“Fabrizio Gifuni a Belgrave Square”
di Emanuele Trevi
Con Fabrizio Gifuni abbiamo sperimentato varie volte quello che si potrebbe definire un ibrido, un “OGM” di critica e teatro. Io parlo a modo mio, e a un certo punto Fabrizio irrompe, fa esplodere l’argomento, lo fa slittare in un’altra dimensione che mi sorprende sempre, anche nel caso in cui abbiamo fatto delle prove. Con Pier Paolo Pasolini le cose si complicano ulteriormente, diventando insieme più belle e più rischiose, perché a un certo punto diventa chiaro che siamo in tre, due vivi e uno spettro. Anche se volessimo scrollarcelo di dosso, o semplicemente allontanarlo, ormai sarebbe troppo tardi. Ma poi c’è da dire che P.P.P. è uno spettro molto simpatico, ironico, tollerante con gli sforzi che gli altri fanno per decifrarlo. Il bello è che io e Fabrizio siamo entrambi individui poco inclini al sovrannaturale, pochissimo al mistico. Fabrizio è addirittura della Juventus, tanto per dire. ma è proprio a tipi come noi che i fantasmi si accollano, come si dice a Roma. E la colpa è la nostra. Per anni, lui con quel bellissimo spettacolo intitolato ‘Na specie de cadavere lunghissimo ed io con un libro – Qualcosa di scritto – abbiamo scavato in una montagna, trovando molto più di quello che ci eravamo aspettati. Fabrizio ha avuto due compagni di scavo invidiabili, Giuseppe Bertolucci e Giorgio Somalvico; io mi sono incamminato in compagnia di altri spettri, quello di Laura Betti e quello di Petrolio, che in tutti i sensi è un vero ghost-book. Ne sono venute fuori due opere che possiedono una loro involontaria “gemellarità”, non saprei come altro definirla. Nell’oceano di libri, spettacoli, film, opere musicali su P.P.P., solo lo spettacolo di Fabrizio mi ha fatto pensare che guardavamo la stessa cosa. Ed è stato forse questo cortocircuito che ha propiziato la seduta spiritica, perché uno spettro, per non essere una semplice immaginazione soggettiva, ha bisogno di essere guardato in due.
All’IIC di Londra, la sera del quarantesimo anniversario dell’omicidio di P.P.P., Fabrizio è stato perfetto. Prima di cominciare, mentre fumavamo una sigaretta nel vicolo dietro l’entrata principale, abbiamo parlato della paura che viene sempre prima di affrontare un pubblico, qualsiasi pubblico. Eppure andiamo sempre in giro, capita decina di volte in un anno. Ma insomma, la paura non è male. Ti concentra. Io credo che le emozioni sono tutte abbastanza inutili e casuali. Su Belgrave Square si stendeva una rada nebbiolina, destinata ad infittirsi per tutta la notte. Finendo la sigaretta, Fabrizio mi ha detto pressappoco: “Tutto sta nei primi cinque minuti, glielo devo fare vedere, se lo vedono poi fila tutto liscio.”. Cosa intendeva? Non lo spettro in sé, P.P.P. nessuno lo può costringere o governare. Diciamo allora: lo spettro dello spettro – quelle infinite proiezioni di sé come cadavere martoriato, gatto schiacciato da un copertone, pesce mezzo mangiato, bestia ridotta in poltiglia che P.P.P. amava tanto quando ancora era vivo. Piaceva, a quell’uomo inimitabile e straordinario, immaginare il suo cadavere. Esercizio spirituale degno di un Ignazio da Loyola, e per niente alla portata di tutti. Serve una mente sottile, ironica, capace di sintesi. Io sono completamente incapace di immaginare il mio cadavere, e credo che lo stesso valga per Fabrizio. Ma Fabrizio si è impadronito di qualcosa di prezioso. Ha rubato a P.P.P. una potenza, una peculiarità della sua anima. Non un’idea, tutti sono buoni a impadronirsi di un’idea, ma una fonte di energia ancora intatta, ancora vibrante. E’ una cosa un po’ strana e poco professionale quella che sto per dire, perché il mio ruolo era quello di collaborare attivamente allo spettacolo, ma dall’inizio alla fine ho ammirato Fabrizio come fossi stato comodamente seduto fra il pubblico. E del resto, usavamo anche lo stesso tipo di sedie. Io mi dico sempre la stessa cosa, quando ammiro qualcuno, quando ammiro un particolare gesto artistico: questa persona, mi dico, sta procedendo sul filo di lana dell’incomprensibile. E che significa? Non lo spiegare. Ma le parole sono quelle. Posso solo dire che per procedere su quel filo bisogna farsi più leggeri che si può. Così come l’essenza del santo è la trasformazione della carne in fiato. E come la carne è la custodia dello spirito, così il fiato è il corpo della voce, la sua materia prima. Queste sono tutte trasmutazioni che discendono da un’alchimia complessa, lungamente meditata da Fabrizio. Perché la posta in gioco è alta: liberarsi definitivamente da quell’idea un po’ stolida dell’attore che “recita” o “esegue” qualcosa che uno si leggerebbe molto più comodamente a casa. Creando, al contrario, qualcosa che può esistere solo lì, in quel dato momento, un pomeriggio d’autunno a Londra e la prossima volta chissà dove. E che non assomiglia a nessun altro modo in cui possiamo leggere i libri di P.P.P. o sentirne parlare o ascoltare su YouTube una sua intervista. Alla fine, quando ormai il pubblico è quasi tutto in piedi e la sala si svuota, hai la sensazione che quel grumo di materia psichica che Fabrizio ha fatto vedere sia rimasto ancora un poco lì, tremando nella sua leggerissima consistenza, prima di dissolversi nell’ombra.