiaffi la storia di tutti quelli che aspettano tra una canna e un acido di partire per Formentera, appena ho i soldi rilevo un chiringuito sulla plaja di Mitjorn. Bebo Storti è il commissario di polizia che indaga: si indovina di lui una vita grama, una grande anima.
Affresco polifonico e corale, riscrittura del romanzo di Stephen Amidon affidata a Francesco Piccolo e Francesco Bruni, insieme allo stesso Virzì. L’America è qui, in Brianza. Le donne conoscono la vita meglio degli uomini, la maneggiano più disinvolte; i giovani – vere vittime di questo tempo cieco – soccombono alle aspettative dei padri, infragiliti dal lusso o dall’assenza di speranza; i più poveri di mezzi sanno essere più generosi di sè e lungimiranti, sempre. In assenza assoluta di retorica, sono semplici annotazioni sul taccuino di chi osserva. Tocco di maestria le musiche di Carlo Virzì, percussioni etniche che danno al thriller il sapore di un viaggio altrove: tamburi per l’esplorazione, appunto, di una terra remota pericolosa e onnivora, la terra che ci sta mangiando. Si resta a lungo, nei giorni successivi, in compagnia dei volti e delle parole di Gifuni e Bruni Tedeschi, i più sorprendenti di un cast superbo. Lei:”Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto”: Lui: “Abbiamo vinto, amore. Abbiamo. Ci sei anche tu”.

Concita De Gregorio, La Repubblica – 7 gennaio 2014