Un certo Julio

Un certo Julio. Omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño - 2014

di e con Fabrizio Gifuni

Perugia, Teatro Morlacchi – 3 maggio 2019

Torino, Salone Internazionale del libro – 9 maggio 2019

Lucera, Teatro Garibaldi – 8 febbraio 2019

Roma, Teatro Vascello (con Javier Girotto ai sassofoni) – 11 e 12 marzo 2017

Milano, Teatro Franco Parenti – 23 e 24 giugno 2016

Santarcangelo Festival, Santarcangelo di Romagna – 12 luglio 2014

Roma, Casa Argentina (con Javier Girotto ai sassofoni) – 14 novembre 2014

Festival La grande invasione, Ivrea – 1 giugno 2014

“Gifuni e il suo doppio: un certo Cortázar”
Fabrizio Gifuni con Un certo Julio conclude la quadrilogia “L’autore e il suo doppio” al Teatro Vascello di Roma.

Guizzo latino della lingua, dell’orlo dei pantaloni, della punta delle scarpe, si siede e si alza sulle gambe per dare traiettorie all’aria con le mani. Userebbe lo spazio del palcoscenico se non ne avesse costruito un altro, nella stessa metratura, con un pensiero che neanche è il suo ma se lo fosse avrebbe comunque la sua voce. Si chiama Fabrizio Gifuni, si chiama Julio Cortazár, Roberto Bolaño, Lucas o addirittura col nome del fratellastro Jorge Luis Borges e non è un attore. Fabrizio Gifuni (o i suoi eteronimi per lui e per se stessi) non “agisce” come vuole la definizione che gli riempie la professione sulla carta d’identità, è un prestacorpo dotato di idee, quindi è carne e voce di uno scrittore esistito fino a un certo punto anagrafico e addensatosi, poi, sulla carta stampata.

Le parole di Julio Florencio Cortázar Descotte, delle quali si intesse Un certo Julio, ultimo spettacolo della quadrilogia L’autore e il suo doppio, in scena dal 2 al 12 marzo 2017 al Teatro Vascello di Roma, sono difatti ben lontane dall’essere strette nelle righe narrative del romanzo Un certo Lucas che l’argentino scrive per sé, contro di sé e appena fuori da sé (l’attore, che cura l’adattamento, prende un prestito anche dal Cile di Roberto Bolaño); sono lontane perché non sono parole, si traducono fin da subito in immagini, abbozzate come gli stilemi dei coetanei futuristi accanto alla metrica verbale (si legge o si guarda Il palombaro di Corrado Govoni?).

L’eredità che lascia Cortazar è una realtà aumentata, una liberazione di psicosi e frenature borghesi che del borghese fanno la risata amara, specie se la voce della redenzione di costui abita nella persona di Gifuni. E ben lungi dal connotarli negativamente in questo che pare un giudizio sociale, gli spettatori si trovano a ridere sboccati dei propri insuccessi esistenziali, delle manie importune che sorgono nell’inedia di un ospedale o di un amore arenato sulle suggestioni dell’amore. Quanto un’incursione di insania, il fiato di Javier Girotto, sassofonista e argentino anch’esso, scorre a inframezzare le parole del suo doppio parlante sul palco, immediatamente dai polmoni senza sperdere il tempo in gola, l’aria è insufflata negli strumenti, quasi come se qualcuno gli puntasse un coltello ai reni, colpisce gli ostacoli dello strumento che sembra trattenersi per non sputarli e fare dell’aria il silenzio.
Due uomini, Gifuni e Girotto, immagine l’uno dell’altro, uno interprete di idee, l’altro delle idee il suono. Il primo parla una lingua di zucchero, in eremitaggio verso le proprie elucubrazioni, restituisce la tenerezza di tutti i poeti che si sono chinati a scrivere per la pigrizia di non imparare ogni lingua del mondo e col mondo dialogare; il secondo un leitmotiv, un ritmo dato alle arguzie della mente, ovvero la personalità più incombente che si esterna quando la parola tace e il disordine dell’emozione è udibile solo dal profondo. I due si sanno, come se la scrittura fosse concepita per un’unica rappresentazione; e non si sanno, come la sottile discrepanza tra due espressioni.

di Francesca Pierri, TeatroeCritica – 17 marzo 2017