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Massimo Castri

Quel salto che non dimentico (That leap I will never forget)

Credo che Massimo fosse davvero felice solo in teatro perché solo in quel luogo poteva abitare di nuovo, pienamente, la sua infanzia. E c’era molta infanzia nel suo teatro: figli scombinati, non cresciuti, feriti, male educati, in conflitto con i grandi ma soprattutto con se stessi. E poi adulti cialtroni, insensati, violenti o bugiardi. Un’umanità storta e inadeguata, alle prese con la vita.

Massimo Castri è stato uno dei miei maestri teatrali. Se Orazio Costa è stato il grande maestro del periodo Accademico, l’incontro con Castri è coinciso esattamente con il mio debutto in teatro. In un’Elettra di Euripide, nata per il Teatro Caio Melisso di Spoleto nel 1993 e prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria.
Uno spettacolo per tanti versi memorabile.
In primo luogo, dal mio punto di vista, era un debutto da far tremare le vene ai polsi. Iniziare con una tragedia, nel ruolo di Oreste, diretto da uno dei più grandi registi italiani, con una compagnia di grande esperienza (con Annamaria Guarnieri, Tonino Pierfederici e Galatea Ranzi fra gli altri) è uno di quei banchi di prova in cui si può anche soccombere. O sopravvivere molto fortificati dall’esperienza.
In secondo luogo, l’Elettra era soprattutto uno spettacolo bellissimo, di quella bellezza un po’ magica che solo certi spettacoli riescono a sfiorare. E lo dico, se mai è possibile, da spettatore ancor prima che da attore. C’erano alcuni istanti in cui riuscivo a guardare lo spettacolo – pur standoci dentro – e a commuovermi. Senza dubbio una delle regie più belle degli ultimi vent’anni del lavoro di Castri.

Di quella prima esperienza ricordo nitidamente le lunghe prove a Spoleto d’inverno e anche quelle del riallestimento dell’anno successivo a Bevagna, in quel piccolo gioiello che è il Teatro Torti, riaperto dopo tanti anni per quella occasione. Prove per me difficili. Avevo paura di deluderlo. Che si potesse pentire di aver puntato su un ragazzo sconosciuto, appena uscito dall’Accademia, per un ruolo così importante. Sudavo in un modo impressionante. Il calore degli abiti e delle luci, certo, le corse sul campo di terra con i solchi dell’aratro che mettevano a rischio le caviglie. Ma oltre a questo, una tensione interna che non mi lasciava mai e che cercavo di mettere al servizio del racconto.

A quello spettacolo seguì il grande progetto sulla Trilogia della villeggiatura di Goldoni, un lavoro importante, durato diverse stagioni, per il quale Castri aveva riunito una gran parte degli attori e delle attrici con cui si era trovato meglio negli ultimi anni. Dando vita a una compagnia, credo, abbastanza speciale, che metteva insieme diverse generazioni. Abbiamo lavorato insieme quattro anni. Poi, come a volte accadeva già allora, in un periodo di crisi ancora non conclamata, le incertezze produttive dei teatri stabili costrinsero la compagnia allo scioglimento.
Fu una vera “Trilogia”, perché a differenza di quella storica di Strehler o anche di quelle successive di Vacis o di Servillo, che avevano riunito tutta la Trilogia in un unico spettacolo, Massimo l’aveva voluta come Goldoni l’aveva pensata. Con i tre testi separati visti come tre capi d’opera, tre momenti linguisticamente distinti. Li portammo in scena, anno dopo anno, e poi li rappresentammo tutti di seguito, in tre settimane, soltanto alla “Pergola” di Firenze.

Castri è stato un grande artista e un grande intellettuale, una persona che è riuscita a mettere in connessione, in alcuni momenti, in maniera abbastanza miracolosa, la sua testa con la sua pancia. Quella di Massimo era un’anima contadina, un po’ come la sua Elettra, che viveva su un campo in mezzo ai sassi. Un uomo legato visceralmente agli umori e agli odori della sua terra, la Toscana, e allo stesso tempo un solido intellettuale. Un regista in grado di dare una lettura personalissima e spesso sorprendente di alcuni testi del Novecento teatrale. Un etrusco, si definiva – ma poi chissà com’erano gli etruschi – dal carattere ispido e spesso scontroso. A volte avevo l’impressione che ricercasse, in maniera un po’ disperata, un modo per ritrovare il piacere. E lo cercava in uno dei pochi luoghi in cui è ancora possibile condividere la felicità dei giochi. Per questo spesso e volentieri litigava furiosamente con i suoi compagni – che fossero attori, produttori, critici o addetti ai lavori – esattamente come poteva litigare un bambino, grande e grosso, a cui qualcuno voleva rovinare la festa. Una volta l’ho visto mentre spiava dal fondo della platea un suo spettacolo. Lo faceva sempre, dopo un certo numero di repliche, per vedere se gli attori stavano ‘sbracando’ troppo il suo spettacolo. Borbottava, commentava ad alta voce, non si dava pace. Una signora lo zittì bruscamente. Lui si è girato e con la massima serietà gli ha detto: ‘Ma che vuole, lei ?’. Poi – con lo stesso tono che ha il bambino che si è portato la palla da casa e se lo fanno arrabbiare se ne va e se la porta via – indicando la scena ha aggiunto: ‘Quello l’ho fatto io!’.

Massimo sapeva divertirsi e faceva divertire, facendo ammattire gli attori, come spesso accadeva e continua ad accadere in quel teatro, al tramonto, che è il grande teatro di regia del Novecento. Con Castri però – a differenza che con altri registi, forse più ‘sinceramente’ dittatori sulla scena – c’era sempre una specie di trappola di libertà. Durante le prove gli attori avevano spesso l’illusione di poter lavorare liberamente, improvvisando per ore. Fino a quando intuivi che il lavoro di improvvisazione terminava nel momento in cui avevi indovinato quello che lui aveva in testa. E questo, spesso, provocava attriti, malumori e qualche frustrazione negli attori. Ma al di là di questo – è lunga e irrinunciabile l’aneddotica legata ai grandi maestri di quella stagione teatrale, come Strehler o Ronconi – Castri era una sorgente continua di suggestioni, di voglia di fare, di sperimentare, di immergersi nel proprio lavoro. Difendeva il valore artigianale del teatro, era curioso delle tecniche dell’attore.

Sono certo che Castri si sentisse veramente felice solo mentre preparava gli spettacoli, e ancor più quando li immaginava. Quando iniziava a metterli in scena, alle prove, riusciva ancora a divertirsi molto. Ma quando lo spettacolo debuttava, subito rientrava in quella prigione di nevrosi in cui ha vissuto per tutta la vita, e che lo straziava, perché Massimo era una persona fondamentalmente sofferente. Quando usciva dalla sala e tornava alla luce, il suo sguardo sul mondo tornava ad essere uno sguardo ferito, lo sguardo di una persona che non ci stava bene, che non si riconosceva in quasi nulla di quello che vedeva intorno. Solo in teatro riusciva a dipanare il suo groviglio, a fare pace con il garbuglio dei suoi fantasmi.

Massimo Castri ha sopportato il sistema teatrale italiano con grande fatica e con grande fatica il sistema sopportava lui. Eppure sentiva che quello era il suo posto, quella la sua storia e come un bambino ostinato rivendicava il suo spazio all’interno di quel mondo, scontando spesso per il suo carattere ma soprattutto per la sua libertà, anche dei prezzi piuttosto alti.
Fra tutti i ricordi legati al mio lavoro con Castri uno più degli altri si è conservato intatto fino ad oggi. Quello legato al modo in cui Massimo aveva immaginato il mio ingresso in scena nell’Elettra. L’arrivo di Oreste. Il pubblico era seduto soltanto nei palchi e spiava la storia dall’alto perché tutta la platea era occupata da un enorme campo di terra arata con in cima un ulivo. Le luci illuminavano la storia dall’alba al tramonto. Io dovevo restare nascosto per diverso tempo prima di entrare in scena in un palco laterale di secondo ordine e, quando era il momento, saltare sul campo iniziando ad inseguire Elettra. Lo spettacolo iniziava e io me ne stavo un quarto d’ora al buio, accucciato, con il pubblico a fianco che non mi vedeva, in attesa di saltare. E sera dopo sera cercavo di non pensare fino all’ultimo istante a quello che stava per succedere. Era la mia sfida. Con un misto di paura e coraggio mi preparavo al salto, sonnecchiando fino all’ultimo secondo utile. Poi, con il cuore in gola, facevo volare il mio bagaglio, che mi precedeva in scena, e poi mi lanciavo.
Mi era toccato in sorte di saltarci dentro, allo spettacolo, in una specie di rito iniziatico che mi è servito molto, credo, a registrare con la sola memoria del corpo, come si può entrare in un altro spazio e in un altro tempo. Quello dell’immaginazione.
Sarò sempre grato a Massimo di avermi regalato quel salto.

Fabrizio Gifuni