“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Fabrizio Gifuni, straordinario ingegner Gadda

Partito in sordina è diventato nel giro di pochi mesi uno degli spettacoli più apprezzati del momento: è L’ingegner Gadda va alla guerra, con un grande Fabrizio Gifuni nelle vesti sofferte, spaesate e nevrotiche di quel Carlo Emilio, il grande lombardo, che ha segnato alcune tra le pagine più alte del nostro Novecento, in scena per due sere al Verdi di Pordenone. Un monologo intensissimo e mozzafiato, diretto da Giuseppe Bertolucci, nel quale, il racconto dell’esperienza individuale di Gadda, tratto dai Diari di guerra e prigionia, si allarga alla dimensione più generale dell’assurdità della guerra per arrivare a quell’assurdità del vivere che ne informa tutta l’opera tra dolore e ironia, tra disincanto e passione, tra rabbia e desolazione. E sono le pagine di lui capitano, nell’estate del 1915 in quel di Edolo, alle prese con la vita squallida e angosciante di caserma, con commilitoni che nulla hanno da spartire per formazione sensibilità cultura con lui e le sue angosce, il suo disagio esistenziale e il suo profondo malessere per tutto quanto di retorico, vuoto, militaresco, invece, quella vita gli riserva. C’è poi il racconto straziante della cattura sull’Isonzo all’indomani di Caporetto, la prigionia e il ritorno con il dolore per la perdita dell’amato e odiato fratello Enrico. Poi, con un colpo magistrale di teatro, ecco l’avvento del fascismo: una canzonetta di quelle becere e razziste di propaganda diviene la pista di lancio di un’esibizione che da teatro di varietà, petrolinesco, irriverente e sarcastico, si trasforma in feroce invettiva, in analisi appassionata e sconsolata del “fenomeno” fascismo, tra Eros e Priapo appunto, tra megalomania narcissica di un dittatore infoiato e donnaiolo, vittima di un eros che poi riversa nell’imporre anche con la forza un consenso dittatoriale. E qui, la scrittura di Gadda, che Gifuni insegue con funambolica perizia verbale e mimica, si lancia in una tanto dettagliata quanto amaramente comica descrizione della fallocrazia fascista, esaminata nei minimi dettagli, dall’abbigliamento delle camicie nere ai rituali collettivi. Con acume psicanalitico Gadda mette in parallelo la psicologia legata all’erotismo e l’infatuazione degli italiani (e in particolare le donne) per il “mascellone”, che diventa unico capo e polo d’attrazione erotica per la nazione, capace con le sue manie, di rendere folle un intero popolo. Un’analisi che nell’incalzare incontenibile del dire di Gifuni diviene specchio dei nostri tempi, in un parallelo con l’oggi che non ha nulla di forzato o antistorico, bensì di profonda sconsolatezza tanto è preciso all’ieri! Il tutto con un linguaggio che più gaddesco non si può, ricco di inflessioni dialettali, di invenzioni linguistiche, di quei barocchismi che stemperano la rabbia nell’ironia e nella presa in giro sottile e parodistica. Solo, sulla scena vuota, con l’aiuto di una sedia e con piccoli cambi di abito, quali togliersi la giacca e infilare i calzoni negli stivaletti per le pagine dedicate alla Grande Guerra, e poi via la camicia per l’epilogo in maglioncino nero dedicato al fascismo, di ieri e di oggi, come malattia di una nazione senza capacità critica, affascinata dal Kuce (così è chiamato Mussolini in Eros e Priapo) di turno, Gifuni dà prova di un’abilità e di un talento mostruosi, capace di trasformarsi anche visivamente inseguendo l’incalzare del discorso con una partecipazione e una verve camaleontica che passa da momenti accesi nell’ira e nell’indignazione ad altri di più trattenuta e dolente interiorità, a dire di un’anima e di un’intelligenza inquiete e straziate per quella cognizione del dolore del vivere che nello spettacolo trova brevi illuminanti riscontri nell’Amleto di Shakespeare. Una prova d’attore unica, per uno spettacolo davvero e finalmente necessario, di quella necessità che aiuta a riflettere e comprendere l’oggi, senza proclami o comizi ma attraverso le parole di un poeta e la bravura di un interprete che le fa risuonare vive nel nostro presente. Serata indimenticabile, siglata da una vera e propria ovazione del pubblico.

Mario Brandolin, Messaggero Veneto – 13 febbraio 2011