360°

Fabrizio Gifuni
. Recitare la storia attraverso la poesia

Dopo aver assistito a ‘Na specie de cadavere lunghissimo, si ha l’impressione d’aver vissuto un contatto diretto, fisico, con la materia letteraria di Pier Paolo Pasolini e ancor più con il suo pensiero, lucidissimo e tagliente, che si rivolge anoi profilando un’attualità cruda e incontrovertibile. Il merito di questa particolarissima esperienza che vive lo spettatore è certamente di Fabrizio Gifuni, uno dei nostri attori di maggior talento, che in realtà, proprio nel teatro, si fa anche autore dei testi, come ci conferma lui stesso. “Negli ultimi dieci anni ho lavorato quasi esclusivamente a progetti pensati fin dalle fondamenta, in cui il lavoro di riscrittura e drammaturgia rappresenta un momento centrale del percorso.”


Tu hai un rapporto attivo con la letteratura; non ti limiti a mutuare testi, ma attraversi le esperienze letterarie, le metabolizzi e le rielabori.


E’ quello che cerco di fare. Al cinema o in televisione mi diverto a giocare da interprete puro. In teatro sento il bisogno di una maggiore assunzione di responsabilità. Lo avverto come un luogo troppo importante per potermi permettermi il lusso di lavorare solo in una dimensione.


Si può dire che come attore ti metti al servizio dell’idea; non reciti l’autore che proponi, ma ti metti al servizio del suo pensiero e lasci che il testo plasmi la figura?

In un certo senso è così. Anche se ci sono modalità molto differenti a seconda degli spettacoli. Per esempio, nello spettacolo tratto dai testi di Pasolini e Somalvico è difficile definire quale personaggio ci sia in scena nella prima parte. Indubbiamente ci sono solo io. Qualcosa di un po’ misterioso si determina in scena proprio grazie alle parole del testo, che lentamente si trasformano in corpo e sguardo.



Nei tuoi lavori il personaggio risulta quindi molto complesso. Che lavoro fai sul personaggio?


Non c’è nessun tentativo di aderenza mimetica. Sono personaggi che prendono forma dal proprio pensiero; sono le parole che determinano il personaggio. Al cinema invece il lavoro sul personaggio può anche in alcuni casi prescindere dal testo.


Ma attraverso il pensiero di questi autori esprimi anche te stesso.


Sì. Sono autori con cui non c’è soltanto un rapporto di grande consuetudine – perché mi accompagnano da tanti anni – ma che producono anche una positiva azione chiarificatrice nei miei processi creativi. Una parte di me dialoga costantemente in scena con loro.



Parliamo dei quattro spettacoli su Pasolini, Gadda, Pavese e Dante.


Gli spettacoli su Pasolini e Gadda fanno parte sostanzialmente di un unico progetto, che si è andato componendo nell’arco di otto anni. Ho iniziato intorno al 2002 a lavorare su alcuni testi di Pasolini e su un poemetto del poeta milanese Giorgio Somalvico, incentrato sulla morte di Pasolini. Il quesito iniziale era come raccontare quello che era accaduto in Italia negli ultimi decenni. Ho pensato quindi di organizzare una sorta di grande racconto su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Sono partito dai testi di Pasolini perché penso che a tutt’oggi alcuni suoi scritti siano insuperati per precisione, esattezza, e capacità di radiografare la realtà, tanto da determinare questo effetto speciale per cui molte delle sue parole, oggi, sembra che siano state scritte ieri più che trentacinque o quaranta anni fa.


Così è nata l’idea di ‘Na specie de cadavere lunghissimo.


È la prima tappa di un viaggio che ho iniziato e continuato con Giuseppe Bertolucci, che ha curato la regia di entrambi gli spettacoli e che non ringrazierò mai abbastanza per il suo aiuto. I testi su cui ci siamo concentrati nella prima parte sono stati principalmente le Lettere luterane, gli Scritti corsari, l’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo sei ore prima di morire. Mentre nella zona centrale, prima del testo di Somalvico, ci sono alcuni appunti della sceneggiatura su un film su San Paolo mai realizzato, alcuni versi de La nuova forma de la meglio gioventù e di Poesia in forma di rosa, un breve estratto da Ragazzi di vita. La prima parte dello spettacolo ha preso quindi la forma di un unico ragionamento socratico, fatto in mezzo al pubblico, sulla trasformazione dell’Italia dai primi anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta. Mentre nella zona mediana prende letteralmente “corpo” una riflessione scritta da Pasolini pochi giorni prima di morire, intitolata Lettera ai giovani infelici, in cui il poeta dichiara il suo sentimento di condanna verso i giovani che aveva fino a quel momento amato, su cui aveva riposto molte speranze e da cui si sentiva in un certo senso tradito. Partendo da un enunciato della tragedia greca – le colpe dei padri ricadono sui figli – Pasolini sviluppa il suo ragionamento arrivando a individuare il nucleo della colpa dei padri e in ultima analisi di se stesso. Sentendosi lui stesso padre simbolico di una generazione.


Nella seconda parte dello spettacolo, quella più violenta che traduce anche la tragedia della morte di Pasolini, scegli la poesia, una poesia anche formale, sempre in endecasillabi.


Credo che la poesia all’interno di questo percorso sia determinante. Anche perché nonostante Pasolini sia riuscito a mettere in campo i propri talenti sotto tante forme, credo che resti innanzi tutto un poeta. Perciò per me era importante che la poesia avesse un corpo centrale all’interno dello spettacolo. E il testo di Somalvico mi sembra, da un punto di vista della sostanza linguistica e dunque da un punto di vista poetico, un materiale straordinario. Giorgio Somalvico è un poeta eccentrico, che oltre a esprimersi in versi nella vita, conosce come pochi altri in Italia la musica e il teatro.


Il tuo percorso prosegue poi con Carlo Emilio Gadda.


Sì, sempre animato dallo stesso intento: costruire una sorta di mappa cromosomica degli italiani. Con Gadda facciamo temporalmente un passo indietro. Con i testi dei suoi Diari di guerra e di prigionia, che utilizzo soprattutto nella prima parte dello spettacolo, ripartiamo dai primi decenni del Novecento per approdare al 1945, quando Gadda inizia a scrivere Eros e Priapo. Un testo imprevedibile, scritto in forma di referto medico, avente per oggetto la psicopatologia erotica del presidente del Consiglio Benito Mussolina ma soprattutto la patologia e irrimediabile attrazione che il popolo italiano prova periodicamente verso queste figure affette, come dice Gadda, da “delirio narcissico”. Uno scritto-anamnesi, tragico ed esilarante al tempo stesso, in cui Gadda analizza e demolisce l’iconografia psicosessuale in cui si sostanzia qualsiasi espressione del Potere e del ventennio fascista in particolare.


Perché i Diari?


Sono un materiale indispensabile a chiunque voglia avvicinarsi seriamente all’opera di Gadda. Non erano destinati alla pubblicazione, ma contengono già uno spessore di lingua straordinario. A mio avviso, l’esperienza del primo conflitto mondiale, la detenzione nei campi di prigionia e la scoperta della morte del fratello, provocarono in Gadda quella che potremmo definire la sua “ferita originaria”. Una ferita che non si risanerà mai e lo accompagnerà per tutta la vita, determinando nella sua anima un dolore atroce, che lo costringerà a un urlo vitale come reazione alla morte. È per reagire a questo dolore che si scatenerà la sua lingua fantasmagorica. Questa è l’idea che sta alla base della drammaturgia e che lo avvicina così tanto all’Amleto di Shakespeare.


Nella seconda parte, dove la lingua si trasforma e diventa effervescente e pirotecnica, tu ricorri ancora alla poesia.


Il testo Eros e Priapo può essere considerato a tutti gli effetti un poemetto, in cui la lingua fatta vivere nella sua dimensione verticale, cioè staccata dalla pagina, diventa immediatamente lingua poetica.


Perché senti l’esigenza di ricorrere alla poesia?


Ragionando in termini di istinto scenico, non bisogna mai dimenticare che tutti questi materiali devono reggere alla scommessa di diventare un fatto teatrale, dove la reinvenzione di un testo deve essere messa alla prova su un palcoscenico: testi originariamente non destinati alla scena, devono tradursi in carne e sangue. In questo quadro la lingua poetica consente una maggiore apertura e visionarietà; può diventare una lingua più aperta, che si stacca decisamente da qualsiasi forma di realismo letterario o scenico per diventare metafora di qualcos’altro.



Nella terza esperienza, invece, ti rivolgi proprio a un poeta, Pavese.


Quello su Pavese, e poi quello su Dante, sono spettacoli in forma di concerto, nati in due momenti diversi. Lo spettacolo su Pavese è nato nel 2007 dalla richiesta del Festival di poesia di Parma di riscrivere un testo e una drammaturgia originali, partendo dai testi di Pavese e aventi per filo conduttore il rapporto che Pavese aveva con la musica. Io e il pianista Cesare Picco siamo partiti da una annotazione di Massimo Mila, secondo cui Pavese non sembrava avere un grande interesse per la musica, fatta eccezione per la canzone popolare. Così ho scelto come spina dorsale del testo un racconto giovanile, Il blues delle cicche, dove il protagonista Masino, alter ego sfuggente dello stesso Pavese, si diverte a comporre canzonette. Ho lavorato poi su diverse poesie, inserendo anche alcuni passi dei suoi diari privati. Ne è venuto fuori lo spettacolo a cui abbiamo dato il titolo Non fate troppi pettegolezzi, la frase di commiato scritta da Pavese prima di suicidarsi, forse in estremo omaggio a Majakovskij.



E infine c’è Dante.

Il lavoro su Dante nasce nel 2008, quando io e Sonia Bergamasco abbiamo iniziato a lavorare su alcuni canti della Divina Commedia (due dell’Inferno, due del Purgatorio e l’ultimo del Paradiso), pensando a uno spettacolo in cui la musica dal vivo fosse elemento determinante della drammaturgia. In questo caso abbiamo lavorato con un grande chitarrista, Stefano Cardi. Inserendo questo spettacolo su Dante nella monografia proposta a novembre al teatro Valle di Roma, il viaggio si è così ulteriormente arricchito. Perché il percorso teatrale fatto negli ultimi dieci anni non è soltanto un viaggio all’interno della storia italiana del secolo scorso che ci conduce fino al presente, ma è anche un viaggio nel corpo della nostra lingua, dove le parole di Dante rappresentano le fondamenta di un edificio visto in trasparenza.


C’è anche un’altra lettura di Dante molto particolare, in cui fai incontrare il testo dantesco con altri di Pasolini.


È un lavoro nato in occasione di un premio che mi hanno dato al Teatro della Pergola di Firenze, assegnato dalla Società degli studi danteschi. In quella occasione mi era capitato di leggere Dante accostando le sue terzine ad alcuni brani tratti da opere di Pasolini dichiaratamente debitrici, in termini di ispirazione, all’opera di Dante. Si trattava di Alì dagli occhi azzurri, Trasumanar, organizzar per verba, La poesia della tradizione e Divina mimesis. L’idea era di far reagire chimicamente, e senza soluzione di continuità, due sostanze linguistiche apparentemente distanti.



A ben vedere parliamo dunque di lavori che hanno un contenuto culturale, oltre che meramente letterario, che spesso si rivela di un’attualità inquietante. Il pubblico come reagisce?


Per me il pubblico è un elemento centrale del discorso. Penso sempre a quello che voglio raccontare e a chi lo devo raccontare. Credo fortemente in un’idea di teatro che si sforzi di recuperare il suo compito originario, quello che i greci chiamavano “catarsi”. Sia l’attore in scena sia il pubblico, partecipando di un’esperienza comune, devono uscire un po’ modificati dagli effetti del rituale. Ché di questo si tratta. Per questo ho voluto che gli spettacoli su Gadda e Pasolini chiamassero il pubblico a un patto di corresponsabilità. E il pubblico ogni sera avverte questa richiesta e si abbandona. Oggi il teatro può essere un luogo dove giocare una partita fondamentale sul piano culturale all’interno della nostra società.



Il teatro come la poesia chiama a un’esperienza di conoscenza. Nello spettacolo su Pasolini, tra la prima e la seconda parte, tu ti spogli. Un gesto fortemente simbolico. L’intellettuale si mette in gioco, va nudo nell’inferno e la sua visione si traduce e si rappresenta nella seconda parte. Sembri richiamare oggi a un ruolo coraggiosissimo dell’intellettuale.


Credo che oggi sia più difficile trovare un modo efficace per far sentire la propria voce. Pasolini stesso, al di la della sua vicenda giudiziaria, decise in qualche modo di andarsene dal mondo, perché lui stesso non sapeva più con chi parlare e come parlare. Già alla metà degli anni Settanta sentiva una società cambiata a tal punto che lui stesso non riusciva a trovare gli strumenti per parlare con la stessa efficacia di prima. Figuriamoci oggi.


Siamo anche nell’epoca della comunicazione globale, abbiamo molti più strumenti di comunicazione, ma abbiamo perso il rapporto con i contenuti.


È vero. In questo senso credo che il teatro sia uno dei pochi luoghi rimasti realmente liberi. Proprio all’epoca in cui tutto e in qualsiasi istante è riproducibile, il teatro recupera la sua unicità nel suo non essere un’esperienza ripetibile. I corpi degli spettatori sempre diversi determinano un campo magnetico che ogni sera muta profondamente ciò che accade in scena. Tutto questo credo che possa tradursi in una possibilità di incontro molto forte. Inoltre, non penso mai a spettacoli per addetti ai lavori. Anche chi non ha letto una sola riga di Gadda o Pasolini deve avere la possibilità di accedere a quel pensiero e a quelle parole per altri canali. In questo senso credo che il teatro sia, senza alcuna retorica, un fatto profondamente democratico.



Nicola Bultrini, Poesia n. 259 – Aprile 2011