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La fiction su Basaglia? Un piccolo miracolo laico

Dopo il successo, a Febbraio, della fiction RAI in due parti C’era una volta la città dei matti… di Marco Turco, in cui interpretava lo psichiatra Franco Basaglia, l’attore Fabrizio Gifuni ha intrapreso la tournée dello spettacolo teatrale Gadda Goes to War, or the Tragic History of Amleto Pirobutirro, drammaturgia originale per la regia di Giuseppe Bertolucci.
Quella messa in onda ha ottenuto uno “share” notevole, con spettatori arrivati quasi a 6 milioni per la seconda puntata… Nella partecipazione al progetto non avevo avuto dubbi, un personaggio come quello di Basaglia passa una volta nella vita, se passa. Siccome viviamo, come dice Gadda, nelle paludi della Storia e le speranza ce le teniamo sempre in tasca perché c’è poco da sperare, in quel caso un piccolo miracolo laico si è compiuto.

Nell’arco di qualche mese, lei si è visto dapprima in un piccolo film indipendente, Beket, di Davide Manuli, dalla circoscritta e fugace distribuzione, e poi in prima serata sulla tv di Stato. Con due ruoli molto diversi tra loro. Il che dà l’idea di un forte eclettismo nel suo percorso artistico.

Cerco, ogni volta, di fare le cose in cui credo e che mi piacciono, e questo mi fa attraversare spesso territori produttivamente, organizzativamente, artisticamente molto differenti. Il che mi sembra molto sano, in Italia penso di essere uno degli attori che ha fatto più opere prime. Allo stesso tempo ho avuto la fortuna di incontrare registi come Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci, Liliana Cavani oppure quei pochi casi in cui la televisione offre qualcosa di stimolante e interessante. Senza dimenticare mai che il luogo privilegiato del mio lavoro non è in nessuno di questi tre, ma in teatro. Tutto parte da lì, le altre sono delle digressioni felicissime che però non possono proprio prescindere dalla mia attività sul palcoscenico.

Rispetto ai debutti cinematografici, cosa la convince di più a partecipare: il progetto, la sceneggiatura o altro?

Ci sono tante variabili, entrano in gioco componenti che spesso possono essere anche in contraddizione, presentare aspetti favorevoli oppure no. Magari c’è una sceneggiatura straordinaria ma con una produzione che non dà nessuna garanzia e che sai che sarà un calvario dal primo giorno di riprese, o viceversa una produzione valida però con una scrittura zoppicante, o ancora un regista con cui avresti sempre voluto lavorare ma con un personaggio che non ti convince. Così, l’ideale è quando si allineano più varianti possibili, cioè un progetto solido,, un autore che stimi, un ruolo soddisfacente. Siccome questo non avviene quasi mai, a quel punto bisogna affidarsi a un intuito, lasciare l’analisi razionale, e dire sì a naso.

Cosa porta il far convivere la passione per il teatro con gli impegni per il cinema e la televisione?

Credo che per un attore sia una pratica non soltanto salutare, ma anche indispensabile, cercare di creare una serie di vasi comunicanti in cui queste diverse forme d’espressione possano convivere in un’osmosi e uno scambio continuo. Ogni volta che torno su un set mi porto tutto quello che ho acquisito dalle ultime esperienze teatrali e viceversa. Questo secondo me crea una corrente molto dinamica. Può essere più pericoloso – ma poi, per carità, ognuno fa le sue scelte e ci sono dei percorsi che si determinano anche da soli – praticare per 40 anni, in maniera dignitosissima, soltanto teatro o cinema; però io credo che, potendo, si debba cercare un pochino di smuovere questi territori, anche per non dare la sensazione che siano mestieri diversi come è successo fino a un decennio fa, quando si aveva la convinzione che esistessero attori di teatro, cinema e televisione. Ecco, tornare a mischiare un po’ le carte serve a rimettere il lavoro dell’attore al centro della discussione, poi sta a lui confrontarsi con le diverse tecniche espressive.

Lei come ci riesce?

Cerco di non fare tournée lunghe anche 7-8 mesi come agli inizi, in teatro ormai da diversi anni lavoro quasi esclusivamente a progetti miei, da me pensati fin dalle fondamenta, e in cui cerco fin dall’inizio di contingentare i tempi, per cui magari dedico 4 mesi pieni al teatro e poi lascio il resto dello spazio a cinema e televisione. Certo, nel programmare ci vuole anche un po’ di fortuna, inoltre questo è un lavoro in cui per molti mesi sembra che non fai niente e poi improvvisamente succede tutto. Mi è capitato anche quando è uscito il film di Basaglia e ho debuttato con lo spettacolo su Gadda, per cui si ha la sensazione che uno lavori tanto mentre in realtà viene da 5 mesi di studio.

Federico Raponi, Liberazione – 6 aprile 2010