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"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

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Il dio di Roserio

Nessun attore oggi potrebbe offrirci le stesse emozioni che ci dona Fabrizio Gifuni, magnifico, inarrivabile interprete del racconto di Giovanni Testori. Protagonista di un teatro di narrazione che travalica i generi e i limiti per essere “semplicemente” teatro

Sono ancora emozionata e piena di gratitudine e di meraviglia per la serata appena terminata al Teatro Franco Parenti di Milano. Una serata così perfetta che mi ha fatto sentire l’urgenza di scrivere per condividere con voi, a caldo, le mie emozioni. Una serata con una valenza teatrale fortissima che riportava a casa sua, al Teatro Franco Parenti che con il nome di Salone Pier Lombardo aveva contribuito a fondare insieme a Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, l’immenso Giovanni “Gianni” Testori. Serata perfetta anche perché a dare voce al mondo violento, squarciato da lampi di poesia di Il dio di Roserio c’era uno straordinario Fabrizio Gifuni che da solo in scena ha saputo restituirci il mondo del primo Testori, lo scrittore, pittore, critico, affascinato dal mondo degli umili, dei degradati, dello sport spesso raccontati attraverso una lingua mescolata di “milanesismi”, di “lombardismi” che grazie all’interprete assumono una valenza poeticamente epica, formidabile.

Scritto e pubblicato nel 1954 come racconto lungo per i tipi di Einaudi nella collana diretta da Vittorini che però non lo amava, dato da leggere a Calvino che pur riconoscendone il valore non lo condivideva, Il dio di Roserio inteso come personaggio sarà presente nel volume Il ponte della Ghisolfa, che però non conterrà questo primo pezzo. Pensando che oggi per noi Roserio è il capolinea del tram 19 e che tutto quello che qui si racconta avrebbe potuto succedere davvero, è un po’ come ritrovare il bandolo di una matassa che si era persa nei nostri ricordi.

Quello che Fabrizio Gifuni riesce a creare con l’aiuto di una bicicletta storta, di una ruota ammaccata su di un mucchietto di terra, di un alto sgabello con microfono con il solo aiuto della voce usata come un vero e proprio strumento, di una gestualità spezzata, di movimenti del corpo teso come un arco, gettandosi nella mischia delle parole, nel trascorrere e trascolorare dei paesaggi lombardi là dove il lago di Como lascia il posto ai boschi, per poi diventare polvere, sassi, rotaie, tetti d case, suoni di campane è poeticamente formidabile. Il mondo degli umili, dei vecchi, di chi ha poco o nulla da cavarci un pasto, ma anche di quelli come i due personaggi di questa storia toccati dalla “grazia” del tutto speciale ma anche del tutto testoriana del fascino della sfida (anche sportiva) della crudeltà, dei delitti efferati, del male, spesso incapaci di reggere quanto fatto, di convivere con il senso di una colpa che li accompagna, trova in questo attore straordinario un’interpretazione che non si dimentica.

Protagonista neanche tanto occulta di Il dio di Roserio è la bicicletta, anzi una corsa per dilettanti “La coppa del lago”, arrivo a Milano, alla quale partecipano due corridori della squadra Vigor, Dante Pessina, considerato dai suoi tifosi un “dio” da cui il titolo del pezzo e il suo gregario Sergio Consonni. Testori descrive le sensazioni e quella vera e propria follia che prende i protagonisti di questo sport epico dove il corridore, ben prima dei molti scandali che ne hanno ormai da anni sporcato l’immagine, è una specie di eroe che combatte contro la fatica, il sudore, la sete, la stanchezza, con la voglia, costi quel che costi, di farcela. E fa tutto questo senza avere mai scritto una cronaca sportiva, al di fuori dunque di qualsiasi stilema eppure poche pagine come queste sono permeate di quello spirito autenticamente popolare che è stato il mondo del ciclismo.

In un’ora o poco più siamo letteralmente sopraffatti da questo racconto in cui quel tanto di fatica e di fatalità dei corridori nell’andare su e giù si contrappone all’apparente serenità di un paesaggio che cambia continuamente sottolineando la solitudine dei due rotta solo da una motocicletta che precede la corsa e dalla presenza urlante del responsabile della Vigor che ha due uomini in fuga di cui uno, il “dio”, sembra non farcela a mantenere la velocità del gregario che lo mette in crisi mentre a sua volta il gregario è come preso da una specie di inarrestabile prova di forza verso il “capo” che lo carica di insulti. Ovvio che la storia abbia un finale tragico. Il Pessina, infatti, butterà giù dalla bicicletta il Consonni che per l’alta velocità farà un volo picchiando la testa contro un sasso che lo tramortirà riducendolo nel corso del tempo a un vegetale.

Gifuni inizia la sua performance dalla fine, dal delirio e poi dagli ultimi lampi di lucidità del Consonni che rivive tutto ciò che l’ha portato a quell’attimo fatale, ricordando continuamente il Pessina che gli dice – non sappiamo se per vigliaccheria o per paura – che quel che è avvenuto è stata colpa di un sasso. Tocca a noi, allora, precipitare insieme a lui in questo pozzo di follia e di passione, di orgoglio e di vergogna. Credo che oggi nessun attore potrebbe offrirci le stesse emozioni che ci dona questo magnifico, inarrivabile interprete di un teatro di narrazione che travalica i generi e i limiti per essere “semplicemente” teatro. Gli spettatori che affollano il Franco Parenti lo sanno e seguono con un silenzio tesissimo, profondo la sua straordinaria prova. E l’applauso alla fine è lunghissimo e liberatorio.

Maria Grazia Gregori, delteatro.it – 5 maggio 2017