Categories
bio

Franco Basaglia

BIO_hp(V4)

Franco Basaglia

Corpo a corpo

Amo il mio lavoro con tutte le mie forze.
Sono disposto a giocarmi tutto in un teatro. Il corpo a corpo con ogni singolo spettatore nello smarrimento del gioco rituale, i processi creativi e cognitivi offerti al centro della scena, la condivisione con la comunità di quello che qualcuno ha definito un atto sacrale di conoscenza attraverso cui cercare riscatto e resurrezione (Carlo Emilio Gadda in “Eros and Priapus”), tutto questo impagabile corto circuito di aspetti razionali e di pura irrazionalità, insomma, continua a scuotermi e a commuovermi.
Ma se in teatro il corpo a corpo è tutto nel simultaneo confronto con chi condivide con te l’esperienza del rito – ché di questo si tratta – in un film le cose cambiano. Il lavoro procede per differenti dinamiche temporali. Gli spettatori sono una presenza virtuale e rimandata nel tempo. Si rivelano come presenze reali a distanza di mesi, a volte dopo un anno, durante il quale la materia – un tempo incandescente – ha preso naturalmente a raffreddarsi. E, soprattutto, questo cosiddetto ‘pubblico’ prenderà parte, quasi nella sua interezza, alla visione del film in assenza del corpo vivo degli attori. Mancando o essendo in genere esigue le cosiddette ‘prove’, inoltre, l’incontro vero e proprio con il regista avviene sostanzialmente sul set, durante le riprese. Insomma non c’è dubbio che, nel caso di un film, il corpo a corpo dell’attore – soprattutto nella fase iniziale del proprio lavoro – sia con il personaggio. Quel personaggio – ispirato a un’esistenza reale o partorito dalla fantasia degli sceneggiatori – a cui il combinato disposto ‘scelta/casualità’ ti ha messo di fronte. Quell’altro da te in cui dover sprofondare.
Quando il regista e i produttori di “C’era una volta la città dei matti…” mi hanno ufficialmente proposto la possibilità di interpretare il protagonista di questo racconto, il volto di uno delle più grandi personalità della storia italiana del XX secolo ha iniziato lentamente a materializzarsi allo specchio. Il volto aperto, tranquillo, serio ma irriverente di Franco Basaglia.
Ricordo di essere andato, di primo acchito, a cercarlo in una primissima serie di immagini pescate nella ‘rete’. Fra le infinite possibilità offerte dalla ‘nuova età dell’uomo’ – l’era di internet – c’è anche quella di poter trovare, in pochi secondi, molteplici immagini, fisse o in movimento, mute o sonore, di una persona mediamente conosciuta. Se poi quel volto appartiene a un personaggio molto noto, in pochi istanti, un vasto catalogo di fotografie e filmati può squadernarsi davanti a tuoi occhi.
Le prime impressioni che mi attraversarono furono: un’eccessiva larghezza del suo viso rispetto al mio, una corporatura che mi sembrò subito più massiccia e un certo suo modo di muovere gli occhi. Un certo portamento dinoccolato me lo rendeva però alquanto familiare. E poi la voce. Una voce con cui instaurai da subito un rapporto fortemente empatico. Mi accade spesso. Spesso la risonanza di una voce mi permette di accedere più velocemente a una forma di conoscenza con un altro essere umano. Ma in questo caso quel timbro, unito a un modo tutto particolare di modellare la linea della voce sulla quella dei propri pensieri come fosse un abito aderente che ti permette di indovinarne le forme, mi risuonava dentro in maniera davvero decisa.
Lo sguardo e la voce mi sembrarono subito le cose più personali di Basaglia, quelle a cui puntare in questa nuova avventura dell’incantamento. Non possedevo ancora quella gran mole di informazioni a cui sarei pervenuto dopo qualche mese di intenso lavoro. Non sapevo ancora quanto quello sguardo – indissolubilmente legato alla sua straordinaria capacità di ascolto – fosse centrale nella prassi del suo lavoro. Ma ricordo di aver pensato subito che se fossi riuscito a conquistare un po’ di ‘quello sguardo’ qualcosa di importante sarebbe accaduto. Poi iniziarono le letture. Le mie iniziarono ad incollarsi alle sue: l’esistenzialismo di Sartre e Merleau Ponty, e poi Foucault, Binswanger, ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione e la fenomenologia di Husserl. Belle letture. Alcune già frequentate ai tempi del liceo o successivamente negli anni delle letture onnivore, altre da scoprire. Non lo faccio sempre, non sono così ossessivo. Ma questa volta, istintivamente, sentivo che era importante, per me che lo dovevo studiare, capire come e cosa avesse studiato lui. Chi fossero stati i suoi maestri e in che modo li avesse mangiati e digeriti per poterli attraversare.
Dopo circa un mese e mezzo di primo lavoro feci vedere a Marco Turco qualche breve registrazione fatta in casa con una telecamera: nei miei primi tentativi di ‘esser Franco’ mi ero inventato delle interviste simulate. Parlavo a ruota libera ad un immaginario interlocutore raccontando l’esperienza di Gorizia e lo shock del mio primo ingresso in un manicomio. Marco mi sembrò contento e colpito da questa prima tappa di avvicinamento. Parlammo a lungo. Marco appartiene a quella categoria di registi, non così diffusa, che ama gli attori. Li annusa, li riconosce, decide se dargli fiducia. Quando questo avviene, è il primo a godere di ogni sfumatura. Ti incoraggia con il suo entusiasmo. E un attore non può che essergliene grato.
Ci rivedemmo un bel po’ di tempo dopo per le prime prove trucco e costumi. Con Bruno Tamagnini cercammo di avvicinarci alla qualità dei suoi capelli, più mossi dei miei. Con Gabriella Trani cercammo di capire come poter leggere i passaggi di tempo sul suo viso, quanto accentuare con misura i segni del trascorrere degli anni (nel film si va dai trenta ai cinquantasei anni). Con Lia Morandini ci concentrammo su come si portavano con naturalezza i vestiti e le cravatte negli anni sessanta. Pensai allo scultore Alberto Giacometti che dipingeva e scolpiva normalmente nel suo atelier in giacca e cravatta come se indossasse i più comodi e consunti abiti da lavoro. E poi il passaggio agli anni settanta, ai maglioni, ai jeans, alle giacche e ai pantaloni di velluto pesante. Eravamo tutti d’accordo su un punto: gli anni sessanta andavano pensati in bianco e nero, gli anni settanta a colori.
Infine, o se si vuole in principio, arrivarono i giorni delle riprese. Il tempo in cui misurare, attimo dopo attimo, quanta parte di quell’indispensabile lavoro preliminare avrebbe resistito all’immersione nella vita vera delle singole scene e quanta parte, invece, si sarebbe rivelata nei fatti ‘sbagliata’ per eccesso o per difetto. Si trattava insomma di capire sul campo se tutto questo lavoro preliminare, quasi sempre ignorato e sconosciuto ai più, mi avesse condotto da qualche parte. Oppure no. Sono delicate le prime giornate su un set. C’è tanta gente, molti gli sconosciuti con cui finirai magari con lo stringere rapporti intensissimi nell’arco delle riprese, ma che poi perderai. In realtà non è così vero che il pubblico arriva dopo molti mesi. I primi spettatori, spesso i più esigenti, sono già qui. I loro sguardi, a volte esibiti a volte nascosti, hanno un peso e si fanno sentire. In questi primi giorni, inoltre, bisogna spesso munirsi di una particolare forma di coraggio: quella di abbandonare subito qualcosa del personaggio a cui si era già affezionati ma che si rivela d’un tratto innaturale, per accudire silenziosamente tutto ciò che diventa natura senza sforzo.
Le prime due settimane le passammo in un grande edificio sul lungomare di Ostia, dove girammo alcuni interni sia della prima che della seconda parte (alcune scene con Franca e le riunioni con i miei collaboratori a Gorizia, molti interni del S. Giovanni di Trieste, una parte del laboratorio arcobaleno). Poi arrivarono le settimane di Imola. I padiglioni abbandonati del vecchio ospedale psichiatrico della città servirono a raccontare la maledizione dell’ospedale di Gorizia e la sua trasformazione. Giornate indimenticabili e decisive perché alla troupe del film si unirono le ragazze e i ragazzi delle cooperative di Imola, che avevano vissuto o stavano ancora attraversando – nella realtà – momenti di disagio mentale, e che presero a riempire con incontenibile e a volte silenzioso entusiasmo e con strabiliante professionalità tutte le scene delle camerate e delle prime assemblee goriziane. E’ li, credo, che ha preso definitivamente ‘corpo’ il personaggio di Franco Basaglia. Per merito degli altri corpi e degli altri sguardi in cui mi impigliavo. Tutto si confuse. Tutti ci perdemmo. Unendo le nostre forze, scambiandoci consigli o semplicemente osservandoci da lontano, stavamo cercando di raccontare tutti insieme una delle storie più importanti del secolo appena trascorso. Quindi ci trasferimmo a Trieste. Esaurite, nelle prime giornate friulane, le riprese degli esterni dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, entrammo al S. Giovanni: in quella che appena qualche decennio fa era chiamata, dai cittadini di Trieste, ‘la città dei matti’ e ora è sede del Dipartimento di salute mentale. Temevo questo momento da quando erano iniziate le riprese. Paventavo l’incontro con tutte le persone che avevano conosciuto Basaglia, che ci avevano lavorato o erano stati suoi pazienti, e da cui temevo di sentirmi osservato. Mi aspettavo tutta una sfilza di “Io che l’ho conosciuto, però te digo…’. E invece avvenne tutto il contrario. Tutti mi chiamavano Franco. Ciascuno mi raccontava la propria storia. Che si fosse fra i viali, o nel mitico ristorante-cooperativa ‘Il posto delle fragole’, o nel grande roseto creato da Franco Rotelli, si respirava fiducia. Peppe Dell’Acqua fu il mio Virgilio. Che non ringrazierò mai abbastanza. Finite le riprese o quando non lavoravo, qualche volta lo accompagnavo nei suoi giri, nei centri di salute mentale, nelle microaree, in tutti quei luoghi resi possibili da una delle leggi più civili e più avanzate al mondo. Mi presentava a tutti come Franco Basaglia e tirava dritto senza dare molte spiegazioni. Grazie a lui potevo constatare con i miei occhi quali fossero gli esiti dell’unica rivoluzione portata a termine in questo Paese. Capire davvero cosa significa cercare di applicare quotidianamente la ‘Legge 180’ per riempirla concretamente di senso e come sia tutt’oggi facile disattenderla. Avevo il privilegio di attraversare, per qualche settimana, un territorio dove, ogni giorno, persone pazienti e preparatissime mettono a disposizione tutte le proprie energie per aiutare ‘i nostri fratelli più sfortunati’, in strutture pubbliche dove non esiste più, come diceva Basaglia, una psichiatria per i poveri e una psichiatria per i ricchi. Persone consapevoli che, una volta restituita dignità e diritti civili a persone per decenni private di tutto, la maggior parte del lavoro sia ancora da fare. Allo stesso tempo, però, stabilito un contatto con ‘il corpo’ di Franco e finchè l’incantamento perdurava, potevo anche guardare il presente, con un po’ dei suoi occhi. Ma quale presente si offre dunque oggi al nostro sguardo? Temo che, paradossalmente, e forse in controtendenza rispetto a quel che più spesso accade – quando si ha l’impressione che il sentire comune sia più avanti delle leggi che regolano la nostra comunità – in questo caso la netta sensazione sia quella di disporre oggi di uno strumento legislativo e culturale molto più avanzato rispetto alla sensibilità diffusa. Come si sia arrivati a questo credo sia un quesito a cui non sia difficile azzardare delle risposte. Venendo da alcuni decenni in cui le politiche di questo paese sono state sempre più spesso gestite e direzionate facendo leva sui temi della paura, della chiusura e della diffidenza, sul pensare innanzitutto a come difendersi dall’altro, se questo insomma è stato il laboratorio con cui sono state costruite sistematicamente le paure di una comunità, è ovvio che oggi quello stesso paese viva più sulla paura che sull’ascolto. Aver paura dell’altro significa aver paura di perdere quel poco o tanto che si ha; una paura che non conosce distinzioni di classe, che attraversa trasversalmente tutto il tessuto sociale, dai ceti più abbienti a quelli più disagiati. Perché la paura è un sentimento dall’innesco facile, un virus di rapido ed irrazionale contagio. Esattamente contro tutto questo, del resto, avevano combattuto Basaglia e i suoi collaboratori e contro tutto questo (oltre che contro uno sterminato elenco di altre questioni) sta oggi a noi, ogni giorno, continuare a combattere. Ecco perché un quotidiano nazionale (L’Unità del 9 febbraio 2010), nel dedicare tutta la sua prima pagina – fatto per’altro decisamente eccezionale – all’enorme successo di questo film, intitolava: “Lo sguardo che manca”. Ed ecco perché sono convinto che un piccolo film come questo – nato dalla passione e dalla determinazione di molti – contribuendo al recupero di un altro pezzo di memoria condivisa – rappresenti anch’esso ‘un atto sacrale di conoscenza’.

Fabrizio Gifuni

Categories
bio

Giuseppe Bertolucci

BIO_hp(V4)

Giuseppe Bertolucci

Magari vi raggiungo dopo – Lavorare con Giuseppe Bertolucci (Maybe I’ll join you later – working with Giuseppe Bertolucci)

Da quando ho a che fare con Freud per motivi di teatro ho ripreso a sognare. La notte prima della proiezione del bel documentario di Stefano Consiglio (Evviva Giuseppe!) dedicato a Giuseppe Bertolucci – ospite della Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 – faccio questo sogno che annoto la mattina seguente.

Siamo al Lido. Cammino con Natalia Aspesi (incontrata nella realtà il giorno prima alla proiezione di un altro film e forse per questo rimasta impigliata nel mio sogno) andando verso la Sala dove verrà proiettato il film su di lui. Mi accorgo, mentre camminiamo a passo svelto, di un signore che sta un po’ nascosto dietro a un camion e che assomiglia in maniera impressionante a Giuseppe. Mi fermo per guardalo meglio, lasciando andare avanti la Aspesi. Capisco senza ombra di dubbio che si tratta di Giuseppe e penso, mentre inizio a parlargli, che è la prima volta in vita mia che vedo e parlo con un vero fantasma più vero del vero.
Gli dico: “Giuseppe… che meraviglia… stiamo tutti andando a vedere il film su di te… vieni anche tu?”. Lui schermendosi e ritraendosi di un passo, come faceva spesso in tante occasioni in cui non aveva piacere di farsi vedere, mi dice:
“Ma no, andate andate, mi imbarazzo a stare lì in sala con tutte le persone…”.
Poi, forse vedendo un po’ di delusione nei miei occhi, aggiunge: “dai su… magari vi raggiungo dopo”.

Ho conosciuto e lavorato per la prima volta con Giuseppe Bertolucci, intorno al 1998, alla radio. E più precisamente in quell’oasi – ancora protetta – di intelligenza che è Radio 3. A Luca Ronconi era stata affidata la direzione di un bellissimo progetto chiamato “Teatri alla radio” che vedeva coinvolti venti registi e duecentocinquanta attori, gli uni e gli altri di sorprendente varietà.
Sia i registi che gli attori provenivano infatti indifferentemente dal teatro o dal cinema, come Gianni Amelio che ho avuto modo di conoscere sempre in una di quelle occasioni. Si iniziava a rompere in quegli anni quell’idiotissima ‘separazione delle carriere’ – tutta italiana – che aveva diviso, per circa trent’anni, il mondo del teatro da quello del cinema e della televisione e si pensò, forse, che la radio potesse essere un ‘campo neutro’ adatto a quest’opera di pacificazione. Per Giuseppe, abituato da sempre ad ogni pratica di contaminazione, si trattava semplicemente di declinare il suo modo di lavorare in uno dei suoi tanti possibili fronti. Ci incontrammo dunque per la prima volta in Via Asiago dove mi propose di dar voce a uno dei figli di Arialda – personaggio che dà il titolo a un lavoro teatrale di Testori – interpretata da quel faro di luminosa bellezza e sfolgorante talento che è stata – e continuerà ad essere – Mariangela Melato (anche con lei il primo incontro).
Più o meno un anno e mezzo dopo, Giuseppe mi propose un altro ruolo in quello destinato a diventare il suo ultimo film di finzione (e ‘sulla finzione’) – L’Amore probabilmente – ospitato alla Mostra cinematografica di Venezia nel 2001.
Fu un viaggio bellissimo, spericolato ed entusiasmante, durante il quale iniziammo a conoscerci decisamente meglio e ad instaurare un rapporto che iniziava ad andare anche oltre le questioni lavorative. Giuseppe fece arrivare dall’Inghilterra dei primissimi modelli di minuscole telecamere digitali di cui, precorrendo i tempi, voleva saggiare vantaggi e opportunità, vere o presunte. Iniziò a riprendere ogni cosa fin dai giorni di preparazione. Le prove degli attori, le discussioni, le letture, le prove costumi. Iniziava lentamente a prendere forma nella sua testa un’idea imprevista, del tutto estranea al progetto originario, che diventerà poi il motore primo del film: costringere gli spettatori a saltare continuamente dalla realtà delle prove degli attori con il regista alla finzione delle scene ‘recitate’. Verità e finzione si sommavano progressivamente fino a confondere ogni cosa, aprendo la strada al terzo capitolo del film, quello sull’immaginazione. Come effetto di tutto ciò, durante le riprese, si liberava sul set una strana disordinata euforia che a Giuseppe piaceva da pazzi.
Dopo l’esperienza de L’Amore probabilmente – dal 2004 al 2010 – abbiamo passato molto tempo insieme, questa volta in teatro, per il progetto Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione. Questa volta fui io a chiedere a Giuseppe se voleva lavorare con me. Stavo elaborando da diverso tempo un’idea di spettacolo a partire da alcuni scritti di Pasolini e da un poemetto in versi dello scrittore e pittore milanese Giorgio Somalvico a cui si aggiunse, successivamente, il lavoro sui materiali che avevo raccolto da alcune opere di Gadda. Ne sono nati due spettacoli, per me decisivi, di cui Giuseppe ha curato la regia, dal titolo "Something Like a Very Long Cadaver" and Gadda Goes to War, or, the Tragic History of Amleto Pirobutirro. Oggi a distanza di anni mi capita di ripensare a questo progetto come a una sorta di personale Rito di passaggio. E’ in quest’ultimo lungo lavoro fatto di drammaturgie e forsennati gesti performativi che, forse, sono diventato adulto, ammesso che questo voglia dire qualcosa. Giuseppe mi ha accompagnato in questo viaggio facendomi da specchio e restituendomi, con una generosità rara e stupefacente, tutto l’entusiasmo, la fatica e le speranze di un complesso processo creativo in cui il lavoro sul corpo era al centro della scena.
Dei due spettacoli Giuseppe ha curato la regia anche delle riprese televisive, con particolare attenzione a "Something Like a Very Long Cadaver". Mentre infatti nel lavoro su Gadda, anche su mia richiesta, le riprese, effettuate durante le repliche, riflettono abbastanza fedelmente il montaggio dello spettacolo, la versione televisiva del Pasolini – registrato a Bologna al di fuori delle repliche – sovverte e scardina spesso l’andamento teatrale, con invenzioni e soluzioni registiche formidabili, come nell’uso di un coro greco femminile affidato alla direzione di Giovanna Marini o nella frequente trasformazione dei corpi degli spettatori (a tratti tutti vecchi, a tratti tutti bambini) visti come in una visione allucinata del protagonista.
Questo in sintesi il nostro percorso: la radio, il cinema e il teatro fatti insieme. Negli anni seguenti Giuseppe ed io abbiamo continuato a parlare a lungo di spettacoli visti e di nuovi progetti da immaginare. Ma anche e molto di politica, di famiglie, di padri ingombranti, di Parma e di Roma, di ristoranti a cui eravamo affezionati. Abbiamo continuato a seguire la Juve in televisione. Oggi avremmo continuato a parlare delle giocate di Dybala che molto gli sarebbero piaciute o dei suicidi psicoanalitici della Sinistra che molto lo avrebbero intristito, senza troppo darlo a vedere. Perché Giuseppe si sforzava di dare alle cose il peso che queste meritavano.
Giuseppe Bertolucci è stato uno degli uomini e degli artisti più liberi e generosi che abbia mai conosciuto. Un artista che, oltre a ignorare completamente il significato di alcune parole come calcolo o convenienza, era in grado di esercitare il suo talento artistico e poetico, nei territori più svariati, senza farsi condizionare da nulla. Assumendosi, sempre e totalmente, oneri e onori (questi ultimi sempre troppo pochi) di questa sua personale ricerca di libertà.
Un vero intellettuale, se è ancora possibile attribuire a questo termine un significato semplice e concreto, sottraendolo allo svilimento del linguaggio di questi anni quando non all’insulto. Oltre che cineasta, documentarista e regista teatrale, pittore, poeta, scrittore e Presidente, per un lungo periodo, della Cineteca di Bologna.
Mettendo da parte l’affetto e l’amore infinito che gli porto, mi piacerebbe saper raccontare come lavorava Giuseppe sul set o in teatro. Ma non è facile definire a parole la rarissima qualità del suo sguardo e dell’attenzione con cui capovolgeva abitualmente l’ordine delle cose, senza esibire mai tecniche o trucchi da grande Maestro. Giuseppe si divertiva al contrario a far perdere spesso le tracce della sua presenza, diventando improvvisamente silenzioso, così da farti perdere con lui. Almeno nelle occasioni lavorative che mi hanno visto coinvolto, ho avuto l’impressione che il suo modo di vivere il set fosse molto diverso dal suo modo di vivere il teatro. Credo che il cinema gli risvegliasse più infanzia. Giuseppe era più sicuro e più sfrontato nel portare avanti le giornate di lavoro. O almeno così sembrava. Il cinema del resto obbedisce a regole più ferree, pretende un capitano che ogni giorno attraversi il mare per ricoverare ogni notte la sua nave in porto. E Giuseppe si divertiva a interpretare a suo modo quella parte senza mai esercitare quella fetta di potere che quel ruolo ti assegna nel tempo limitato della lavorazione di un film. Senza prendersi mai veramente sul serio.
In teatro invece lo vedevo molto più riflessivo e silenzioso, concentrato verso un unico punto, lo spazio scenico e il corpo dell’attore. Più sereno forse, più felice chissà. Credo si sentisse meno afflitto dalle responsabilità di un ruolo. Arrotando le sue erre diceva che in teatro si sentiva, come nel pugilato, ‘uno sparring partner’, un finto avversario complice dell’attore ingaggiato per un match di allenamento. Un allenatore che ti aiutava a indirizzare i pugni, a stare in guardia, attento all’importanza del gioco di gambe, per sorprendere meglio il pubblico nel corso delle future riprese del vero combattimento. Naturalmente faceva molto ma molto di più ma ogni volta che sorrideva sornione e gli sentivo ripetere quell’espressione avvertivo una totale e arrendevole sincerità. Che nasceva da una profonda ammirazione e da un vero rispetto per il mistero dell’attore in scena.
Sia al cinema, naturalmente, che in teatro Giuseppe riservava una grande attenzione alla luce. Aveva iniziato in teatro accendendo solo una lampadina, appesa a un filo, sulla testa di un giovanissimo Benigni nell’indimenticabile Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, monologo teatrale che si fece cinema poco tempo dopo nel suo primo film, Berlinguer ti voglio bene. Nei lavori a cui ho preso parte, due grandi direttori della fotografia – Fabio Cianchetti ne L’Amore probabilmente e Cesare Accetta nei due spettacoli su Pasolini e Gadda – sono stati i suoi interlocutori privilegiati nel suo magmatico e magnetico lavoro di regia. Giuseppe lavorava in un modo gentile, non conflittuale. Detestava gli scontri aperti, non alzava mai la voce, ma sapeva puntare i piedi come un mulo quando decideva di non mollare su un punto. L’uso del tempo era una delle sue armi migliori. Sapeva che il Tempo non va mai forzato e che bisogna avere il coraggio e la spudoratezza di prenderselo tutto, senza mai lasciarsi opprimere dall’ingannevole calendario del ‘dover essere’.
Sia sul set che sul palcoscenico Giuseppe non aveva mai in tasca una verità pronta da offrire all’attore ma piuttosto dieci dubbi, creativi e stimolanti, da sparpagliare abilmente sul suo cammino. Raramente ti offriva delle soluzioni preconfezionate o decise in partenza ma sempre ti costringeva a riflettere su un ventaglio di possibilità che lentamente ma inesorabilmente ti aiutavano a ricostruire un tuo personalissimo sentiero.
Un modo di lavorare, non so se un metodo, sicuramente più vicino alle pratiche dell’inconscio – che d’altronde ben conosceva – che non a quelle di un’ Io cosciente pronto ad imporsi. Giocava (o fingeva di giocare?) di rimessa, divertendosi di più a nascondersi dietro alle cose che faceva (così bene) che non a stampare in bella mostra il suo marchio di Autore.
Sempre un passo indietro.
Come nel sogno fatto a Venezia prima della proiezione del film che provava a mettere insieme alcuni pezzi della sua storia.

(Il testo farà parte di un libro di studi critici e testimonianze dedicate a Giuseppe Bertolucci di prossima pubblicazione)

Categories
bio

Massimo Castri

BIO_hp(V4)

Massimo Castri

Quel salto che non dimentico (That leap I will never forget)

Credo che Massimo fosse davvero felice solo in teatro perché solo in quel luogo poteva abitare di nuovo, pienamente, la sua infanzia. E c’era molta infanzia nel suo teatro: figli scombinati, non cresciuti, feriti, male educati, in conflitto con i grandi ma soprattutto con se stessi. E poi adulti cialtroni, insensati, violenti o bugiardi. Un’umanità storta e inadeguata, alle prese con la vita.

Massimo Castri è stato uno dei miei maestri teatrali. Se Orazio Costa è stato il grande maestro del periodo Accademico, l’incontro con Castri è coinciso esattamente con il mio debutto in teatro. In un’Elettra di Euripide, nata per il Teatro Caio Melisso di Spoleto nel 1993 e prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria.
Uno spettacolo per tanti versi memorabile.
In primo luogo, dal mio punto di vista, era un debutto da far tremare le vene ai polsi. Iniziare con una tragedia, nel ruolo di Oreste, diretto da uno dei più grandi registi italiani, con una compagnia di grande esperienza (con Annamaria Guarnieri, Tonino Pierfederici e Galatea Ranzi fra gli altri) è uno di quei banchi di prova in cui si può anche soccombere. O sopravvivere molto fortificati dall’esperienza.
In secondo luogo, l’Elettra era soprattutto uno spettacolo bellissimo, di quella bellezza un po’ magica che solo certi spettacoli riescono a sfiorare. E lo dico, se mai è possibile, da spettatore ancor prima che da attore. C’erano alcuni istanti in cui riuscivo a guardare lo spettacolo – pur standoci dentro – e a commuovermi. Senza dubbio una delle regie più belle degli ultimi vent’anni del lavoro di Castri.

Di quella prima esperienza ricordo nitidamente le lunghe prove a Spoleto d’inverno e anche quelle del riallestimento dell’anno successivo a Bevagna, in quel piccolo gioiello che è il Teatro Torti, riaperto dopo tanti anni per quella occasione. Prove per me difficili. Avevo paura di deluderlo. Che si potesse pentire di aver puntato su un ragazzo sconosciuto, appena uscito dall’Accademia, per un ruolo così importante. Sudavo in un modo impressionante. Il calore degli abiti e delle luci, certo, le corse sul campo di terra con i solchi dell’aratro che mettevano a rischio le caviglie. Ma oltre a questo, una tensione interna che non mi lasciava mai e che cercavo di mettere al servizio del racconto.

A quello spettacolo seguì il grande progetto sulla Trilogia della villeggiatura di Goldoni, un lavoro importante, durato diverse stagioni, per il quale Castri aveva riunito una gran parte degli attori e delle attrici con cui si era trovato meglio negli ultimi anni. Dando vita a una compagnia, credo, abbastanza speciale, che metteva insieme diverse generazioni. Abbiamo lavorato insieme quattro anni. Poi, come a volte accadeva già allora, in un periodo di crisi ancora non conclamata, le incertezze produttive dei teatri stabili costrinsero la compagnia allo scioglimento.
Fu una vera “Trilogia”, perché a differenza di quella storica di Strehler o anche di quelle successive di Vacis o di Servillo, che avevano riunito tutta la Trilogia in un unico spettacolo, Massimo l’aveva voluta come Goldoni l’aveva pensata. Con i tre testi separati visti come tre capi d’opera, tre momenti linguisticamente distinti. Li portammo in scena, anno dopo anno, e poi li rappresentammo tutti di seguito, in tre settimane, soltanto alla “Pergola” di Firenze.

Castri è stato un grande artista e un grande intellettuale, una persona che è riuscita a mettere in connessione, in alcuni momenti, in maniera abbastanza miracolosa, la sua testa con la sua pancia. Quella di Massimo era un’anima contadina, un po’ come la sua Elettra, che viveva su un campo in mezzo ai sassi. Un uomo legato visceralmente agli umori e agli odori della sua terra, la Toscana, e allo stesso tempo un solido intellettuale. Un regista in grado di dare una lettura personalissima e spesso sorprendente di alcuni testi del Novecento teatrale. Un etrusco, si definiva – ma poi chissà com’erano gli etruschi – dal carattere ispido e spesso scontroso. A volte avevo l’impressione che ricercasse, in maniera un po’ disperata, un modo per ritrovare il piacere. E lo cercava in uno dei pochi luoghi in cui è ancora possibile condividere la felicità dei giochi. Per questo spesso e volentieri litigava furiosamente con i suoi compagni – che fossero attori, produttori, critici o addetti ai lavori – esattamente come poteva litigare un bambino, grande e grosso, a cui qualcuno voleva rovinare la festa. Una volta l’ho visto mentre spiava dal fondo della platea un suo spettacolo. Lo faceva sempre, dopo un certo numero di repliche, per vedere se gli attori stavano ‘sbracando’ troppo il suo spettacolo. Borbottava, commentava ad alta voce, non si dava pace. Una signora lo zittì bruscamente. Lui si è girato e con la massima serietà gli ha detto: ‘Ma che vuole, lei ?’. Poi – con lo stesso tono che ha il bambino che si è portato la palla da casa e se lo fanno arrabbiare se ne va e se la porta via – indicando la scena ha aggiunto: ‘Quello l’ho fatto io!’.

Massimo sapeva divertirsi e faceva divertire, facendo ammattire gli attori, come spesso accadeva e continua ad accadere in quel teatro, al tramonto, che è il grande teatro di regia del Novecento. Con Castri però – a differenza che con altri registi, forse più ‘sinceramente’ dittatori sulla scena – c’era sempre una specie di trappola di libertà. Durante le prove gli attori avevano spesso l’illusione di poter lavorare liberamente, improvvisando per ore. Fino a quando intuivi che il lavoro di improvvisazione terminava nel momento in cui avevi indovinato quello che lui aveva in testa. E questo, spesso, provocava attriti, malumori e qualche frustrazione negli attori. Ma al di là di questo – è lunga e irrinunciabile l’aneddotica legata ai grandi maestri di quella stagione teatrale, come Strehler o Ronconi – Castri era una sorgente continua di suggestioni, di voglia di fare, di sperimentare, di immergersi nel proprio lavoro. Difendeva il valore artigianale del teatro, era curioso delle tecniche dell’attore.

Sono certo che Castri si sentisse veramente felice solo mentre preparava gli spettacoli, e ancor più quando li immaginava. Quando iniziava a metterli in scena, alle prove, riusciva ancora a divertirsi molto. Ma quando lo spettacolo debuttava, subito rientrava in quella prigione di nevrosi in cui ha vissuto per tutta la vita, e che lo straziava, perché Massimo era una persona fondamentalmente sofferente. Quando usciva dalla sala e tornava alla luce, il suo sguardo sul mondo tornava ad essere uno sguardo ferito, lo sguardo di una persona che non ci stava bene, che non si riconosceva in quasi nulla di quello che vedeva intorno. Solo in teatro riusciva a dipanare il suo groviglio, a fare pace con il garbuglio dei suoi fantasmi.

Massimo Castri ha sopportato il sistema teatrale italiano con grande fatica e con grande fatica il sistema sopportava lui. Eppure sentiva che quello era il suo posto, quella la sua storia e come un bambino ostinato rivendicava il suo spazio all’interno di quel mondo, scontando spesso per il suo carattere ma soprattutto per la sua libertà, anche dei prezzi piuttosto alti.
Fra tutti i ricordi legati al mio lavoro con Castri uno più degli altri si è conservato intatto fino ad oggi. Quello legato al modo in cui Massimo aveva immaginato il mio ingresso in scena nell’Elettra. L’arrivo di Oreste. Il pubblico era seduto soltanto nei palchi e spiava la storia dall’alto perché tutta la platea era occupata da un enorme campo di terra arata con in cima un ulivo. Le luci illuminavano la storia dall’alba al tramonto. Io dovevo restare nascosto per diverso tempo prima di entrare in scena in un palco laterale di secondo ordine e, quando era il momento, saltare sul campo iniziando ad inseguire Elettra. Lo spettacolo iniziava e io me ne stavo un quarto d’ora al buio, accucciato, con il pubblico a fianco che non mi vedeva, in attesa di saltare. E sera dopo sera cercavo di non pensare fino all’ultimo istante a quello che stava per succedere. Era la mia sfida. Con un misto di paura e coraggio mi preparavo al salto, sonnecchiando fino all’ultimo secondo utile. Poi, con il cuore in gola, facevo volare il mio bagaglio, che mi precedeva in scena, e poi mi lanciavo.
Mi era toccato in sorte di saltarci dentro, allo spettacolo, in una specie di rito iniziatico che mi è servito molto, credo, a registrare con la sola memoria del corpo, come si può entrare in un altro spazio e in un altro tempo. Quello dell’immaginazione.
Sarò sempre grato a Massimo di avermi regalato quel salto.

Fabrizio Gifuni

Categories
bio

Orazio Costa

BIO_hp(V4)

Orazio Costa

Orazio Costa, Amleto e il metodo mimico

Nel biennio 1992-93, Orazio Costa tenne in Accademia circa centosessanta lezioni, interamente dedicate all’Amleto di Shakespeare. Questo straordinario momento di studio faceva seguito a un altro ciclo di lezioni sul cosiddetto ‘metodo mimico’ tenuto da Pino Manzari e da Costa stesso l’anno precedente. Conservo gelosamente gli appunti di quelle giornate. Il testo su cui si lavorava era quello integrale, dal primo all’ultimo verso. Sette o otto traduzioni a confronto, più quella di Costa, da leggersi – come alcuni romanzi di Gadda – vocabolario alla mano. Tutti i ruoli erano a disposizione di tutti. Donne e uomini potevano cimentarsi indifferentemente su Amleto o Gertrude, Ofelia o Osric, Claudio o Polonio. Mi è capitato diverse volte durante gli ultimi quindici anni – sia che stessi lavorando a uno spettacolo sia che mi stessi preparando a un film – di sfogliare a caso quegli appunti, quasi scaramanticamente, per ricercarvi risposte a improvvisi quesiti, come nell’antico libro cinese dei Mutamenti, l’I Ching. “E’ l’aldilà che introduce il teatro, sono i fantasmi che guidano la nostra storia. L’uomo è sempre in colloquio con questi personaggi ideali, la cui presenza è sicura.. Il sipario in Amleto potrebbe aprirsi quando appare il Fantasma. Tutto sommato fino al suo apparire, in scena si realizza – sia pure con i dovuti incidenti – una ‘commediola militare’.” “La capacità di ripetere identico un suono o un rumore è un fatto di prodigiosa importanza. Ogni attore dovrebbe sapere esattamente quali siano le proprie condizioni audiometriche. Le attuali condizioni del nostro orecchio devono essere tenute sotto controllo e accuratamente esercitate. E il Coro è senz’altro uno dei modi più efficaci per farlo.” “S.Paolo diceva : ‘Che guerra in me, in cui vivono due uomini diversi’. Io dico, beato lui che ne aveva soltanto due..” “Non basta trovare la propria voce, è necessario volta per volta trovare la voce di un personaggio..” “Siete in una posizione privilegiata. Il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi. Gli attori sono punte ai margini dell’esistenza. Gli altri sono già morti e non sentono, per fortuna loro, la puzza che fanno..” “Non troverete molte persone che vi correggeranno ‘onestamente’ : siete soli e dovete sentire tutta la responsabilità di essere parte di questo tessuto esistente che è la lingua italiana.” “ ‘Colpi di scena’ e ‘nodi drammatici’ fanno si che un fenomeno possa essere compreso nella sua interezza : non c’è bisogno di conoscere tutte le gocce che compongono un temporale per ‘essere’ quel temporale. I caratteri distintivi di un fenomeno (una foglia può essere lanceolata, oblunga, a forma di cuore, a trifoglio, etc.), non devono allontanarci dal considerare che, per fortuna, i fenomeni in natura sono omogenei e si possono descrivere con alcuni ‘colpi di scena’ contestuali. Un albero si può descrivere con tre ‘colpi di scena’.” “In questo momento noi facciamo questo tipo di lavoro sul personaggio Amleto, ma il vantaggio che ne avrà chiunque un domani si trovi ad affrontare altri personaggi sarà quello di aver guadagnato ‘un fondo di Amleto’..” “Il timbro (o colore o metallo) è l’aspetto più personale di una voce, ed è una variabile che l’attore cura troppo poco. Nella vita di tutti i giorni diamo luogo continuamente ad un processo di mimesi spontaneo – anche dal punto di vista timbrico – rispetto alle persone con cui parliamo : a seconda della loro età, del sesso.. Cercate di ricordarvelo.” “C’è una splendida frase di Cicerone che dice : non esiste per l’uomo miglior teatro di quello che gli offre la propria coscienza.” ( Etc.etc..) Scorrendo quei taccuini, che hanno resistito a diversi traslochi, ogni volta mi domando quanti altri uomini, in Italia, abbiano dedicato con la stessa intensità tutta la loro vita al lavoro dell’attore. So con certezza che uno dei pensieri che hanno ossessionato Costa fino all’ultimo istante è stato come si potesse rappresentare il fantasma del padre di Amleto, in scena, senza scadere nel ridicolo. Chi ha avuto l’immensa fortuna di partecipare a quelle lezioni d’Arte sa che ha passato sicuramente molte più ore ad ascoltare la sua voce inconfondibile o a recitare in Coro tutto l’Amleto, di quante non ne abbia passate a provare una scena o un monologo, in questo o quel ruolo. Senza accorgersi, allora, che quella condizione di incomprensibile attesa a cui Costa spesso ci sottoponeva per ore e ore, era il modo migliore per infiammare la nostra fornace. E che quel morso tenuto sulla bocca del cavallo fino a farlo schiumare, era il modo migliore per prepararlo alla corsa. A una corsa lunga e insidiosa, in cui è facile perdersi o cadere sfiniti. Ci allenava, il maestro. Ci educava all’Ascolto, condizione primaria di qualsiasi prassi attoriale, teatrale o cinematografica. E ci insegnava al contempo, attraverso l’antica esperienza del Coro, che non si è mai ‘solisti’, anche quando si è soli in scena o si monologa. Precondizione di qualsiasi lavoro sul testo o sul personaggio, il risveglio dell’infanzia e del suo infallibile istinto mimico. Riavvicinarsi sempre di più a quell’innata capacità di diventare ‘qualsiasi cosa’ che hanno i bambini nei primissimi anni di vita. Un viaggio a ritroso alla ricerca di un’età dell’oro – il primo stadio dell’esistenza – in cui famiglia, scuola e convenzioni sociali, non avevano ancora avuto il tempo di chiudere la propria morsa infernale sui nostri corpi, interrompendo quel fiume di energia spudorata e benedetta. Che è mimica allo stato puro. ‘Scatenarsi’ di nuovo nel gioco, recuperarne le regole, smarrire il tempo e abbandonarsi. Costa si preoccupava del ‘nucleo originario’ dell’attività espressiva, del ri-avviamento all’Espressione. Stava all’attore scegliere successivamente la propria strada, che fosse la Fonè di Carmelo, la comicità di Panelli o il realismo mimetico di Volontè. In questo sta la grandezza della sua intuizione e l’unicità del suo insegnamento : il metodo mimico si antepone a qualsiasi altra tecnica, dandogli linfa e anima. Non può contrapporsi a nessun altra pedagogia perché, inevitabilmente, la precede.



Fabrizio Gifuni

Categories
bio cinema

David di Donatello-2014

BIO_hp(V4)

Awards and Honors

David di Donatello Award, Best Actor in a Supporting Role for "Il capitale umano" (Human Capital) - 2014

Categories
bio cinema

Nastro d’Argento-2014

BIO_hp(V4)

Awards and Honors

Nastro d'Argento 2014, Best Actor for "Il capitale umano" (Human Capital) - 2014