Ha interpretato Basaglia, De Gasperi, Paolo VI.
Ha scelto Gadda per descrivere il premier seduttore.
Ritratto di un artista fuori dagli schemi.
Che non cerca la notorietà
Fabrizio Gifuni è un uomo colto che fa l’attore, quasi un ibrido nel mondo attuale dello spettacolo. Lui non sembra vantarsene, ma linguaggio e modi lo tradiscono al primo impatto. E’ infatti risoluto nel chiedere che non si parli troppo della sua famiglia d’origine (il padre Gaetano è stato a lungo segretario generale del Quirinale) e garbato nello spiegare che “nel paese più familista del mondo diventerebbe subito la cosa più importante”. Essere considerato un figlio di papà può risultare fastidioso anche a 44 anni, anche se porti Gadda e Pasolini in teatro, se hai alle spalle una ventina di film (il più celebre resta “La meglio gioventù”), se hai appena interpretato con successo in tv il ruolo di Franco Basaglia, lo psichiatra che aprì le porte dei manicomi. Una prova di recitazione che ha impressionato per efficacia e capacità mimetica, tanto che la faccia di Gifuni che fa Basaglia rischia ormai di sovrapporsi a quella dell’originale.
La stessa postura, la stessa voce, le stesse espressioni di Basaglia. Come riesce a riprodursi così in un altro?
Studiando moltissimo, sprofondando a lungo in tutta la documentazione reperibile. L’ho fatto per Basaglia come lo avevo fatto per De Gasperi e Paolo VI. Il più grande servizio che si possa rendere a un personaggio e al proprio lavoro è quello di sparire in lui.
Davvero basta lo studio? Lei ha una capacità di mimesi che si ricorda solo in Gianmaria Volonté
E’ un onore, anche se in alcuni casi Volonté è stato accusato di esagerare. Si tratta di un istinto naturale e anche di una scelta. Si può “essere” quel personaggio o estraniarlo rimanendo sempre se stessi come faceva Carmelo Bene. Ma fin dall’infanzia io so di avere un canale per mettermi in contatto profondo con una persona. Io riesco a entrare nella sua linea del suono.
Che cosa vuol dire?
Ascolto la sua voce, trovo il respiro e, attraverso il respiro, raggiungo il corpo che è tutt’uno con la mente. E’ il mio modo di recuperare quella mimesi primitiva di cui sono capaci solo i bambini. Un bambino che gioca a fare il vento diventa il vento. E un attore può così rincorrere la propria infanzia.
Carpisce le voci anche nella vita normale?
Dov’è la distinzione? Ciò che faccio è il risultato di ciò che sono. Scherzando ma non troppo, penso che se non avessi deciso di fare questo lavoro, avrei qualche problema di gestione della personalità.
E invece?
Invece ci convivo, anzi uso le mie tante parti al servizio di una professione che è anche una passione. Un privilegio raro in questi brutti tempi.
Non le piacciono?
I tempi? A chi possono piacere? Viviamo in un clima brutto, opaco e pericoloso. Quando porto in teatro Gadda esprimo attraverso di lui anche la mia rabbia.
Già, il suo monologo “L’ingegner Gadda va alla guerra” è una grandiosa invettiva. E’ per questo che lo propone?
Non proprio. Ho costruito una drammaturgia sul diario di guerra di Gadda per indicare la chiave della sua arte. Alla fine del primo conflitto mondiale, a cui partecipa da convinto interventista per scoprire la tragedia delle armi, l’orrore di Caporetto, la prigionia nei campi austriaci e la morte del fratello aviatore, Gadda dichiara che non scriverà mai più perché “nulla è più degno di ricordo”. E invece proprio per quella ferita profonda, per resistere a quella morte in vita, è costretto a scatenare la sua scrittura fantasmagorica.
Nel suo spettacolo c’è però dell’altro…
C’è il Gadda del ’45, quello che in “Eros and Priapus” fa il suo strepitoso referto clinico sulla psicopatologia erotica del presidente del Consiglio Benito Mussolini e soprattutto sull’attrazione periodica che il popolo italiano prova verso questo tipo di figure affetto da delirio narcisistico.
Vede che entriamo nell’attualità.
Ma è l’attualità che conferma prepotentemente le cose che Gadda scriveva più di 60 anni fa. Succede così ai geni di visioni profetiche che conquistano il diritto all’invettiva dopo aver fatto a pezzi se stessi. Anche Pasolini, che scendeva di persona all’inferno e sul quale ho fatto un altro spettacolo, aveva visto con largo anticipo l’omologazione, l’avvento del nuovo fascismo, l’uso criminale dei mezzi televisivi.
Lei ha passioni letterarie che appartengono alla generazione precedente. Come lo spiega?
Forse con il tentativo di sfuggire a quello spaesamento che si prova ad essere ventenni negli anni ’80. Finiva allora ogni istanza collettiva e si aprivano soltanto percorsi individuali. E’ una palude dove siamo ancora immersi e dove l’assenza di un’idea comune dà lo spazio solo alle opinioni di parte.
Per esempio?
Uno dice:”Questo paese è fondato sulla resistenza”. L’altro risponde:”Io penso di no”. E gli sembra normale. La demolizione della memoria condivisa ha prodotto anche l’azzeramento della memoria breve. Se non c’è ricordo del giorno prima, il giorno dopo puoi dire e fare qualsiasi cosa. Vale tutto, no?
E’ sicuro che non avrebbe fatto volentieri il politico?
Casomai il magistrato. Ho studiato con passione il diritto, anche perché ha misteriose assonanze con l’arte drammatica. Del resto la tragedia greca si fonda proprio sulla nascita del diritto. Stavo anche per laurearmi con una tesi su “Rito processuale, rito religioso, rito teatrale”, intenzionato a scoprire il loro legame.
Ma…
Ma sapevo già che avrei fatto l’attore. Lo sapevo fin dal liceo, quando in una messa in scena scolastica “Giulietta e Romeo” ho impersonato Merusio e ho scoperto che recitare mi dava un piacere fisico. Niente dopo aveva la stessa intensità. Così più tardi, mentre frequentavo Giurisprudenza, senza dire niente in famiglia ho fatto l’esame all’Accademia d’arte drammatica e sono stato ammesso.
Come l’hanno presa i suoi?
Non ho visto lo sconcerto che mi aspettavo. Sia mio padre che mia madre hanno avuto una reazione attonita ma non contrariata. Era evidente che si preoccupavano e si chiedevano:”Ma cosa va a fare? Ma sarà capace?”
Oggi sanno che era capace. La sua però è una popolarità discreta, di nicchia. Pensa che diventerà mai un divo?
Non lo so e non è questo il punto. Pur ritenendo che il lavoro dell’attore abbia una sua unicità, nella pratica faccio dei distinguo. In teatro porto avanti progetti miei, che penso fin dalle fondamenta, sullo schermo continuo a lavorare da interprete puro. Questo mi mette in salvo da esplosioni improvvise di notorietà.
Le considera un pericolo?
Senza punte di popolarità è più difficile lavorare, ma almeno non hai l’obbligo di fare cinque film all’anno perché sei l’attore su cui il mercato sta puntando, e puoi scegliere. Oggi io sono al compimento di 18 anni di professioni: Gadda e Basaglia mi hanno dato grandi soddisfazioni. Sto bene così, anche perché ho due bambine piccole, di 4 e 6 anni, e non mi va di lasciarle troppo a lungo.
Lei esagera con le qualità. Sta dicendo anche che è un buon padre?
Non lo so. Sono troppo occupato a vivere questa paternità per guardarmi dall’esterno come faccio nel lavoro. Però io e mia moglie, Sonia Bergamasco, stiamo attenti a garantire la presenza di uno o dell’altra. Anche perché sono anni di puro godimento. Quale spettacolo può sostituire quello di una creatura che va in prima elementare e comincia a mettere insieme le sillabe?
Faccio un tentativo: un film come protagonista con Scorzese?
Beh, finora non è capitato, e quindi mi è andata bene. Anche perché, se io sono quello che faccio, il tempo che passo con le mie bambine è un patrimonio che prima o poi andrà a finire nel mio lavoro.
Stefania Rossini, L’Espresso – marzo 2010