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Nomination David di Donatello

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Awards and Honors

Nomination for David di Donatello - 2012

Nominations for David di Donatello and the Nastri d’argento

Kineo Diamond of Cinema Award as Best Supporting Actor

Cinema and Territories Award for his interpretation of Aldo Moro(“Romanzo di una strage”, Piazza Fontana: the Italian Conspiracy))

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Premio Cariddi d’oro 2016

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Awards and Honors

Premio Cariddi d'oro - 2016, Taormina Film Festival

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Premio Aroldo Tieri

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Awards and Honors

The Aroldo Tieri Prize 2017

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Laurea Honoris Causa

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Awards and Honors

Honorary Degree in Italian Literature, Modern Philology and Linguistics - 2018

Come colui che si è dedicato con straordinaria passione ed eccezionale intelligenza alla fine rappresentazione dei più importanti autori della letteratura italiana e straniera; e inoltre, con maestria davvero mirabile, ha rivelato i segreti della voce umana e i misteri della recitazione, coltivando parimenti, con animo coraggioso ed assidua coerenza, l’arte dell’interpretazione e l’impegno civile.

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Diploma Honoris Causa in Recitazione

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Awards and Honors

Honorary Degree in Acting Centro Sperimentale di Cinematografia - 2018

Al cinema e in teatro, come attore e come regista, Fabrizio Gifuni lavora da sempre per mantenere viva la memoria culturale, artistica, poetica e politica del nostro Paese. Ha dato il proprio volto a personaggi centrali della storia d’Italia come Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Papa Paolo VI, Franco Basaglia, Giuseppe Fava. Da solo e in collaborazione con Giuseppe Bertolucci ha realizzato spettacoli teatrali importantissimi da e su Pier Paolo Pasolini e ha registrato la lettura integrale di “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” di Carlo Emilio Gadda. A questo, naturalmente, si aggiungono ruoli cinematografici di grande rilievo in film come “Il capitale umano” e opere televisive come “La meglio gioventù”.
Per l’impegno civile e la qualità del suo lavoro, è uno dei pochi artisti italiani per il quale non è sprecata una definizione difficile e nobilissima, apparentemente desueta ma tutta da rivalutare: quella di intellettuale.

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Le mie voci di dentro

360°

"Le mie voci di dentro"

Dopo De Gasperi and Paolo VI, è tornato in tv nei panni di Franco Basaglia, lo psichiatra che ha “cancellato” i manicomi.
Personaggio complesso e difficile da interpretare. Ma tagliato su misura per Fabrizio Gifuni. Uno che, al risveglio, si sente chiedere dalla moglie: ”Oggi quanti siamo?”

Fabrizio Gifuni a teatro è bravissimo. Quando la prossima stagione riprenderà la tournée (appena conclusa a Milano) dell’Ingegner Gadda va alla guerra, andatelo a vedere: è un’ora di recitazione col fiato sospeso, nella complessa lingua di Gadda e nei meandri della sua disperata esperienza bellica, da cui non vorresti mai staccare. Poi però lo spettacolo finisce, e il mattino dopo ci si ritrova con l’attore nella sala deserta a parlare di follia e di “voci”. In C’era una volta la città dei matti… (su raduno il 7 e l’8 febbraio) Gifuni diventa infatti Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano morto trent’anni fa, che lottò contro la disumanizzazione e violenza degli ospedali psichiatrici, e diede vita alla Legge 180. Quella, per intenderci, che fece chiudere i manicomi.

Lei in tv ha già interpretato personaggi realmente vissuti, da Paolo VI a Alcide De Gasperi, e ogni volta si trasforma anche nell’aspetto. Come fa?

Che siano persone vere o personaggi inventati, ho sempre cercato di cerare prototipi umani il più possibile diversi da me, persino fisicamente. Anche da spettatore, sono sempre stato più affascinato dagli attori irriconoscibili che da quelli che fanno sempre se stessi.
La moltiplicazione dei ruoli e delle personalità ha a che fare con la recitazione, ma anche con la follia.
La schizofrenia è il trionfo dell’invenzione della personalità. Ma il lavoro di Basaglia è stato mettere al centro il confine indefinibile tra normalità e follia. Oltre quale limite un uomo può essere definito “diverso”? Uno dei motti dell’antipsichiatria triestina era proprio: ”Da vicino nessuno è normale”.

E lei quanto è normale?

Se a 26 anni non avessi deciso di lasciare la facoltà di Giurisprudenza per diventare attore, credo che avrei avuto diversi problemi di gestione della personalità. Ho un’energia psichica e un’attitudine al cambiamento che trovano nel mio lavoro uno sbocco naturale. Recitando, posso giocare con queste mie tendenza.

Prima di diventare attore, le è capitato di spaventarsi di questa energia, di non sapere come incanalarla?

Fin da piccolo riuscivo a riprodurre molto bene le voci, compresa quella di uno zio settantenne. A 7 anni feci uno scherzo telefonico a mia nonna, convinto che lei mi sgamasse subito: invece, non capì che non ero lo zio. Mi spaventai, riattaccai e, la sera, con un po’ di timore, lo raccontai ai miei. Mi dissero che era una bella cosa: la nonna era molto sola e io potevo continuare a chiamarla per tenerle compagnia. Questo fatto mi provocò un sentimento duplice: il divertimento nel fingersi un altro, ma anche la sensazione che in questo c’era qualcosa di mostruoso, di terribilmente serio.

Quindi ha continuato a imitare voci?

Sempre, ovunque. Era un demonietto che avevo dentro. Durante il servizio militare mi ha procurato guai: il capitano non ha gradito l’imitazione e mi ha consegnato. La voce di quel capitano la faccio adesso a teatro, è il generale di Gadda. Io mi porto dietro un catalogo di voci, che sento intorno a me e da cui tiro fuori ogni tanto qualcuno.

Con tutto questo archivio di voci le capita anche di parlare da solo?

Certo, dialogo fra me e me. Oppure, solo davanti alla televisione, faccio lunghe improvvisazioni, do fondo al mio repertorio schizofrenico. Il suono della voce è la mia chiave di accesso alla recitazione: mi chiedo sempre perché una persona parla in quel modo, perché la sua voce si è formata così. Attraverso il suono è come se mi impossessassi della testa, ci entrassi dentro.

Lei è sposato con un’attrice Sonia Bergamasco: com’è la voce di sua moglie?

Proteiforme. Lei è anche musicista, ha un approccio più matematico e scientifico del mio, che è emotivo: conosce la lingua della musica e i suoi valori numerici.

Non era lei, fra i due, quello ossessionato dalla precisione?

Le mie ossessioni sono il rovescio della medaglia: avendo un piccolo inferno dentro, tento disperatamente di mettere ordine.

Affettivamente, che cosa le evoca la voce di Sonia?

C’è materiale per psichiatri nel nostro rapporto vocale. L’ho conosciuta prima attraverso la voce che di persona. Nel mio debutto in teatro, “Elettra”, ero Oreste, il figlio che uccide la madre. L’uccisione avveniva fuori scena, e in quel momento esplodeva un canto registrato con un acuto fortissimo: ”Figli non uccidete la madre”. Un anno dopo ho saputo che quella registrata era la voce di Sonia.

C’è qualche voce che lei non si sente di riprodurre, una sorta di tabù?

No: le voci sono proprio un modo per superare il tabù. In realtà, quello che mi interessa attraverso la riproduzione del suono è la capacità di rubare l’anima. Certo, è una vita un po’ sovraffollata. Sonia ogni tanto la mattina mi chiede:”Quanti siamo oggi?”.

Chissà che cosa avrebbe pensato Basaglia. A proposito: com’era la sua voce?

Molto bella, simpatica, veneziana. Capace di sdrammatizzare e riportare le cose alla concretezza.

Come si è avvicinato a lui?
Intanto con un senso di liberazione. Il suo primo grande testo si intitolava L’istituzione negata, e questo mi ha aiutato a far piazza pulita di De Gasperi e Montini, con cui avevo avuto a che fare in tv. Come sempre, mi sono immerso nella documentazione, ho visto I giardini di Abele di Sergio Zavoli del ’68, che per la prima volta entra nel manicomio di Gorizia dando la parola ai pazienti, e diversi altri documentari. Dopo questo lavoro, però, ho cercato una strada originale: non sono un clone.

Che cosa pensa oggi dell’apertura degli ospedali psichiatrici, del lavoro fatto da Basaglia e dai suoi collaboratori?

E’ stata una delle poche rivoluzioni attuate in questo Paese, andava molto oltre i perimetri della psichiatria, toccava le scienze sociali e umane. Abbiamo lavorato fianco a fianco con persone che adesso stanno bene ma che hanno attraversato quel tipo di esperienza, gli elettroshock, la contenzione…
La città dei matti potrà chiarire alcuni dubbi sulla Legge 180: ogni volta che una persona con disturbi psichici compie azioni pericolose, c’è qualcuno che chiede la riapertura dei manicomi…
Una fiction non ha il compito di insegnare e spiegare. Però spero che a qualcosa serva. Sulla 180 c’è molta ignoranza: è percepita come la legge che ha liberato i matti, scaricandoli sulle famiglie. Ma il fatto è che prevedeva strutture e aiuti che in alcune regioni non sono ami arrivati. Mentre in altre zone, come a Trieste, ci sono i Centri di salute mentale, che sono pubblici e danno grande sostegno a famiglie e comunità.

Rinchiudere un malato significava togliergli la voce. Poi, c’è chi se l’è ripresa, come Alda Merini, una delle più grandi poetesse italiane.

Sì. In altro modo, è successo anche a Gadda: dopo la guerra, la prigionia, la morte del fratello, ha scritto che era un automa sopravvissuto a se stesso. Ma proprio da quella morte a se stesso nasce lo scatenamento della sua lingua. Diceva Genet che non c’è per la bellezza altra origine che la ferita.

Se l’arte nasce dal dolore: qual è il suo?

Non ho subito eventi traumatici. Ma ognuno porta dentro delle microfratture ed è lì, sulle proprie debolezze, che è più interessante lavorare.

Lei su che cosa sta lavorando?

Sto imparando a tirar fuori un po’ di cattiveria. Io ho la propensione a mettermi sempre nei panni degli altri: ce l’ho nel lavoro, ma me la porto dietro anche nella vita, e questo comporta qualche problema. Insomma, devo trovare la forza di rivendicare me stesso, ciò che sono e ciò che ho fatto.

Ha fatto due bambine di 6 e 4 anni: anche con loro fa le voci?

Certo, e le loro voci promettono molto bene. Anzi, ho ripreso alcune improvvisazioni che abbiamo fatte insieme, e le ho portate nel mio lavoro.

Marina Cappa, Vanity fair – febbraio 2010

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Sono un attore che gioca con il vento

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Sono un attore che gioca con il vento

Ha interpretato Basaglia, De Gasperi, Paolo VI.
Ha scelto Gadda per descrivere il premier seduttore.
Ritratto di un artista fuori dagli schemi.
Che non cerca la notorietà

Fabrizio Gifuni è un uomo colto che fa l’attore, quasi un ibrido nel mondo attuale dello spettacolo. Lui non sembra vantarsene, ma linguaggio e modi lo tradiscono al primo impatto. E’ infatti risoluto nel chiedere che non si parli troppo della sua famiglia d’origine (il padre Gaetano è stato a lungo segretario generale del Quirinale) e garbato nello spiegare che “nel paese più familista del mondo diventerebbe subito la cosa più importante”. Essere considerato un figlio di papà può risultare fastidioso anche a 44 anni, anche se porti Gadda e Pasolini in teatro, se hai alle spalle una ventina di film (il più celebre resta “La meglio gioventù”), se hai appena interpretato con successo in tv il ruolo di Franco Basaglia, lo psichiatra che aprì le porte dei manicomi. Una prova di recitazione che ha impressionato per efficacia e capacità mimetica, tanto che la faccia di Gifuni che fa Basaglia rischia ormai di sovrapporsi a quella dell’originale.

La stessa postura, la stessa voce, le stesse espressioni di Basaglia. Come riesce a riprodursi così in un altro?

Studiando moltissimo, sprofondando a lungo in tutta la documentazione reperibile. L’ho fatto per Basaglia come lo avevo fatto per De Gasperi e Paolo VI. Il più grande servizio che si possa rendere a un personaggio e al proprio lavoro è quello di sparire in lui.

Davvero basta lo studio? Lei ha una capacità di mimesi che si ricorda solo in Gianmaria Volonté

E’ un onore, anche se in alcuni casi Volonté è stato accusato di esagerare. Si tratta di un istinto naturale e anche di una scelta. Si può “essere” quel personaggio o estraniarlo rimanendo sempre se stessi come faceva Carmelo Bene. Ma fin dall’infanzia io so di avere un canale per mettermi in contatto profondo con una persona. Io riesco a entrare nella sua linea del suono.

Che cosa vuol dire?

Ascolto la sua voce, trovo il respiro e, attraverso il respiro, raggiungo il corpo che è tutt’uno con la mente. E’ il mio modo di recuperare quella mimesi primitiva di cui sono capaci solo i bambini. Un bambino che gioca a fare il vento diventa il vento. E un attore può così rincorrere la propria infanzia.

Carpisce le voci anche nella vita normale?

Dov’è la distinzione? Ciò che faccio è il risultato di ciò che sono. Scherzando ma non troppo, penso che se non avessi deciso di fare questo lavoro, avrei qualche problema di gestione della personalità.

E invece?

Invece ci convivo, anzi uso le mie tante parti al servizio di una professione che è anche una passione. Un privilegio raro in questi brutti tempi.

Non le piacciono?

I tempi? A chi possono piacere? Viviamo in un clima brutto, opaco e pericoloso. Quando porto in teatro Gadda esprimo attraverso di lui anche la mia rabbia.

Già, il suo monologo “L’ingegner Gadda va alla guerra” è una grandiosa invettiva. E’ per questo che lo propone?

Non proprio. Ho costruito una drammaturgia sul diario di guerra di Gadda per indicare la chiave della sua arte. Alla fine del primo conflitto mondiale, a cui partecipa da convinto interventista per scoprire la tragedia delle armi, l’orrore di Caporetto, la prigionia nei campi austriaci e la morte del fratello aviatore, Gadda dichiara che non scriverà mai più perché “nulla è più degno di ricordo”. E invece proprio per quella ferita profonda, per resistere a quella morte in vita, è costretto a scatenare la sua scrittura fantasmagorica.

Nel suo spettacolo c’è però dell’altro…

C’è il Gadda del ’45, quello che in “Eros and Priapus” fa il suo strepitoso referto clinico sulla psicopatologia erotica del presidente del Consiglio Benito Mussolini e soprattutto sull’attrazione periodica che il popolo italiano prova verso questo tipo di figure affetto da delirio narcisistico.

Vede che entriamo nell’attualità.

Ma è l’attualità che conferma prepotentemente le cose che Gadda scriveva più di 60 anni fa. Succede così ai geni di visioni profetiche che conquistano il diritto all’invettiva dopo aver fatto a pezzi se stessi. Anche Pasolini, che scendeva di persona all’inferno e sul quale ho fatto un altro spettacolo, aveva visto con largo anticipo l’omologazione, l’avvento del nuovo fascismo, l’uso criminale dei mezzi televisivi.

Lei ha passioni letterarie che appartengono alla generazione precedente. Come lo spiega?

Forse con il tentativo di sfuggire a quello spaesamento che si prova ad essere ventenni negli anni ’80. Finiva allora ogni istanza collettiva e si aprivano soltanto percorsi individuali. E’ una palude dove siamo ancora immersi e dove l’assenza di un’idea comune dà lo spazio solo alle opinioni di parte.

Per esempio?

Uno dice:”Questo paese è fondato sulla resistenza”. L’altro risponde:”Io penso di no”. E gli sembra normale. La demolizione della memoria condivisa ha prodotto anche l’azzeramento della memoria breve. Se non c’è ricordo del giorno prima, il giorno dopo puoi dire e fare qualsiasi cosa. Vale tutto, no?

E’ sicuro che non avrebbe fatto volentieri il politico?

Casomai il magistrato. Ho studiato con passione il diritto, anche perché ha misteriose assonanze con l’arte drammatica. Del resto la tragedia greca si fonda proprio sulla nascita del diritto. Stavo anche per laurearmi con una tesi su “Rito processuale, rito religioso, rito teatrale”, intenzionato a scoprire il loro legame.

Ma…

Ma sapevo già che avrei fatto l’attore. Lo sapevo fin dal liceo, quando in una messa in scena scolastica “Giulietta e Romeo” ho impersonato Merusio e ho scoperto che recitare mi dava un piacere fisico. Niente dopo aveva la stessa intensità. Così più tardi, mentre frequentavo Giurisprudenza, senza dire niente in famiglia ho fatto l’esame all’Accademia d’arte drammatica e sono stato ammesso.

Come l’hanno presa i suoi?

Non ho visto lo sconcerto che mi aspettavo. Sia mio padre che mia madre hanno avuto una reazione attonita ma non contrariata. Era evidente che si preoccupavano e si chiedevano:”Ma cosa va a fare? Ma sarà capace?”

Oggi sanno che era capace. La sua però è una popolarità discreta, di nicchia. Pensa che diventerà mai un divo?

Non lo so e non è questo il punto. Pur ritenendo che il lavoro dell’attore abbia una sua unicità, nella pratica faccio dei distinguo. In teatro porto avanti progetti miei, che penso fin dalle fondamenta, sullo schermo continuo a lavorare da interprete puro. Questo mi mette in salvo da esplosioni improvvise di notorietà.

Le considera un pericolo?

Senza punte di popolarità è più difficile lavorare, ma almeno non hai l’obbligo di fare cinque film all’anno perché sei l’attore su cui il mercato sta puntando, e puoi scegliere. Oggi io sono al compimento di 18 anni di professioni: Gadda e Basaglia mi hanno dato grandi soddisfazioni. Sto bene così, anche perché ho due bambine piccole, di 4 e 6 anni, e non mi va di lasciarle troppo a lungo.

Lei esagera con le qualità. Sta dicendo anche che è un buon padre?

Non lo so. Sono troppo occupato a vivere questa paternità per guardarmi dall’esterno come faccio nel lavoro. Però io e mia moglie, Sonia Bergamasco, stiamo attenti a garantire la presenza di uno o dell’altra. Anche perché sono anni di puro godimento. Quale spettacolo può sostituire quello di una creatura che va in prima elementare e comincia a mettere insieme le sillabe?

Faccio un tentativo: un film come protagonista con Scorzese?

Beh, finora non è capitato, e quindi mi è andata bene. Anche perché, se io sono quello che faccio, il tempo che passo con le mie bambine è un patrimonio che prima o poi andrà a finire nel mio lavoro.

Stefania Rossini, L’Espresso – marzo 2010

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La fiction su Basaglia

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La fiction su Basaglia? Un piccolo miracolo laico

Dopo il successo, a Febbraio, della fiction RAI in due parti C’era una volta la città dei matti… di Marco Turco, in cui interpretava lo psichiatra Franco Basaglia, l’attore Fabrizio Gifuni ha intrapreso la tournée dello spettacolo teatrale Gadda Goes to War, or the Tragic History of Amleto Pirobutirro, drammaturgia originale per la regia di Giuseppe Bertolucci.
Quella messa in onda ha ottenuto uno “share” notevole, con spettatori arrivati quasi a 6 milioni per la seconda puntata… Nella partecipazione al progetto non avevo avuto dubbi, un personaggio come quello di Basaglia passa una volta nella vita, se passa. Siccome viviamo, come dice Gadda, nelle paludi della Storia e le speranza ce le teniamo sempre in tasca perché c’è poco da sperare, in quel caso un piccolo miracolo laico si è compiuto.

Nell’arco di qualche mese, lei si è visto dapprima in un piccolo film indipendente, Beket, di Davide Manuli, dalla circoscritta e fugace distribuzione, e poi in prima serata sulla tv di Stato. Con due ruoli molto diversi tra loro. Il che dà l’idea di un forte eclettismo nel suo percorso artistico.

Cerco, ogni volta, di fare le cose in cui credo e che mi piacciono, e questo mi fa attraversare spesso territori produttivamente, organizzativamente, artisticamente molto differenti. Il che mi sembra molto sano, in Italia penso di essere uno degli attori che ha fatto più opere prime. Allo stesso tempo ho avuto la fortuna di incontrare registi come Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci, Liliana Cavani oppure quei pochi casi in cui la televisione offre qualcosa di stimolante e interessante. Senza dimenticare mai che il luogo privilegiato del mio lavoro non è in nessuno di questi tre, ma in teatro. Tutto parte da lì, le altre sono delle digressioni felicissime che però non possono proprio prescindere dalla mia attività sul palcoscenico.

Rispetto ai debutti cinematografici, cosa la convince di più a partecipare: il progetto, la sceneggiatura o altro?

Ci sono tante variabili, entrano in gioco componenti che spesso possono essere anche in contraddizione, presentare aspetti favorevoli oppure no. Magari c’è una sceneggiatura straordinaria ma con una produzione che non dà nessuna garanzia e che sai che sarà un calvario dal primo giorno di riprese, o viceversa una produzione valida però con una scrittura zoppicante, o ancora un regista con cui avresti sempre voluto lavorare ma con un personaggio che non ti convince. Così, l’ideale è quando si allineano più varianti possibili, cioè un progetto solido,, un autore che stimi, un ruolo soddisfacente. Siccome questo non avviene quasi mai, a quel punto bisogna affidarsi a un intuito, lasciare l’analisi razionale, e dire sì a naso.

Cosa porta il far convivere la passione per il teatro con gli impegni per il cinema e la televisione?

Credo che per un attore sia una pratica non soltanto salutare, ma anche indispensabile, cercare di creare una serie di vasi comunicanti in cui queste diverse forme d’espressione possano convivere in un’osmosi e uno scambio continuo. Ogni volta che torno su un set mi porto tutto quello che ho acquisito dalle ultime esperienze teatrali e viceversa. Questo secondo me crea una corrente molto dinamica. Può essere più pericoloso – ma poi, per carità, ognuno fa le sue scelte e ci sono dei percorsi che si determinano anche da soli – praticare per 40 anni, in maniera dignitosissima, soltanto teatro o cinema; però io credo che, potendo, si debba cercare un pochino di smuovere questi territori, anche per non dare la sensazione che siano mestieri diversi come è successo fino a un decennio fa, quando si aveva la convinzione che esistessero attori di teatro, cinema e televisione. Ecco, tornare a mischiare un po’ le carte serve a rimettere il lavoro dell’attore al centro della discussione, poi sta a lui confrontarsi con le diverse tecniche espressive.

Lei come ci riesce?

Cerco di non fare tournée lunghe anche 7-8 mesi come agli inizi, in teatro ormai da diversi anni lavoro quasi esclusivamente a progetti miei, da me pensati fin dalle fondamenta, e in cui cerco fin dall’inizio di contingentare i tempi, per cui magari dedico 4 mesi pieni al teatro e poi lascio il resto dello spazio a cinema e televisione. Certo, nel programmare ci vuole anche un po’ di fortuna, inoltre questo è un lavoro in cui per molti mesi sembra che non fai niente e poi improvvisamente succede tutto. Mi è capitato anche quando è uscito il film di Basaglia e ho debuttato con lo spettacolo su Gadda, per cui si ha la sensazione che uno lavori tanto mentre in realtà viene da 5 mesi di studio.

Federico Raponi, Liberazione – 6 aprile 2010

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Vi racconto quello che nessuno sa di me

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Fabrizio Gifuni: "Vi racconto quello che nessuno sa di me"

Primo equivoco: un attore di teatro e di fiction “impegnate” è per forza un uomo molto serio. Secondo equivoco: se hai fatto il Papa, il presidente del Consiglio, lo psichiatra rivoluzionario, sul tuo curriculum c’è scritto: astenersi cine-panettoni. A meno che non ti chiami Fabrizio Gifuni…

Lui è Paolo VI, lui è Alcide De Gasperi, lui è Franco Basaglia. Lui è giovane, vecchio, santo, matto da legare. Lui è Fabrizio Gifuni, prodotto “di nicchia” della natura umana: colto, gentile, segretamente capace di ridere. Visto in tv da milioni di persone (più di sei, soltanto per la sua interpretazione di Franco Basaglia), è poco “conosciuto”, perché la sua faccia sparisce in quella delle persone che ha messo in scena: ogni volta cambia gli occhi, la voce e i gesti. Sarà anche stato un Papa, ma Gifuni – quello vero – gira per Roma con uno zainetto sulle spalle, neanche fosse un adolescente. E, mentre parla, pensa accarezzandosi i capelli, proprio sopra le orecchie. Ho letto che è capace di “entrare nella linea del suono della gente”: partendo dalla voce riesce ad arrivare alla mente di chi ha di fronte. Sarà vero? Nel dubbio, tengo a bada la mia, di voce (per non svelare chi sono), e ascolto la sua (per capire chi è): è bassa, impostata. Ho paura che reciti.

Gifuni, le interviste non le piacciono, vero?

«A me piacerebbero anche. Ma sono gli intervistatori, di solito, a esserne delusi. Leggo nei loro occhi una specie di frustrazione. È come se mi dicessero: “Tutto qui? E io che cosa scrivo? Che titolo faccio? Non hai un piccolo segreto, una storia. No? Almeno un hobby…”» (ride).

E lei niente: sordo al grido di dolore del giornalista…

«È che sono una persona mediaticamente poco interessante, davvero non ho nemmeno un hobby».

E se invece fosse soltanto snobismo?

«La verità è che non mi piace questo mondo dove tutti sanno tutto di tutti. Se quelli che vengono a vedermi a teatro sanno tutto di me, sono meno interessati al personaggio che interpreto. Un po’ di mistero serve, dà forza a quello che fai. Apre la mente a mille possibilità».

Anche le interviste possono servire: basta che sia chiaro che non sono verità rivelate, ma piccoli racconti attorno a persone famose e possibilmente interessanti.

«Ehi, io non voglio diventare un capitolo di un romanzo d’appendice… » (ride).

Non succederà, glielo prometto. Dica la verità: lei fa sempre interviste molto colte perché teme di precipitare in un cliché. E magari rischia di cadere in un altro.

«Io parlo come parlo. So che dovrei crearmi un personaggio, è così che si fa di solito: si decide a tavolino chi e come si vuole apparire e poi si fa la parte con stampa e tv. Ma io so recitare solo in scena».

Soprattutto ruoli drammatici, perché?

«Per un equivoco. Ho cominciato con questo tipo d’interpretazioni e sono stato infilato nel cassetto “attori drammatici, borghesi colti, d’élite”…».

E invece in quale “cassetto” vorrebbe essere infilato?

«Nessuno. Penso che un attore possa entrare in qualsiasi ruolo. Farei volentieri una commedia, per esempio».

Lo farebbe un cine-panettone?

«Io leggo tutte le proposte, senza pregiudizi».

E poi come sceglie?

«Dunque: mi deve piacere la storia, deve appassionarmi il personaggio, la scrittura dev’essere interessante, il regista convincente, i colleghi bravi…».

Ho capito: niente cine-panettone.

(Ride) «La verità è che poi si sceglie sempre d’istinto».

Lei è uno che fa così? È stato l’istinto a portarla fin qui?

«È una passione che ho contrastato fin che ho potuto. Ho cominciato a recitare a 16 anni, ma sono arrivato alle soglie della laurea in giurisprudenza per dirmi che il teatro è la mia strada».

Perché così tanto tempo?

«Metto continuamente ostacoli fra me e quello che voglio, per sapere se lo voglio veramente. Quando ho capito che la mia era una passione autentica, l’ho seguita. Fino in fondo».

Adesso, a 44 anni, che cosa è il teatro per lei?

«È tutto quello di cui ho bisogno. Io ho un grande privilegio: faccio quello che sono. E viceversa. Lavoro e vita corrispondono».

Lei è fortunato.

«Ho detto che il mio è un “privilegio”, non un “regalo”. È una conquista che, oltretutto, va riconquistata continuamente. Un po’ come in amore: se incontri la persona giusta non puoi considerarla tua per sempre, sperando che il miracolo di amarla si rinnovi ogni giorno esattamente come il giorno prima».

Lei (sposato con l’attrice Sonia Bergamasco) ha due bambine, di 6 e 4 anni…

«Vederle crescere è un godimento assoluto».

Lo sa, Gifuni, che lei ride tantissimo?

«Non ha idea di quanto io mi diverta ogni giorno: sono un vero comico. Ma non lo dica in giro, se no mi chiamano in tv (è già successo) dicendomi: “Gifuni, facce ridere….”. E lì io mi blocco».

E se invece io le dicessi: “Gifuni, mi reciti una poesia”…

«Ma è matta?».

Ho capito, niente improvvisazioni. Lei come prepara i suoi personaggi?

«Leggo, guardo film, documentari, ascolto, penso, mi immergo completamente nella persona che devo interpretare. E poi ne esco, cercando di dimenticare tutto».

Perché?

«Perché devo riuscire a rimanere in equilibrio. Dritto: camminando sul filo che ho teso fra la persona che sto interpretando e la persona che sono. Non devo cadere né di qua né di là».

Prossima interpretazione?

«Il 21 maggio sarò a Fabriano per la prima tappa di un piccolo tour (che ripartirà nella prossima stagione). Sarò in scena con L’ingegner Gadda va alla guerra. Un omaggio a Gadda e alla sua sofferenza grandissima, la sua rabbia contro l’Italia e gli italiani. Una rabbia che metto in scena anche in ’Na specie de cadavere lunghissimo, un monologo, costruito sugli scritti più “corsari” di Pasolini. Poi sarò ancora a teatro con tre spettacoli musicali…».


Alt! Gifuni, la devo fermare, altrimenti tutto lo spazio a nostra disposizione se ne va in segnalazioni. Lei lavora come un matto. Mi dica piuttosto: condivide la rabbia di Gadda e Pasolini contro l’Italia e gli italiani?

«La condivido, la sento mia. Questi spettacoli nascono da una mia idea e da una mia drammaturgia. Ho cercato e messo in scena le parole che ho sentito più mie».

E che cosa la fa tanto arrabbiare?

«Sono tempi cupi, opachi. Non sopporto l’utilizzo che si fa delle paure della gente. Paura del diverso, della solitudine, della povertà. Mi soffocano i muri che si costruiscono per proteggersi dalla paura».

Che visione buia.
«Le ho mostrato il mio lato luminoso, perché è quello meno conosciuto. Ma io sono, anche, buio. Però, fra lo sguardo di Pasolini e quello di Gadda, io scelgo il secondo. Per Pasolini, l’unica prospettiva era una strada nell’abisso. Gadda invece parla di “paludi della storia” da cui prima o poi si esce. Io ci credo. Cerco di crederci».

Stefania Rossotti, GRAZIA – maggio 2010

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Ho detto che la cultura sta morendo

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Ho detto che la cultura sta morendo, su questo nessuno ha da obiettare?

L’attore finito oggetto di una polemica per aver usato la parola “compagno” al Palalottomatica: una tragicommedia. E invece bisogna ascoltare e ragionare.

Un’intera nottata / Buttato vicino / A un compagno / Massacrato / Con la bocca / Digrignata / Volta al plenilunio / Con la congestione / Delle sue mani / Penetrata / Nel mio silenzio / Ho scritto / Lettere piene d’amore / Non sono mai stato / Tanto / Attaccato alla vita». Questa è Veglia, poesia di Giuseppe Ungaretti scritta su Cima Quattro il 23 dicembre 1915, durante la prima guerra mondiale. Contiene la parola «compagno». Attendiamo con ansia una mozione di qualche giovane del Pd per prendere le distanze dal poeta. Non siamo impazziti. E Veglia non è un’idea nostra. Ieri abbiamo chiamato Fabrizio Gifuni per commentare il can-can seguito al suo intervento di sabato al Palalottomatica, concluso con le fatidiche parole «Compagni e compagne, è tanto che volevo dirlo…». Gifuni, che è un bravissimo attore (e che per inciso, in carriera, ha benissimo interpretato Alcide De Gasperi in un film per la televisione), non credeva alle sue orecchie e non voleva nemmeno parlarne. Poi ha accettato di far due chiacchiere con l’Unità, giornale letto ancora da molti «compagni». E ha voluto raccontarci una telefonata che aveva chiuso pochi minuti prima di parlare con noi (ieri il suo telefonino era rovente). «Mi hanno chiamato diverse persone non per esprimermi solidarietà, non esageriamo, ma per condividere un po’ di stupore, di costernazione. Fra queste Corrado Stajano, che mi ha ricordato appunto la poesia di Ungaretti Veglia. Se ti va di citarla, sappi che fa piacere anche a me: se avessi tirato fuori Pavese, o Quasimodo, avrei rinfocolato gli animi, qualcuno avrebbe gridato: ecco, i soliti bolscevichi. Ungaretti non era un bolscevico e soprattutto era un poeta ermetico, che misurava le parole e sapeva dar loro il giusto peso. Secondo Stajano Veglia è la più bella poesia che contenga la parola ‘compagno’. Dopo averla riletta, mi sembra di potergli dare ragione». Siamo anche noi doppiamente contenti di citare Ungaretti perché siamo d’accordo con Gifuni quando afferma che la polemica seguita al suo intervento è un clamoroso esempio di informazione deviata. Ci spieghiamo – anzi, facciamolo spiegare a lui: «Premesso che non faccio parte del Pd e non ho in tasca la tessera di nessun partito, io sono stato chiamato a intervenire, da attore e da cittadino, su un tema preciso: i tagli alla cultura. Ho espresso 5-6 pensieri, forse stupidi, o male articolati, che esprimono il disagio profondo di chi lavora in questo campo, oggi, in Italia. Beh, avessi sentito una parola di commento, anche di dissenso, nel merito. No: all’interno del mio intervento, sono state estrapolate due parole che corrispondevano a una virgola, a un segno d’interpunzione… si analizza una frase aggrappandosi a una virgola e ignorando il soggetto, il predicato verbale, il complemento oggetto…». Allora, Fabrizio, visto che parliamo di cultura, diamo un senso a Ungaretti e ai poeti come lui e ripartiamo dal soggetto. La cultura. Vogliamo ridare centralità ai pensieri e ribadire cosa davvero hai detto, in quell’intervento, prima di rivolgerti ai compagni e alle compagne? «Il grido di dolore per i tagli imposti dal governo alla cultura è usurato. Il problema non va affrontato a compartimenti stagni. Guai se il cinema difendesse il cinema, la lirica la lirica, e così via: sarebbe l’ennesima guerra fra poveri. La battaglia per la cultura dev’essere unitaria. Bisogna rimettere al centro del dibattito alcune parole d’ordine. Non aver paura di dire che la cultura, lo studio, la scuola, la ricerca scientifica sono il tessuto connettivo di una democrazia. Non sono parole vuote. Sono parole con un peso specifico enorme. Pensare che invece siano sinonimo di ‘tempo libero’ è grave. Se passa un simile concetto, i tagli diventano logici: c’è crisi, mancano soldi dovunque, dove si taglia? Nel superfluo! Ma la cultura non è superflua, è anzi alla radice del concetto stesso di democrazia: nell’Atene di Pericle si andava la mattina in senato, il pomeriggio al mercato, la sera a teatro, e queste tre attività avevano tutte la stessa importanza, contribuivano alla crescita della polis. Ora: mi si può dire che sbaglio, si può discutere. Mi si può rispondere: Gifuni ha torto, la cultura fa parte del superfluo, del ‘di più’ rispetto alle necessità della vita. Ma non si può tralasciare totalmente il senso di un discorso e aggrapparsi alla parola ‘compagni’ per innescare una polemica». Polemica che, ovviamente, non ti aspettavi… «Per carità, l’avessi saputo… forse l’avrei detto ugualmente! Perché ho la sensazione di aver sottoposto questi militanti ad una sorta di test involontario. Mi rattrista che la reazione sia arrivata da giovani esponenti del Pd. Mi viene da risponder loro: ma lo sapete, che nel nome della parola ‘compagno’ c’è gente che è andata in galera, che addirittura ha sacrificato la vita? Ma forse sarebbe una reazione, a mia volta, esagerata. Preferisco quindi un’altra risposta: cerchiamo di non essere pavloviani! Mi spiego: la rabbia suscitata dalle mie parole mi sembra una reazione pavloviana che scatta in modo automatico all’ascolto di certe parole. Allora, proviamo ad andare al di là delle parole. Proviamo ad ascoltare le opinioni altrui, a valutarle, e nel caso a contraddirle con argomenti validi. Purtroppo sembra che nessuno, nella politica italiana, sia più abituato ad ascoltare e a ragionare. È più facile buttarla in tragicommedia». O in commedia all’italiana, aggiungiamo noi. E ci viene in mente la Magnani, che in Mamma Roma di Pasolini sgrida il figlio che non le obbedisce dicendogli «ahò, che te metti a fa’ er compagno?». È una citazione meno alta di Ungaretti, ma forse può servire.

Alberto Crespi, L’Unità – 22 giugno 2010