“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Gadda e i Black bloc, due diverse follie della lingua lanciata sul vuoto

Una lingua feroce nella sua gioia è la resurrezione di Gadda, intuisce Gifuni, portando in scena i diari e le cocenti analisi politiche dell’Ingegnere sotto il taglio di luce di un Amleto che mette in scena le sue turbolenze per distrarre se stesso per primo dalla faccia oscuramente vana di quest’essere umani. Così, la trionfante protesi linguistica di Gadda è una postura spontanea di danza sulla pulsione di morte che già bacava l’indole dell’ingegnere ragazzo, sputato dal suo paese in una miserrima guerra di trincea. I diari di guerra di Gadda sono il documento di una superintelligenza incline alla compassione e insieme alla insofferenza, che tiene a bada l’orrore e le sue proprie lacrime non spostando più niente all’interno della sua cassapanca. Lo sforzo di controllare l’incontrollabile si concentra in una gigantesca ossessione, sorta di trasloco in massa della propria attenzione su cose futili per tacerne di orrende. Ma il pensiero no: quello, contrariamente, ingigantisce. Avviandosi a una seconda guerra di soldati scalzi, la lingua di Gadda è diventata il calco straripante di un vuoto sotterraneo, un modellismo bianco fitto dei mortaretti di una invenzione allo stato libero. Come il barocco napoletano che sotto ha le cave di tufo, il rovescio eroso della città di sopra, la pietra divorata per formare il groppo della Napoli visibile, così sotto la superficie della pagina gaddiana stanno le gallerie piene di teschi e scheletri che appena sopra il pelo d’acqua dei fogli ballano nell’ordinato carnevale di una lingua così piena di Eros organizzato in Logos. Ovvio che la lingua sia il cardine primario della comunicazione culturale di un popolo. Se Gadda a tal punto la rifonda, questo è l’effetto del disperato amore che egli porta alla sua gente, così cortigiana ma così coraggiosa. Sulla fondamenta di questa fantasia organizzatissima Gadda vorrebbe anche – ma disperatamente – rifondare la cultura del proprio paese. Fa paura. Fa davvero paura stare così capofitti in un ricorso vichiano, vedere con gli occhi nostri come l’Italia non sia ancora affrancata dal mito fascista di Priapo. Al punto che si è reso necessario affiggere all’ingresso del Teatro Vascello un cartello dove è confermato che tutte le parole dolenti ed esplose che vengono pronunciate sulla scena sono esclusivamente di Gadda e Shakespeare. Tanto frequente doveva essere la domanda del pubblico: ma davvero non avete aggiunto niente?, perché ogni parola sembra scritta per noi spettatori. O meglio, attori noi pure di una immutata psicologia italiana. Gifuni è stato totalmente posseduto dall’ingegnere, dalla sua intelligente malinconia e dalla sua dolentissima ironia, fino alla sciorinamento di una straordinaria agilità buffonesca che mima la fase attiva e passiva dei rapporti di potere, affetto da sventolìo magno del turibolo del proprio io-minchia. L’applauso interminabile è gratitudine verso quel Gadda che ci svela le meschinerie nostre, verso l’attore che ci ha presi in giro con tale amore ed è catarsi e gioia. Siamo infatti, oggi più che mai, dentro gli effetti della inclinazione del popolo italiano alla fallocrazia fascista che Gadda tanto lucidamente analizzava in Eros e Priapo, prendendosela più con gli italiani idolatri e cortigiani che con il loro Kù-cè, il mai nominato Mussolini, pericolosa ombra manzoniana che ne ha sparso a fiumane di vero sangue. Ma va anche detto che lo scenario planetario nel quale si muoveva quella anche provincialissima maschera narcissica da operetta è davvero cambiato e i fatti recenti delle manifestazioni mondiali e in particolare di quelle italiane, così opacamente infestate dalla violenza, ne sono dolorosa e viva testimonianza. Siamo dentro la inafferrabilità del mercato globale. Dov’è, adesso, il nemico? La propensione erettile è diventata un grafico di borsa che ha da tendere all’alto. Il mondo intero è progressivamente passato da quegli schieramenti ancora in qualche modo umanamente comprensibili, dalla tragedia ancora comunicabile delle cortigianerie e dei giovani mandati in guerra senza altro motivo che cambiare colore a legnate alle belle facce abissine, all’astrazione del fallomercato, per restare nella metafora analitica gaddiana. Non siamo emancipati ma ora il potente è astruso, mutevole e inafferrabile, la sua emanazione è planetaria e ha lo scherno e lo schermo grammaticale di un ologramma. Ma l’astrazione diventa concreta nei suoi effetti sul nostro pane quotidiano e sul nostro futuro. E allora alla genialità carnascialesca di Gadda rischiamo di sostituire i sampietrini che partono da un vuoto e vengono lanciati verso il vuoto. Già Pasolini aveva letto i rischi del nuovo fascismo, a lui contemporaneo, la cui divisa era diventata un costume intimo e non tanto una camicia che, una volta scrollata di dosso, restituiva al corpo la dignità e il vigore della sua libertà e ogni uomo tornava a possedere un vivo torace animale. Sono passati altri cinquant’anni da quell’analisi di un’Italia già terminale. Cinquant’anni dopo la divisa interna è diventata un esangue costume morale, un involucro che sta in piedi da solo senza custodire speranza alcuna ma molta della rabbia vandalica che abbiamo visto all’opera lo scorso 15 ottobre. Io c’ero, con mio figlio, alla testa del corteo: ci sono venuti addosso con i pali dei cartelli stradali, ho dovuto proteggere il mio piccolo fiutando le vie di fuga come una bestia. Dopo, sono tornata. Solo per rabbia, per urlare che basta! e fiutare invece da presso queste persone ormai abituate alla solitudine e al vuoto, secondo la lucidissima analisi di Andrea Cortellessa, persone che hanno bisogno di guide e altrimenti di bersagli. Non importa se il bersaglio è un simbolo come la vetrina di una banca. Nessuno di loro – spero – si illude di scardinare il sistema delle banche facendo crollare la vetrina di una remota filiale dell’Impero. Così accade solo che i civili che erano oceanicamente fuoriusciti tornino a seppellirsi nelle trincee verticali delle case. Ma davvero non ci resta nient’altro da fare? Ma quale sforzo di quale lingua mai, quale sfarzo potrà ballare oggi con noi sopra questa mancanza di futuro, su questa sordocieca indifferenza internazionale? Mantenendo la metafora della città vuota sotto quella piena, sono sicura che per cominciare convenga riabitare le nostre ormai svuotate fondamenta umane, rifarci intimi uno all’altro, rimpolpare di carne i nostri scheletri nudi – o davvero sopra di noi danzeranno soltanto le imago, il vapore di una scena dove le sagome nere dei peggiori fantasmi colpiscono vetrine perché non ci sono nemmeno più esseri umani da finire, il nemico è ormai astratto e inafferrabile, irraggiungibile, forse anch’egli già terreo. Ma che vuol dire riabitare le nostre fondamenta? Vuol dire innanzi tutto riabilitarci ai nostri stessi occhi, credere di avere un minimo di “potenza”, di incisività storica e politica nella storia grossa di Gadda. Uscire dalla nebulosa orribile della rassegnazione che fa disperare. La sola via per interpretare il mondo è la cultura. Studiare è la nostra sola libertà. Studiare e tramandare. Io credo che davanti all’invernale scontento che genera questa violenza sia un preciso dovere continuare a crescere i nostri ragazzi dicendo loro che la cultura aiuta a decifrare il mondo: a essere critici, a essere liberi. Forse è poco, ma è vero. Niente altro può invertire la caduta verticale del nostro paese che si dirige verso un vuoto forse neanche più erettile: il vuoto senza lingua dunque il vuoto armato di sampietrini e picconi. Il vuoto cieco e cattivo dei neri ovvero la strategia del terrore amaramente nota agli italiani. Il vuoto variopinto dei ragazzini con le birre in mano ovvero un fallimento e un dubbio che sanguina già declinato al futuro. Vuoto composito e non nominabile una volta per tutte. La presunta intervista rilasciata a “Repubblica” dal non meglio identificato trentenne black bloc pugliese F. racconta l’addestramento e spiega i metodi di attacco rivelando una lingua e una capacità di analisi poverissime. Deriva culturale. Derivata da sfacelo scolastico, da questa nostra scuola sotto attacco. E allora quale nuovo Gadda potrà essere in grado di ricostruire la città di tufo, il barocco abitabile della lingua e dunque la cultura della comunicazione, il verbo efficace del nostro popolo su questo vuoto nemmeno più umano ed esistenziale ma sociale ed istituzionale? Forse non sarà solo uno il nostro rivoluzionario portavoce, come non fu uno il poeta della rivoluzione d’ottobre in Russia quando, ai suoi inizi, era un vero, feroce, gioioso moto di libertà. I poeti sono calamitati dalle utopie. E ora i segni di rinascenza del pensiero e della fantasia ci sono tutti e sono molteplici. Non si tratta di mera reazione opportunistica a un disastro economico ma di un profondo movimento sismico culturale. La spaccatura sociale è netta ed evidente. La zona grigia e pericolosa degli indifferenti è sempre più sottile. Non c’è comodità. Fine dell’edonismo e della cultura del superfluo. Siamo all’osso e dall’osso ripartiamo. In qualche modo paradossale è un bene. Così io voglio idiotamente, dostoevskianamente interpretare questo nostro tempo: un silenzio raggelante che è andato esaurendosi. Siamo preparati a dire. Sapendo che per adesso non c’è assestamento né calma possibile, ma un impulso di pensiero che comincia a scavalcare il nostro ininfluente ego sum per tentare di riformare una lingua anche sul vuoto cadaverico o sul cadavere stesso del capitalismo.

Maria Grazia Calandrone (poetessa), 15 ottobre 2011