La meglio gioventù - 2002

Stampa

Gioventù amore e rabbia
Premiato al “Certain regard” di Cannes, il film di Giordana dimostra come sia possibile fare tv e ritrovare il cinema civile.

Parte dal centro – dalla capitale – il viaggio del film di Giordana, che poi si muove fuori e dentro i confini della madre patria a dimostrazione di una vocazione centrifuga, potenzialmente sbandata o forse solo anelante alla libertà, del racconto e dei personaggi.
Parte da uno scorcio romano (che torna tre volte nel film), un coacervo di architetture e di epoche storiche che costituisce già un’indicazione: come se la storia fosse fatta di accostamenti, integrazioni, ampliamenti più che di cancellazioni, abrasioni e rotture. Parte da un tempo sospeso, da un vuoto – la “vacanza” estiva del 1966 – per attraversare quasi quattro decenni di storia italiana, anni pieni e pesanti di fatti, persone, avvenimenti, questioni private e vicende pubbliche.
Nasce così il corso fluviale della Meglio gioventù. Con una forma che è già sostanza di un discorso storico: una narrazione distesa nel tempo e nello spazio, uno scorrimento a tratti lento e a volte trascinante, con personaggi che sono affluenti impetuosi o sotterranee correnti carsiche… Il fatto stesso che al cinema esca diviso in due parti – un primo atto che va dal 1966 al 1982; un secondo dall’82 a oggi – sembra un riverbero della natura stessa dei personaggi («Chi non è diviso in due? Tu sei tutto poliziotto? lo sono tutto medico?»). Forse della natura stessa degli italiani.

La meglio gioventù è un heimatfilm nostrano che, attraverso la vita di due fratelli, dei loro consanguinei e amici, tenta il bilancio di una generazione che non è stata solo di rivoltosi e terroristi, come poteva sembrare qualche tempo fa, e nemmeno, come a volte sembra oggi, di figli di puttana che prima o poi sono saliti sul carro del vincitore di turno. Questa “meglio gioventù” è una generazione – ma forse si potrebbe dire un Paese – che ha ospitato al suo interno speranze e contraddizioni, spinte in avanti e bruschi stop, docce gelate e brucianti passioni, la lotta e l’impegno, il disordine e il bisogno di regole. Una generazione che voleva tutto ma che ha trovato o perduto molte cose per caso. Rulli, Petraglia e Giordana lo sanno perché è proprio dei migliori anni della loro vita che si sta parlando. Ma non hanno un’ambizione sociologica o epocale: scelgono di guardare agli individui, alle persone o al massimo ai gruppi che conoscono meglio. La “meglio gioventù” evocata dalla canzone era quella delle persone chiamate a fare la guerra e perciò destinate ad andare “sottoterra”; qui, in un senso più ampio, esprime la condizione di chi si assume delle responsabilità, fa delle scelte per governare la propria vita o aiutare quella degli altri Con il rischio di non farcela o di finire travolto dagli eventi.

«L’Italia è un paese bello e inutile… Un paese da distruggere» dice il professore universitario all’inizio del film. Dopo circa sei ore, sapremo che «tutto è veramente bello» e che è valsa la pena di vivere, lottare, amare, cercare di capire e di migliorare il mondo.
La meglio gioventù, al di là del titolo e di un riferimento puntuale alle posizioni di Pasolini sugli scontri tra contestatori e polizia, non è un film pasoliniano: non lo è nella messinscena e non lo è negli assunti ideologici. Non ne ha la religiosità e la fisicità, anche se ne condivide la stessa matrice civile (secondo quella linea minoritaria della cultura italiana che comprende nomi come Dante, Foscolo, Leopardi e, appunto, Pasolini), ma non è un film pessimista, esacerbato e sconsolato come l’Italia aveva fatto diventare Pasolini. Al contrario: il film di Giordana gronda dolore ma distilla speranza, contiene il tragico (nella figura di Matteo) ma subordina tutto al suo impianto “progressista”, e cioè a un’ipotesi riformista e migliorativa della società e della vita. Addirittura prevede la conservazione di un’amicizia interclassista che resiste agli anni e all’acuirsi delle diversità tra le persone: segno di una fratellanza possibile degli italiani in nome di una storia comune e condivisa (siccome gli italiani si scoprono fratelli solo in occasione dei mondiali di calcio, i nostri eroi non esitano a tifare Corea per smontare la più superficiale delle esibizioni di italianità).

E’ un film talmente dominato dalla positività da riuscire nell’impresa di fondere cinema e televisione. Infatti non è per nulla “antitelevisivo” come viene detto da coloro che ritengono impossibile l’accostamento qualità e tv. La meglio gioventù è una grande lezione su come si potrebbe usare al meglio il mezzo televisivo, i suoi codici linguistici, le sue tipiche strutture narrative. La sceneggiatura non ha paura di richiamare la tradizione del feuilleton e magari anche qualche topos da telenovela (come quel figlio di un’unica notte d’amore che a un certo punto sbuca fuori…; ma va benissimo, perché la sceneggiatura ha già previsto anche una possibile replica a chi criticasse una scelta del genere, quando dice: «le cose brutte ci sembrano naturali, le cose belle facciamo tanta fatica a crederle»).

Soprattutto è un film di immagini che cercano di “cogliere il mistero” dell’esistenza individuale, dei vissuti relazionali e del tessuto storico che ogni vita e ogni scelta alimenta. Forse non è sempre riuscito l’invecchiamento di alcuni personaggi, ma quel che davvero conta – la loro anima – balza in tutta evidenza sullo schermo: lo “spirto guerrier” di Matteo o la “simpatia” di Nicola sono impresse nei volti di Alessio Boni e Luigi Lo Cascio (ed è un discorso che vale per l’intero cast, uno dei migliori visti in un film italiano degli ultimi vent’anni). E’ anche grazie a questi attori che La meglio gioventù diventa uno straordinario esempio di cinema glocal: una storia d’Italia inedita e preziosa (davvero a molti “carati”), ma anche il romanzo di formazione di chiunque abbia capito che la storia, comunque e dovunque, siamo noi.

Ezio Alberione, Duel – giugno/luglio 2003