Un amore - 1998

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

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Un amore

“E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo fu verso sera:
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore.
Il primo: e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
Storie di, credo, quindici anni fa?”
(Umberto Saba, “Un ricordo”)

Il secondo lungometraggio di Tavarelli, a cinque anni dal sottovalutato Portami via, conferma che il cinema dell’autore torinese si nutre di sentimenti e di atmosfere rarefatte e appare poco interessato alla nozione di realismo fisico o sociale a tutto vantaggio della centralità soggettiva dei vissuti dei suoi personaggi. La presunta oggettività e la fiducia nei dati sono materia per i sondaggi, come suggerisce una sequenza del film in cui si parla di uno studio che quantifica i litri di lacrime che si versano mediamente in una vita, le ore in cui si fa l’amore, il numero di veri amici che si conoscono, quanti giorni si dorme e così via. Di fronte alle contraddizioni del reale e alla precarietà quotidiana, Tavarelli non sembra fidarsi delle certezze matematiche e preferisce scegliere un atteggiamento poetico, come testimonia la scelta di chiudere il film sul testo della poesia di Saba, di cui citiamo in esergo le ultime due strofe. Non si tratta di fuga dalla realtà, ma al contrario di uno sguardo più fine e personale che si confronta con le cose della vita in un altro modo, privilegiando l’emozione dei sentimenti alla logica della ragione ciò non esula dalla lucida constatazione che, per tornare a Saba, “amore” possa fare rima con “dolore” e che “felicità” si specchi in “quindici anni fa”. Non appare quindi casuale che il film si strutturi sul duplice vettore dell’intensità sentimentale, che va oltre ogni scelta ponderale, e sul gioco della memoria che seleziona i momenti forti di un percorso autobiografico in chiave puramente soggettiva e senza gerarchie predefinite: c’è il primo incontro ma non la prima notte; c’è un esame scampato, ma non la laurea; c’è una lite furiosa, ma anche un incontro apparentemente di routine. I flash di una vita sono perfettamente stilizzati nei sipari animati di 30 secondi che aprono ogni capitolo, realizzati da laura federici a partire da foto di scena che si trasformano graficamente e cromaticamente, e rendono perfettamente il senso delle forze che si muovono dietro la bidimensionalità delle apparenze, in un gioco stilistico che rimanda, non crediamo casualmente, alla pittura espressionista. Spingendo fino all’estremo il partito preso della soggettività e dell’unicità di ogni rapporto amoroso, Tavarelli fa un film molto personale che non pregiudica però possibili meccanismi di identificazione dello spettatore in certe tappe dei due protagonisti. Soprattutto nella prima parte del film, e soprattutto per una certa generazione, viene spontaneo cercare di ricordarsi dove si era durante il Mundial spagnolo, con chi si è guardato il Live Aid, come si è reagito alla caduta del Muro o al bombardamento dell’Iraq. La scelta di introdurre molte sequenze con un riferimento di cronaca al periodo non serve a contestualizzare l’opera, già definita dalle didascalie iniziali sui siparietti di presentazione, ma piuttosto sottolinea la distanza tra la storia di Sara e Marco e la Storia, che appare spesso come un semplice sfondo scenografico rispetto all’intensità dei sentimenti dei due protagonisti, e alla loro continua trasformazione: curiosità, complicità, ira, dolcezza, rabbia e stanchezza. Non si tratta però di elegia del disimpegno o di riduttivismo sociale, ma al contrario di puntuale osservazione della distanza sempre più marcata tra il microcosmo del privato e il contesto storico, sociale e politico, fenomeno che sembra aver caratterizzato molti tracciati esistenziali degli ultimi due decenni. La constatazione vira nell’amarezza lungo la seconda parte del film, quando scompare ogni riferimento alla cronaca, quasi a sottolineare come da una certa età in poi, quando ci si sente ormai grandi, il mondo che si trova al di fuori dei confini sempre più stretti del proprio ego non funge neppure più da sfondo ma semplicemente cessa di esistere.
Di fronte alla progressiva trasformazione dei personaggi e alla ripetitività di certe situazioni necessariamente incentrate sul rapporto tra i due protagonisti c’era il rischio di cadere nel grigiore estetico e narrativo di quel cinema italiano “carino” e minimalista che Moretti ha ben fotografato in Caro diario, con l’ormai mitica sequenza tratta da un ipotetico film estivo di un giovane regista italiano in cui un gruppo di ex-giovani rinnega le cose orribili gridate nei cortei e rimpiange il tintinnio degli Optalidon di una volta. Pur senza ricorrere agli “splendidi quarantenni”, Tavarelli non cade nella trappola e solo qua e là si impantana in qualche dialogo eccessivamente emblematico o in soluzioni narrative un po’ acrobatiche, come accade nel doppio incontro parallelo tra le due ex-coppie, con Sara e Veronica da una parte e Marco e Filippo dall’altra, oppure nell’episodio dell’investigatore privato e del marito tradito da Sara. Sarà un caso, ma sono gli unici due episodi in cui il film non si affida completamente ai due protagonisti, che viceversa reggono sempre molto bene. Il merito della riuscita va condivisa almeno alla pari tra la straordinaria prova recitativa offerta da Lorenza Indovina e Fabrizio Gifuni, perfetti nello scolpire due personaggi sfaccettati e mutevoli, e la grande padronanza di stile di Tavarelli. Ora complice dei due protagonisti ora osservatore distaccato e impietoso, il regista riesce a tradurre il suo atteggiamento ambivalente nella scelta stilistica del piano sequenza, che non si accontenta di restituire la continuità spazio-temporale della vita vissuta qui e ora, né si propone come sterile estetizzazione compiaciuta e autoreferenziale, ma rende la complessità di ogni momento filmato e traduce linguisticamente il continuo gioco degli opposti che convivono in ogni relazione amorosa, unendo la staticità dei personaggi al movimento della camera, la linearità delle architetture visive alla sinuosità della macchina da presa, i silenzi ai rumori d’ambiente, le pause ai picchi d’azione, senza alcuna soluzione di continuità. Il gioco della poliedricità narrativa e del tentativo di sovvertire i clichés si sublima nella straordinaria sequenza in riva al mare, che segna il nuovo incontro tra i protagonisti dopo tre anni. Di una semplicità disarmante, da Super8, la sequenza sembra preludere a una nuova fase amorosa quando i due si bloccano sullo sfondo dell’abbacinante riflesso del sole nell’acqua: ma la cartolina si frantuma e la speranza si trasforma in cognizione del dolore, con Marco che rivela di essersi sposato. La camera non può più tenere la perfetta composizione di prima ma deve correre dietro a Sara che va in mare vestita, poi raggiunta da Marco che la porta a riva, ove la donna lo percuote distrutta dal dolore. Mi scuso per l’inadeguatezza delle parole, ma il gioco di pause e di azioni, i colori che assumono nuove tonalità e sfumature in un attimo, gli sguardi che mutano e diventano gesti, sono davvero cinema puro, di un’intensità rara nel panorama italiano più recente.
Ed è questa intensità che porta Un amore oltre le apparenze del film privato e minimale, fuori dal ghetto del “carino”, e ne fa apprezzare il coraggio narrativo e il costante tentativo di rendere la complessità di due percorsi esistenziali in cui le logiche del quotidiano si scontrano con l’irrazionalità dei sentimenti.

Cineforum 387 – settembre 1999