L'inverno - 2001

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Nina Di Majo e le sue ragazze nell’inferno della borghesia

L’inverno di Nina Di Majo è un film importante e bello, lo diciamo subito. Si fa varco con difficoltà e con la sola forza delle proprie idee. È un film piccolo, ma straordinario, di una giovane regista, già autrice, che rifiuta la logica della comunicazione a favore di un’idea di cinema sperimentale, che non crede nel suo precoce invecchiamento e che sente, con urgenza, di dover ancora dire qualcosa, dire la sua. Di Majo ci sta dicendo qualcosa. E lo fa con quella ostentata e, a volte, fastidiosa sicurezza che contraddistingue chi, precocemente, arriva a delle acquisizioni che nascono dal vissuto personale e che presto si trasformano in idea del mondo. Il mondo della Di Majo è nel senso del catastrofismo, è avvolto in un perenne inverno, come il titolo di quest’opera seconda. L’inverno, lascia intendere. È l’inverno dei sentimenti ma sembra l’inferno dell’umanità. Quella borghese, apatica e arricchita che vive, come le coppie del film, in uno dei tanti stabili di quell’archeologia industriale che una volta operava produttivamente e che ora, dismessa ai bordi di un fiume Aniene, arreda le stanze vuote e fredde di intellettuali, scrittori, galleristi e artisti. Sono gli ambienti entro cui viene rappresentata questa tragedia raffreddata e, allo stesso tempo, pulsionale che vede affacciarsi, sulle opposte rive dello stesso fiume, le esistenze di due coppie di giovani trentacinquenni che precocemente hanno fatto esperienza di una certa realtà, che velocemente l’hanno metabolizzata restando, ora, muti e soli nel tentativo goffo di comunicare ciò che non si ha da dire. Come Leo, scrittore in crisi giunto al culmine di una “onesta carriera” senza aver detto mai una volta la verità e che cerca nella semplicità degli oggetti in disuso una via di fuga alle sue ossessioni, rincalzate dalle nevrosi della moglie Marta, gallerista stridula che cerca disperatamente un aggancio coniugale per non sparire dietro gli sfondi vuoti di quei quadri dell’arte contemporanea che colleziona nella sua galleria. Come Anna, donna sola e senza figli, sposata con un greco maturo e adulto che la tratta con pietosa accondiscendenza come fosse una bambina psicolabile. Sono personaggi la limite che si trasformano nella caricatura di se stessi, dei loro tic, delle loro idiosincrasie. Fotografati in un’atmosfera quasi irreale, esseri congelati in celle frigorifero, che fanno di tutto per scrostarsi dalla patina di ghiaccio e compiere movimenti in libertà. Ma la libertà è loro negata, proprio perché vittime e prigionieri di quella libertà assoluta tanto ricercata che tutto permette e niente dà. In questo senso L’inverno porta tanto in là l’analisi del rapporto uomo-donna in una società anonima da sembrare un film di fantascienza. La Di Majo guarda il suo mondo in vitro come uno scienziato dal suo microscopio. Un’entomologa del sentimento, un chirurgo che taglia la superficie per studiare la “fisica” dei rapporti e la meccanica del loro deterioramento. Più che a Antonioni o Bergman, come alcuni hanno osservato, ricorda da una parte il sottile sguardo di Wong Kar Wai e dall’altra quello spietato e freddo di Ballare e di Cronenberg.

Dario Zonta, L’Unità – 8 febbraio 2002