“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

"Gadda Goes to War, or the Tragic History of Amleto Pirobutirro" - 2010

Press

L’iperbolica bravura di Fabrizio Gifuni

Lo spettacolo si compone di due parti, la prima tratta dai “Diari di guerra e di prigionia”, la seconda da “Eros e Priapo”. In mezzo, qua e là, come intercalare, frammenti dall’Amleto di Shakespeare, che si infilano come naturale complemento, facilmente riconoscibili per le diverse luci: azzurrine, a tracciare una L sul palco per il Bardo, biancastre dall’alto per Gadda. Gifuni riconosce in Gadda un Amleto novecentesco e ne segue le tracce nei suoi scritti, esemplificati nel riferimento del sottotitolo al protagonista di “La cognizione del dolore”.

Agosto 1915, il sottotenente di fanteria Carlo Emilio Gadda è a Edolo, in una pensione dove si respira aria fresca di montagna. La notte è agitata da sogni tristi, Gaddus è dominato da grande tristezza nonostante a casa stiano tutti bene; ma è oggetto degli scherzi indiscreti dei commilitoni e sente la mancanza di casa. Lo tormentano visioni di felicità perduta e gli affetti lontani. Ondeggia tra un sogno e l’altro, tra un desiderio e l’altro. Ama la patria ma ne vede i mali incurabili e ne è sconvolto, lui che si sente un “ardito impacciato” o piuttosto un “petulante timido”.
Le date e le pagine del diario si sgranano nel racconto di Fabrizio Gifuni, gli amici liguri rievocati con leggero (ma preciso) accento genovese. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, semper in eodem loco: i fatti della guerra sono agghiaccianti nella loro quotidianità, analizzata con lucidità e senza alibi. La cattiva fornitura delle scarpe, ad esempio, che si sfaldano alla pioggia: frode all’erario e danno al morale delle truppe. Ma “noi italiani siamo troppo acquiescenti al male”. Quel male che è “guardare con gli occhi dei cortigiani”. Pietà e ironia si fondono nel tratteggiare l’orrore di quegli anni terribili, il sacrificio di tanti poveri giovani, carne da macello dentro e fuori dalle trincee.
Poi la prigionia, il duro calvario, il martirio. E il ritorno a casa, alla vita non più normalizzabile dopo quell’esperienza. Totale e senza appello è la condanna alla guerra, mossa con racconti in prima persona. Il racconto di Gifuni, vibrato e appassionante, riporta un Gadda umano, il suo sentire, il suo essere nella guerra, senza falsità, senza eccessi.

La seconda parte è narrata con accento toscano, una tirata contro la dittatura, la tirannia, contro il potere assoluto. L’analisi della psicopatologia del Cuce (evidentemente il Duce) si concentra sul delirio sessuale, nel suo “giganteggiare fasullo” su scarpe con tripli tacchi che ricorda qualcun altro. Ma in Italia pare non esserci “cognizione” e la ripetizione è lì, sempre possibile.
Impressionante la parte finale. Le luci in sala sono accese, Gifuni si rivolge agli spettatori di oggi con le parole di ieri, che si riconoscono solo per gli accenti: i temi, invece, i soggetti e gli effetti sono tutti dell’oggi più stringente. In attesa di una resurrezione.

La lingua raggiunge altezze vertiginose; i lievi cambi di abbigliamenti ribaltano l’essere sul palco (una maglia a posto della giacca ed ecco le due parti del testo). Lo spettacolo è folgorante, compatto, veloce, anche grazie alla regia intelligente di Giuseppe Bertolucci. Fabrizio Gifuni è di iperbolica bravura nello restituire quella magnifica, ricercata prosa con una naturalezza che fa emergere ancora di più la profondità di spessore, il colpire al tempo stesso cuore e ragione. Gifuni è solo in una scena completamente vuota, all’inizio traccia un segno con un immaginario gessetto, crea un percorso immaginario che poi si riempirà di parole e delle immagini che da tali parole traggono vita. Gifuni non imita Gaddus, si fa megafono delle sue parole, dei pensieri, dell’uomo. Riuscendo a restituire una delle personalità più complesse della letteratura italiana. Una straordinaria prova d’attore. Uno spettacolo che non lascia respiro, che coinvolge, emoziona, costringe lo spettatore a interrogarsi, a pensare. A porsi domande, incessantemente.

Pubblico molto coinvolto, alla fine interminabili applausi.

F. Rapaccioni, 19 febbraio 2011