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"Ordinare o precipitarsi? Sul Rito di Ingmar Bergman"

Il Rito di Ingmar Bergman è un film ‘da camera’ denso e misterioso. Un film perfetto. Bergman mette in scena, in nove quadri, lo scontro mortale tra un giudice inquirente e tre attori. Il giudice Abrahamsson indaga sulla presunta oscenità di un numero teatrale eseguito da Hans e Thea Winkelmann (marito e moglie) e Sebastian Fischer (amante di Thea).
L’impianto del racconto è matematica allo stato puro. Le scene 1, 3 5, 7 e 9 si svolgono nello stesso ambiente, ‘Una stanza per gli interrogatori’. Le scene 2, 4, 6 e 8 sono ambientate in quattro luoghi diversi : ‘Una camera d’albergo’, ‘Un confessionale’, un ‘Camerino di un teatro di un varietà’, ‘Un bar’. Nelle scene dispari il giudice interroga i tre attori (prima insieme, poi a turno, separatamente, poi di nuovo insieme), nelle scene pari i tre attori si confrontano fra loro, mentre il giudice incontra il suo confessore – interpretato dallo stesso Bergman.
Il Rito è un film sulle opposte pulsioni. L’impulso ordinatore del diritto e l’impulso disaggregante dell’arte. Scrive Franco Cordero nel suo splendido manuale di Procedura Penale (il mio ultimo esame universitario prima di un Macbeth al teatro romano di Verona): “Rito. Parola classica della nomenclatura giudiziaria, molto usata. Rito, rituale, irritualmente : nome, aggettivo e avverbio colgono l’aspetto più visibile del fenomeno. Ascendano al sanscrito ‘ra’ (ordinare, computare, da cui reor, ratio, ratus) o al greco ‘reo’ (scorrere, fluire, ma anche spandersi, diffondersi, slanciarsi, precipitarsi o infuriare contro), evocano uno svolgimento conforme al prescritto quanto a forma, sequela, tempo.” Seguendo a ritroso le tracce della parola ecco pararsi il bivio originario. Ordinare o precipitarsi? Apollo o Dioniso. Bergman va al cuore della Sapienza greca. Come Eraclito – che usa la formulazione antitetica nella maggioranza dei suoi frammenti – Bergman è convinto che il mondo che ci circonda non sia altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l’unità, il Dio che vi sta dietro.

Il Rito è un grande film sulla potenza invisibile e deflagrante del teatro. Quando ancora pensavo di concludere i miei studi universitari in legge, pensavo a questo film – assieme a un episodio dell’Amleto di Shakespeare e a un racconto di Plutarco – come punto di partenza per un’ ipotetica tesi di laurea che, probabilmente, nessuno mai mi avrebbe concesso. Il tema era: quanto della potenza arcana del Rito sopravvive all’interno del rito processuale? E’ possibile, in un processo penale, ‘muovere’ l’altrui coscienza, spostarla, colpirla insomma, attraverso una serie preordinata di azioni, gesti e parole? Il nucleo simbolico del rituale sopravvissuto all’interno del Processo è ancora in grado di condizionarne gli esiti? Questi i quesiti che mi ponevo. Ma se è vero che tanto il rito teatrale quanto il rito processuale nascono da uno ‘slittamento’ progressivo dall’originario rito misterico e religioso, da cui mutuano in parte le forme della rappresentazione, è possibile istituire un parallelo fra le due forme rituali? E’ esattamente quello che Bergman fa in questo piccolo capolavoro. Decretando in maniera inequivocabile la supremazia del rito teatrale su quello giuridico. Nella scena finale del film il giudice inquirente convoca di nuovo i tre attori, di notte, nella stanza degli interrogatori e chiede loro di rappresentare in quel luogo, solo per lui, il numero teatrale incriminato. Ma la sola vicinanza spazio-temporale con il Rito (il numero sta per iniziare e gli attori sono molto vicini) mette in ginocchio il giudice che ‘confessa’: “Ho i miei superiori e i miei dipendenti, do ordini e mi danno ordini. Voi siete liberi invece. Io non vi invidio : è una terribile libertà, non è vero? Io non vi capisco. Non capisco cosa vi guida, non capisco questi vostri legami, non capisco la mia propria connessione con voi.” Il Rito teatrale ha inizio. Il giudice cerca di interrompere la scena.

Nel racconto di Plutarco e nell’Amleto di Shakespeare accade, in fin dei conti, qualcosa di simile. Lo storico greco racconta che il legislatore Solone, ancor prima della istituzione dei concorsi tragici, assistendo a una delle primissime rappresentazioni teatrali, ad opera di Tespi, avesse, indignato, interrotto e abbandonato la recita. A Tespi che si sarebbe difeso sostenendo che non si trattava dopo tutto che di una finzione scenica, il vecchio uomo di Stato ateniese avrebbe replicato che non si sarebbe tardato a vedere le conseguenze di tali finzioni sui rapporti fra i cittadini.
Ne La tragedia di Amleto, Principe di Danimarca, infine, Shakespeare racconta come il Re Claudio – usurpatore e assassino – rivivendo da spettatore il proprio misfatto, avesse abbandonato e interrotto incollerito la rappresentazione a corte del dramma ‘L’assassinio di Gonzago’, appositamente allestito come trappola su ordine di suo nipote Amleto.In ciascuno dei casi – Plutarco, Shakespeare e Bergman – tre uomini con tre diverse posizioni in rapporto alla norma – un legislatore (colui che istituisce la norma), un assassino (colui che viola la norma) e un giudice (colui che applica la norma) – si trovano di fronte a un rito teatrale.
E in ciascuno dei casi, tre rappresentanti della legalità (un legislatore, un Re e un giudice) resteranno sconvolti davanti a una finzione scenica, tentando di interromperla. Ma mentre nei primi due casi gli uomini di legge riusciranno a bloccare la recita (sia pure manifestando al contempo la propria debolezza o la propria colpa), Bergman consumerà in questo film la sua vendetta di uomo di teatro nel modo più crudele.

Nel finale del film, finalmente, i tre attori si dispongono davanti al giudice su un’unica linea. Thea è a seno nudo, senza maschera. I due uomini, invece, indossano le maschere e portano dei grandi falli scuri sopra i costumi. Hans inizia a descrivere il Rito, mentre tutti prendono a mimarlo. Ma prima che il giudice riesca a fermare l’azione dei tre attori, sarà il suo cuore a fermarsi. Il giudice Abrahamsson muore d’infarto.

Fu così che decisi di chiudere i libri di giuris-prudenza e diventai un attore.

Fabrizio Gifuni