Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Ragazzi di vita

Un omaggio e un inno alla lingua, alla sua capacità di salire vette poetiche, discendere inferni volgari, piegarsi all’ammiccamento del dialetto e alla deriva di sentimenti estremi, brutale e sublime ad un tempo. Nella lettura ad alta voce i due piani, poetico e teatrale, emergono in tutta la loro ricchezza, tracciando l’affresco della vita vissuta di periferie slabbrate. La voce accarezza e rafforza il linguaggio confermando il valore del teatro di parola e, al contempo, diventa parte del corpo, strumento che accompagna le membra, gli occhi, le mani in un gesto continuo che srotola il libro in una pellicola. Un lavoro di grande tecnica dove l’esercizio e la fatica non si vedono più: Gifuni è morbido, fluido, versatile sfiorando cime e abissi senza rischiare di superarli. Non stona mai. In una parola sublime.

Fabrizio Gifuni rende omaggio ancora una volta al grande intellettuale di origini friulane e dà voce al suo “Ragazzi di vita”, inaugurando in anteprima l’anno pasoliniano 2015, mentre al cinema lo doppia in “Pasolini” di Abel Ferrara. Così, dalla borgate della Roma degli anni Cinquanta, prendono corpo il Riccetto, il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone.
La voce di Gifuni ci porta “dentro” le giornate di questi giovani sottoproletari, ci restituisce la loro generosità e la loro violenza, il comico, il tragico, il grottesco di questo sciame umano che dai palazzoni delle periferie si muove verso il centro, in un percorso che è anche un rito di passaggio dall’infanzia alla prima giovinezza. Lo sfondo è quello di una capitale postbellica che non esiste più, per un romanzo emblematico di una trasformazione epocale del nostro paese. Sul palcoscenico dell’Argentina, si rivive la Roma dell’immediato dopoguerra per comprendere gli abissi in cui siamo precipitati e scoprire il senso del dolore e dell’estraneità dei nostri tempi attraverso le parole di Pasolini. Le pagine di “Ragazzi di vita” (1955) ancora un volta ritornano a soccorrerci tra i paradossi di cosa eravamo e cosa siamo diventati perché Pasolini legge i segni e in tal senso prevede. Ne emerge il ritratto di una società allo sbando, in cui la famiglia è smembrata e non costituisce più un sistema di valori, le scuole sono edifici che accolgono sfollati e il lavoro è rappresentato da piccoli espedienti per sopravvivere. Così, le vicende del gruppo dei ragazzi delle borgate, affollate di ubriachi, avanzi di galera e prostitute, rintracciano un pensiero che diventa corpo e ha ancora molto da dirci. Soprattutto ci racconta la spaccatura tra ‘i signori’ e gli ‘umiliati e offesi’, violenti anche contro se stessi.
Lo spettacolo è una lettura scenica, forse non potremmo neppure definirla mise en espace, e concentra tutta l’energia nella voce e nella parola. Efficace l’ingresso: pochi minuti di recitazione, il racconto di un’aggressione ad un omosessuale. Poi la lettura, lunga, profonda, estenuante eppure lieve. Non un segno di fatica. Fabrizio Gifuni sembra volare, mai un momento di incertezza, una ripresa, un affanno, un respiro di troppo, un affaticamento nella voce, un sopra tono o un sotto tono. La sua voce è corpo, si visualizza e lo attraversa tutto con una vibrazione che in alcuni momenti è appena percepibile, in altri è un gesto evidente, uno sguardo, una smorfia o uno scatto. Ogni parola trova una visualizzazione, perfino una pausa, un sospiro, ma non è didascalica: è semplicemente un tutt’uno che non lascia mai scollare il testo dal gesto, la voce dalla mossa. C’è un’abilità di immedesimazione forte con il dialetto romanesco e perfino con poche battute in friulano, che però non ha accenti macchiettistici, e la grande capacità di essere ad un tempo, nello spazio di secondi, personaggi diversi, rende il testo vivo. Non solo.
Gifuni alterna l’italiano per la narrazione, all’inflessione dialettale per il discorso diretto e in tal modo ci restituisce i due volti di Pasolini: l’intellettuale raffinato di pagine ed espressioni poetiche, e l’uomo di strada che si mischia, si confonde e si perde nella seduzione popolare e scabrosa. Un grande lavoro che a mio sommesso avviso può diventare un laboratorio per un teatro che esiste sempre meno. Una grande prova che racconta come stare su un palcoscenico sia studio, cultura, finezza interpretativa e profondo e faticoso lavoro artigianale: quello sul corpo. Troppo spesso il teatro contemporaneo se punta sul corpo perde la voce o rende la voce grido senza più parola. Gifuni riesce ad essere un assolo e un’orchestra insieme.
Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto Roma per Pasolini, l’omaggio del Teatro di Roma alla fervida attualità della sua poetica e del suo spirito profetico. Tra gli altri appuntamenti dedicati al grande pensatore cardine del ’900 italiano, di cui il prossimo anno celebreremo i 40 anni dalla morte, la messa in scena di “Una giovinezza enormemente giovane” per la regia di Antonio Calenda con Roberto Herlitzka protagonista assoluto del testo di Gianni Borgna (in scena dal 5 al 9 novembre all’Argentina).

Ilaria Guidantoni, saltinaria.it – 2 novembre 2014