Categorie
teatro

Ragazzi di vita-reading

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

con Fabrizio Gifuni

Roma, Teatro Vascello per “L’autore e il suo doppio” – 7 e 8 marzo 2017 

Lucera, Festival della letteratura mediterranea – 25 settembre 2016

Bruxelles, Istituto Italiano di Cultura – 9 dicembre 2015

Milano, Teatro Franco Parenti – dall’11 al 15 novembre 2015

Molfetta, Piazza delle Erbe – 25 luglio 2015

Milano, Teatro Franco Parenti – 7 giugno 2015

Torino, Salone Internazionale del Libro – 17 maggio 2015

Roma, Teatro Argentina – 2 novembre 2014

"Ragazzi di vita" al Teatro Garibaldi di Lucera - Festival della Letteratura Mediterranea, 25 settembre 2016

"Ragazzi di vita" a Molfetta, Piazza delle Erbe - 25 luglio 2015

"Ragazzi di vita" - presentazione dell'audiolibro e lettura integrale al Salone del Libro di Torino, 17 maggio 2015

Stampa

“Ci piace pensare che il lavoro di artisti come Gifuni che si mettono al servizio di voci artistiche come quella di Pasolini, secondo le proprie corde “giocando con le corde del mondo” di noi spettatori, permetta di comprendere – forse finalmente – Pasolini, al di la della sua morte fisica.(leggi tutto…)

“Dopo gli altri testi letterari affrontati da Gifuni (oltre a Camus, Gadda e ancora Pasolini con le regie di Giuseppe Bertolucci) e il passaggio attraverso la Lehman Trilogy, il suo lavoro di millimetrica sovrapposizione tra registri gli permette di affrontare Ragazzi di vita dalla giusta distanza: intenso, ma asciutto e commovente senza patetismi. Sala Grande al completo e solito trionfo per l’attore, adorato dal pubblico del Parenti specie per questa forma di spettacolo, in cui l’ascolto è supportato solo da un’esile ma eloquentissima ossatura di movimenti. Imperdibile l’audiolibro Emons con la lettura integrale del testo: scortati da Gifuni per oltre nove ore di borgate.
Mattia L. Palma, glistatigenerali.com – 13 giugno 2015  (leggi tutto…)

“Serata eccezionale e unica al Parenti con Fabrizio Gifuni che passa dagli shabbat della famiglia Lehman ai Ragazzi di vita di Pasolini, di cui legge alcune parti, 70 minuti su un totale di audiolibro di oltre 9 ore, facendo del reading un’arte teatrale sottile in cui egli attore gioca a nascondino col personaggio in continua dialettica tra prima e terza persona secondo la lezione di Ronconi. Dopo Gadda, Camus e prima di Bolaño, Gifuni si riconferma un pezzo unico e nel neorealismo da borgata egli sa mettere, invisibili, le virgolette del presente storico. […] Quelli di Gifuni non sono solo dei reading, non sta impalato col microfono in mano davanti a un leggìo con la lampadina accesa, bensì si muove, accende di vita propria le pagine che legge, fa del neo realismo col linguaggio di vita dello scrittore friulano. […] Riesce nello stesso tempo a far vivere e vedere le avventure di questi ragazzi di vita (i vecchi racconti romani di Moravia…) ed anche a storicizzare l’opera (che non ha mai preso, se non sotto mentite spoglie, la strada del cinema) inserendo con la sua arte dialettica delle invisibili “virgolette”.”
Maurizio Porro, cultweek.com – 12 giugno 2015  (leggi tutto…)

“Un capolavoro. Non può essere definita altrimenti la lettura teatrale di Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pier Paolo Pasolini (di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario del decesso), realizzata da Fabrizio Gifuni e portata in scena al teatro Franco Parenti di Milano. Come già fatto in maniera altrettanto eccellente con Lo Straniero di Camus e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, l’attore romano è riuscito nell’intento di trasferire sul palco […] uno dei romanzi più apprezzati del Novecento. La resa è stata superba. Con una spiccata capacità descrittiva e una costante esaltazione del romanesco, l’attore è riuscito di fatto a ricostruire la scena di fronte agli occhi degli spettatori.
Fabio Di Todaro, Persinsala.it – 11 giugno 2015  (leggi tutto…)

“È ben più di una “lettura” quella che Gifuni compie del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Ho scritto “lettura” e così, del resto, dice il programma ma per spiegare il lavoro di Fabrizio dovrei dire ricreato […] Questo formidabile attore infatti, ci conduce dentro la fucina artistica di Pasolini, ce ne rivela il pensiero, l’amore sincero per le sue creature [..] Lo fa dando a ogni personaggio di cui racconta una voce, un gesto, un atteggiamento, una sottolineatura, una postura che aiutano gli spettatori a riconoscerli in quel fluente romanesco che lo scrittore friulano aveva scelto. Un lavoro mostruoso, continuamente dentro e fuori i personaggi, dentro e fuori la pagina scritta e dunque dentro e fuori lo sguardo dell’autore che tanto amorevolmente li aveva ritratti […] In scena, con tutta la sua lucidità, la sua presenza d’attore, la sua bravura, la sua passione. Quelli che (come me) si sentono orfani di Pasolini l’altra sera al Franco Parenti avrebbero voluto abbracciarlo.”
Maria Grazia Gregori, delteatro.it – 10 giugno 2015  (leggi tutto…)

“Fabrizio Gifuni sembra volare, mai un momento di incertezza, una ripresa, un affanno, un respiro di troppo, un affaticamento nella voce, un sopra tono o un sotto tono. La sua voce è corpo, si visualizza e lo attraversa tutto con una vibrazione che in alcuni momenti è appena percepibile, in altri è un gesto evidente, uno sguardo, una smorfia o uno scatto. Ogni parola trova una visualizzazione, perfino una pausa, un sospiro, ma non è didascalica: è semplicemente un tutt’uno che non lascia mai scollare il testo dal gesto, la voce dalla mossa. C’è un’abilità di immedesimazione forte con il dialetto romanesco […] Non solo. Gifuni alterna l’italiano per la narrazione, all’inflessione dialettale per il discorso diretto e in tal modo ci restituisce i due volti di Pasolini: l’intellettuale raffinato di pagine ed espressioni poetiche, e l’uomo di strada che si mischia, si confonde e si perde nella seduzione popolare e scabrosa.
Un grande lavoro che a mio sommesso avviso può diventare un laboratorio per un teatro che esiste sempre meno. Una grande prova che racconta come stare su un palcoscenico sia studio, cultura, finezza interpretativa e profondo e faticoso lavoro artigianale: quello sul corpo. Troppo spesso il teatro contemporaneo se punta sul corpo perde la voce o rende la voce grido senza più parola. Gifuni riesce ad essere un assolo e un’orchestra insieme. Un omaggio e un inno alla lingua, alla sua capacità di salire vette poetiche, discendere inferni volgari, piegarsi all’ammiccamento del dialetto e alla deriva di sentimenti estremi, brutale e sublime ad un tempo. Gifuni è morbido, fluido, versatile sfiorando cime e abissi senza rischiare di superarli. Non stona mai. In una parola sublime.”
Ilaria Guidantoni, saltinaria.it – 2 novembre 2014  (leggi tutto…)

Categorie
teatro

Remember me

foto di Nick Bennet

Remember me. Omaggio ad Amleto - 2019

Con Fabrizio Gifuni

Suono G.U.P. Alcaro

Londra, Italian Theatre Festival, Coronet Theatre – Notting Hill – 7 giugno 2019

Torino, 29° Salone Internazionale del Libro di Torino, Lingotto Auditorium Giovanni Agnelli – 14 maggio 2016 (primo studio)

“Il Tempo è un bambino che gioca, spostando i pezzi su una scacchiera: il regno di un fanciullo”, dice Eraclito.
Fabrizio Gifuni rende un suo personale omaggio al Principe di Danimarca: spettri, nevrosi e melanconie si combattono col gioco.
La tragedia rivive nella mente di Amleto.
Come in nessun’ altra delle sue opere, Shakespeare è pronto a dichiarare, con Amleto, tutto il suo amore per un’idea di teatro.
“The play is the thing/ wherein I’ll catch the conscience of the king”.
“Il Gioco è la cosa/ con cui prenderò la coscienza del Re”, dice il Principe.
Anche il Potere si smaschera giocando.

L’Amleto di Shakespeare rappresenta per Fabrizio Gifuni un’officina di lavoro sempre aperta: a partire dal laboratorio triennale tenuto all’inizio degli anni ’90 da Orazio Costa, grande maestro del teatro italiano («Costa ci diceva: ognuno di voi si porterà per tutta la vita un ‘fondo di Amleto’ e si imbatterà di continuo in personaggi attraversati da questa corrente»), passando per il suo debutto teatrale nell’Elettra di Euripide con la regia di Massimo Castri nel ruolo di Oreste – uno dei paradigmi del principe danese – fino alle personali interpolazioni shakespeariane nel pluripremiato spettacolo L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro e al Concerto per Amleto, con orchestra sinfonica e musiche di Shostakovich, in scena negli ultimi anni al Piccolo di Milano e al Teatro San Carlo di Napoli.

Foto per un Amleto al Barbican Theatre
Categorie
tv

Concerto per Amleto-Gazzetta

Morte Borromini

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

Stampa

Marrone e Gifuni gran coppia per Amleto

I testi di Shakespeare e le suite di Šostakovič

Con Rino Marrone non si va mai incontro all’ovvio; anche quando non dirige il suo fido e sperimentato “Collegium”, Marrone compila sempre programmi di stimolante interesse e così è stato anche quando è tornato sul podio dell’orchestra sinfonica della provincia, esibitasi, per fortuna degli ascoltatori (una volta tanto più numerosi del solito) allo Showville.
Il tema della serata era “Concerto per Amleto” e univa in una suite abilmente articolata, le musiche che il grande Šostakovič scrisse nel 1932 per arricchire per una produzione teatrale del dramma scespiriano (messo in scena da Nicolai Akimov) e nel 1964 come colonna sonora della versione cinematografica del dramma, con la regia di Kozintsev. Venticinque brani in tutto, sicuramente in “prima” a Bari, ma forse anche in Italia.
Nell’arco della sua lunga, e tormentata, carriera, il musicista russo (1906-1975), ripetutamente passò “dalla polvere agli altari”, ma pur variando ed anche sensibilmente la sua cifra stilistica, mantenne sempre una fondamentale coerenza, assumendo – oggi possiamo ben dirlo – una posizione di prestigio che ne fa uno dei maggiori compositori del ‘900. L’impatto, diverso e sensibilmente, con la vicenda del principe di Danimarca, stimolò in maniera incisivamente colorita la sua vena creativa, ed i brani brevi o meno, originali o abilmente inseriti (si pensi all’impiego del classico tema del Dies Irae) danno vita ad una suite colorita, avvincente, ricca di spunti estremamente varii, nei quali l’ironia a tratti amara, si intreccia con tensioni agghiaccianti o momenti – rari, comunque – di più distesa e cantante melodiosità. Musica di per sé quindi meritevole di ascolto.

Ma l’occasione è stata propizia per creare una serata ricca di ulteriore avvincente presa e questo grazie alla genialità creativa ed al trascinante talento teatrale di Fabrizio Gifuni. Il giovane e valente attore – meglio sarebbe definirlo “uomo di teatro” a tutto campo – ha infatti assortito un accorto e stimolante collage di brani tratti dal lavoro di Shakespeare, alternandoli come posizionamento ai momenti musicali, ma li ha detti con una ricchezza incredibile di modulazioni recitative, che faceva da pendant fascinoso alla musica. La voce di Gifuni si è trasformata in uno strumento trascinante, dai toni e dai timbri estremamente varii, camaleontica potremmo dire, ideale complemento al tipo di musica. Un’alternanza serrata e travolgente che ha affascinato il pubblico. Va aggiunto che per l’orchestra barese la prova era quanto mai impegnativa, ma gli strumentisti hanno saputo, una volta di più, realizzare impeccabilmente le intenzioni di Marrone.
Un concerto – meglio sarebbe dire uno spettacolo – di straordinaria efficacia e realizzato benissimo e che sarebbe un vero peccato se non venisse portato anche al di fuori di Bari. Pubblico entusiasta e che alla fine ha richiamato ripetutamente alla ribalta Marrone e Gifuni. Prima del concerto è stato osservato un minuto di raccoglimento per i morti di Lampedusa.

Nicola Sbisà – La Gazzetta del Mezzogiorno, 6 ottobre 2013

Categorie
teatro

Concerto per Amleto

ConcAmleto_g

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

da “La tragedia di Amleto principe di Danimarca”
di William Shakespeare
drammaturgia Fabrizio Gifuni
consulenza musicale Rino Marrone
voce Fabrizio Gifuni
direttore Rino Marrone
musiche Dmitrij Sostakovic da op. 32, musiche di scena per Amleto di Nikolai Akimov e op. 116 musiche per il film Amleto di Grigori Kozintsev

Concerto per Amleto, con l'Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi - 2018

Milano, Piccolo Teatro Strehler – dal 22 al 25 novembre 2018

Concerto per Amleto, con l'Orchestra Sinfonica Abruzzese - 2017

Napoli, Teatro San Carlo – 26 giugno 2017

Concerto per Amleto, con l'Orchestra Sinfonica Abruzzese - 2016

Produzione Le Vie dei Festival e Istituzione Sinfonica Abruzzese
Roma, Auditorium Parco della Musica – 8 ottobre 2016
Pescara, Teatro Massimo – 11 ottobre 2016

Concerto per Amleto, con l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari - 2013

Bari, Teatro Showville – 3 ottobre 2013

Categorie
teatro

Morte di Borromini

Morte Borromini

"Morte di Borromini" di Salvatore Sciarrino - 2017

26° Festival di Milano Musica

In coproduzione con Teatro alla Scala

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI

Direttore, Cornelius Meister

Lettore, Fabrizio Gifuni

Ludwig van Beethoven, Egmont Ouverture op.84
Salvatore Sciarrino, Morte di Borromini per orchestra con lettore
Robert Schumann, Sinfonia n.4 in re minore op. 120

Categorie
teatro

il dio di roserio-iuppa

ildiodiroserio_g

"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

Stampa

TESTORI/Gifuni, lasciarsi “invadere” dal Dio di Roserio

«Deve arrivare a Testori». Questo pensai, oltre a ringraziare Dio per il dono degli attori, la prima volta che ebbi ad assistere a una performance teatrale di Fabrizio Gifuni, ne Lo straniero di Camus, testo noto per quello che è stato definito da Roland Barthes il “grado zero della scrittura”. E io lo aspettavo alla prova della scrittura testoriana, tutt’altro che grado zero!, tutta sempre sopra tono. Lo aspettavo, perché in quell’interpretazione mirabile di fatale equilibrio, ogni tanto qualcosa in lui sussultava. In quegli scatti, tutti nervi, tendine, sangue, vibrava per me la grande promessa di un incontro che prima o poi avrebbe dovuto avere luogo.
Il luogo, appunto, per ogni testoriano, ha del mitico: il teatro Franco Parenti, nato come Teatro Pier Lombardo nel 1972 da quel felicissimo incontro tra Giovanni Testori, Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, ora straordinaria direttrice di questo punto aggregante della vita milanese. L’occasione, la lettura del primo capitolo de Il Dio di Roserio, a coronamento della seconda edizione del Premio Testori. Dopo un pomeriggio permeato in ogni suo poro dallo spirito del grande scrittore lombardo — dalla scelta di impostare le presentazioni dei premiati in workshop paralleli a quella di premiare un saggio di storia dell’arte nella categoria letteraria —, alle 21 c’è il gran finale. Attorno una sala gremita. Scena semivuota: una sedia, uno sgabello, un leggio. Molto gifuniano, penso: perché tutto è nel corpo. E molto testoriano: «La scena è tutta e solo in loro, le parole; loro, s’incaricheranno di farla essere e, appunto, costituirsi: edificio ben più solido e vero di tutti i possibili trucchi e trucchetti», aveva detto Franco Parenti dalle assi di quello stesso teatro nei panni del Maestro dei Promessi sposi alla prova. Ed ecco Fabrizio, accolto dall’affetto di un teatro in cui lui è di casa, ma anche dalla trepidazione tesa di un pubblico che non ha dimenticato Testori.
Gifuni introduce il suo “esperimento”, e forse a più di qualcuno fiorisce un sorriso benevolo e indulgente al sentirgli pronunciare, così spontaneamente e così poco lombardamente, Testòri, invece che Testóri: non a me, che, da buona romana, mi sono sentita finalmente legittimata.
Poi è partito. Con un singulto, il verso demente e malinconico di chi ormai è segnato per la vita. È partito così. E poi la corsa del Consonni. L’altra sera, l’abbiamo fatta tutti. Tutti abbiamo letto «Culo chi legge» sul muro sbrecciato; tutti abbiamo masticato il mezzo limone; tutti abbiamo guardato il Dante Pessina, il Dio di Roserio, voltandoci indietro dalla sella della bici. Tutti abbiamo visto il lago salire, dolcissimo e manzoniano, in un improvviso squarcio di armonia. Tutti abbiamo ripreso la corsa a perdifiato dei tendini e dei muscoli della scrittura.

Daniela Iuppa – il sussidiario.net, 15 Dicembre 2015

Categorie
teatro

il dio di roserio-spaventa

ildiodiroserio_g

"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

Stampa

Pedalata infinita

La parola letteraria si fa corpo e voce nella ricerca di Fabrizio Gifuni che da anni porta avanti un personalissimo percorso tra testi ardui e non teatrali di grandi scrittori, da Pasolini a Gadda, a Camus. Nuovo approdo Giovanni Testori e il suo Dio di Roserio, primo romanzo nel 1954, dell’autore lombardo dove il mondo duro del ciclismo postbellico è metafora della lotta spietata per la sopravvivenza. La storia del campioncino di periferia Dante Pessina che per vincere una gara di provincia sacrifica il gregario Sergio Consonni spingendolo a terra e rendendolo idiota, diventa nel primo capitolo scelto da Gifuni una soggettiva della vittima, una pedalata infinita tra curve, montagne e lago descritta con la precisione di dettagli di un incubo. Ritto su uno sgabello, braccia tese e sguardo in avanti, il leggio è quasi superfluo in una performance vertiginosa che ben poco ha del reading, dove l’attore varia tra le modulazioni naïf, quasi infantili, d’accento popolano e lombardo del racconto del “servo” e sterzate improvvise estranianti nella voce e nei gesti, quando alla volata si alternano lampi della scena tragica della caduta, delitto senza castigo che emerge in tutta l’atrocità dell’interpretazione complessa eppure chiarissima, fisica e insieme sottilmente mediata, in una prova d’attore memorabile.

Simona Spaventa – la Repubblica, 7 maggio 2017

Categorie
teatro

il dio di roserio-poli

ildiodiroserio_g

"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

Stampa

La narrazione feroce del ciclista Gifuni

Fabrizio Gifuni è un interprete di raffinata intelligenza e profondità recitativa, capace di condurre lo spettatore lungo i chiaroscuri di un testo, spesso letterario, facendolo vivere nella sua interezza e svelandone l’anima nascosta.
Così è in Il dio di Roserio (visto al Parenti, Milano), prima parte dello strepitoso racconto del 1954 di Testori di un’Italia che vuole perdersi nell’illusione di un nascente boom economico. La Brianza è il mirabolante sfondo della drammatica corsa ciclistica della promessa Dante Pessina, il dio di Roserio, in cui fece cadere, menomandolo nell’intelletto, il gregario Consonni che osò sorpassarlo. L’innocenza immolata sull’ara del successo. Consonni, generoso e semplice, ricostruisce a ritroso quel giorno crudele in un vivido monologo interiore, dando sfogo alla muta di pensieri che gli mordono la mente. Gifuni si cala nei ritmi serrati di una narrazione feroce, solitaria e composita, di grande fisicità; viviamo con lui l’adrenalina, il sudore, l’affanno delle salite, la spavalderia delle discese e non solo la felicità sognata e lo sgomento.
Un’interpretazione stupefacente che attanaglia, nella quale la realtà ha l’intensità di un incubo e i sentimenti il mistero di un’allucinazione.

Magda Poli – Corriere della Sera, 11 maggio 2017

Categorie
teatro

il dio di roserio-gregori

ildiodiroserio_g

"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

Stampa

Il dio di Roserio

Nessun attore oggi potrebbe offrirci le stesse emozioni che ci dona Fabrizio Gifuni, magnifico, inarrivabile interprete del racconto di Giovanni Testori. Protagonista di un teatro di narrazione che travalica i generi e i limiti per essere “semplicemente” teatro

Sono ancora emozionata e piena di gratitudine e di meraviglia per la serata appena terminata al Teatro Franco Parenti di Milano. Una serata così perfetta che mi ha fatto sentire l’urgenza di scrivere per condividere con voi, a caldo, le mie emozioni. Una serata con una valenza teatrale fortissima che riportava a casa sua, al Teatro Franco Parenti che con il nome di Salone Pier Lombardo aveva contribuito a fondare insieme a Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah, l’immenso Giovanni “Gianni” Testori. Serata perfetta anche perché a dare voce al mondo violento, squarciato da lampi di poesia di Il dio di Roserio c’era uno straordinario Fabrizio Gifuni che da solo in scena ha saputo restituirci il mondo del primo Testori, lo scrittore, pittore, critico, affascinato dal mondo degli umili, dei degradati, dello sport spesso raccontati attraverso una lingua mescolata di “milanesismi”, di “lombardismi” che grazie all’interprete assumono una valenza poeticamente epica, formidabile.

Scritto e pubblicato nel 1954 come racconto lungo per i tipi di Einaudi nella collana diretta da Vittorini che però non lo amava, dato da leggere a Calvino che pur riconoscendone il valore non lo condivideva, Il dio di Roserio inteso come personaggio sarà presente nel volume Il ponte della Ghisolfa, che però non conterrà questo primo pezzo. Pensando che oggi per noi Roserio è il capolinea del tram 19 e che tutto quello che qui si racconta avrebbe potuto succedere davvero, è un po’ come ritrovare il bandolo di una matassa che si era persa nei nostri ricordi.

Quello che Fabrizio Gifuni riesce a creare con l’aiuto di una bicicletta storta, di una ruota ammaccata su di un mucchietto di terra, di un alto sgabello con microfono con il solo aiuto della voce usata come un vero e proprio strumento, di una gestualità spezzata, di movimenti del corpo teso come un arco, gettandosi nella mischia delle parole, nel trascorrere e trascolorare dei paesaggi lombardi là dove il lago di Como lascia il posto ai boschi, per poi diventare polvere, sassi, rotaie, tetti d case, suoni di campane è poeticamente formidabile. Il mondo degli umili, dei vecchi, di chi ha poco o nulla da cavarci un pasto, ma anche di quelli come i due personaggi di questa storia toccati dalla “grazia” del tutto speciale ma anche del tutto testoriana del fascino della sfida (anche sportiva) della crudeltà, dei delitti efferati, del male, spesso incapaci di reggere quanto fatto, di convivere con il senso di una colpa che li accompagna, trova in questo attore straordinario un’interpretazione che non si dimentica.

Protagonista neanche tanto occulta di Il dio di Roserio è la bicicletta, anzi una corsa per dilettanti “La coppa del lago”, arrivo a Milano, alla quale partecipano due corridori della squadra Vigor, Dante Pessina, considerato dai suoi tifosi un “dio” da cui il titolo del pezzo e il suo gregario Sergio Consonni. Testori descrive le sensazioni e quella vera e propria follia che prende i protagonisti di questo sport epico dove il corridore, ben prima dei molti scandali che ne hanno ormai da anni sporcato l’immagine, è una specie di eroe che combatte contro la fatica, il sudore, la sete, la stanchezza, con la voglia, costi quel che costi, di farcela. E fa tutto questo senza avere mai scritto una cronaca sportiva, al di fuori dunque di qualsiasi stilema eppure poche pagine come queste sono permeate di quello spirito autenticamente popolare che è stato il mondo del ciclismo.

In un’ora o poco più siamo letteralmente sopraffatti da questo racconto in cui quel tanto di fatica e di fatalità dei corridori nell’andare su e giù si contrappone all’apparente serenità di un paesaggio che cambia continuamente sottolineando la solitudine dei due rotta solo da una motocicletta che precede la corsa e dalla presenza urlante del responsabile della Vigor che ha due uomini in fuga di cui uno, il “dio”, sembra non farcela a mantenere la velocità del gregario che lo mette in crisi mentre a sua volta il gregario è come preso da una specie di inarrestabile prova di forza verso il “capo” che lo carica di insulti. Ovvio che la storia abbia un finale tragico. Il Pessina, infatti, butterà giù dalla bicicletta il Consonni che per l’alta velocità farà un volo picchiando la testa contro un sasso che lo tramortirà riducendolo nel corso del tempo a un vegetale.

Gifuni inizia la sua performance dalla fine, dal delirio e poi dagli ultimi lampi di lucidità del Consonni che rivive tutto ciò che l’ha portato a quell’attimo fatale, ricordando continuamente il Pessina che gli dice – non sappiamo se per vigliaccheria o per paura – che quel che è avvenuto è stata colpa di un sasso. Tocca a noi, allora, precipitare insieme a lui in questo pozzo di follia e di passione, di orgoglio e di vergogna. Credo che oggi nessun attore potrebbe offrirci le stesse emozioni che ci dona questo magnifico, inarrivabile interprete di un teatro di narrazione che travalica i generi e i limiti per essere “semplicemente” teatro. Gli spettatori che affollano il Franco Parenti lo sanno e seguono con un silenzio tesissimo, profondo la sua straordinaria prova. E l’applauso alla fine è lunghissimo e liberatorio.

Maria Grazia Gregori, delteatro.it – 5 maggio 2017

Categorie
teatro

il dio di roserio-palazzi

ildiodiroserio_g

"Il dio di Roserio"

studio sul primo capitolo - 2015

Stampa

Gifuni ciclista

Nel «Dio di Roserio» di Testori l’attore conferma un talento capace di offrire trascinanti prove di bravura

E’ ormai evidente che Fabrizio Gifuni è un talento anomalo, capace di offrire trascinanti prove di bravura soprattutto quando si impegna in certe imprese solitarie, nelle quali trae linfa dal confronto con ardui testi di matrice letteraria. Dopo aver affrontato, con altissimi risultati, la scrittura di Gadda e Pasolini, l’attore ha cominciato ora a misurarsi con un altro grande del Novecento, Giovanni Testori, ricavandone una performance verbale forse persino più impressionante.
E’ vero che il suo percorso drammaturgico nel primo romanzo dell’autore di Novate, Il dio di Roserio, è stato proposto al Teatro Franco Parenti di Milano in una situazione particolare, al termine della consegna dei premi Testori, e in forma di “studio”, dunque in una versione ancora in fieri: ma proprio questa sorte di illuminante provvisorietà ha consentito di penetrare ancor più a fondo nei recessi del suo “laboratorio creativo”, mostrandone alcuni tracciati con inusitata evidenza, e inducendo qualche ulteriore riflessione sul fondamentale tema della lingua testoriana.
Il dio di Roserio, pubblicato nel ’54, più di uno spaccato neo-realistico sulla Milano del dopoguerra è una sorta di tragedia moderna ambientata nel mondo delle corse ciclistiche di periferia, arena infernale dove si emerge o si soccombe, dove si versa sudore e sangue per un trafiletto sulla “Gazzetta”. Un campioncino locale, Dante Pessina, in una giornata di scarsa vena teme di essere preceduto al traguardo dal suo gregario, il Consonni, quindi ne causa volontariamente la caduta, facendone un povero mentecatto per il resto della vita.
Gifuni, che per ora ha lavorato solo sul primo capitolo, quello che espone il punto divista del Consonni, parte proprio da questa figura di piccolo eroe caduto, dal suo sguardo fisso nel vuoto, dal suo parlare disarticolato, un po’ meccanico, un po’ ottuso. Ma lui non sembra utilizzare questo disfacimento espressivo per enfatizzare il pathos del personaggio, la sua condizione di inerme vittima del fato, come aveva fatto una dozzina d’anni fa Maurizio Donadoni in una sua forte interpretazione dello stesso testo, diretta da Valerio Binasco.
Con ingegnosa intuizione l’attore si basa su questo eloquio quasi infantile per fornire -almeno per ora, chissà poi come proseguirà la sua ricerca – una insistita, minuziosa ricostruzione visiva delle varie fasi della corsa che precedono l’incidente, colte con una sensibilità che si potrebbe definire impressionistica: in una sorta di dilatazione percettiva e temporale, i dettagli della strada e del paesaggio diventano così l’espediente per rinviare il momento fatale della caduta, dell’incontro col destino.
La trovata decisiva, che è già tutta presente nello stile di Testori, che Gifuni esalta con la sua mostruosa tecnica recitativa, è proprio in questa scena di scandire la sequenza degli avvenimenti attraverso le sensazioni soggettive del ciclista, un cane da schivare, «la parte di afa che pareva che bollisse». Fermo su una sedia, l’attore evoca tutto ciò che solo in virtù della parola, ma gli basta un accenno di movimento – come il gesto di alzarsi sulla sella ad aggiustarsi «le mutandine» – per conferire un’attesa fisicità a quella semplice lettura. Ciò che più colpisce è lo straordinario effetto plastico per cui sembra che lo sguardo del corridore sia fermo, e si muova il mondo attorno a lui: ecco allora che «si è alzato un palo del telefono», «è venuta giù una parete di roccia» e «in mezzo al verde, si vedeva saltar sul letto o sul muro di qualche casa». Delle mucche si scorgono le gambe, delle auto «l’acciaio del paraurti, il radiatore, il parafango. Dopo, niente. Dopo ancora, il radiatore, il paraurti, il parafango della macchina che veniva dietro. Dopo, niente, un’altra volta» e questo accavallarsi di immagini suggerisce una sorta di dinamismo futurista, una simultaneità di sensazioni – anche se l’accostamento è forse poco testoriano – che fa pensare a Boccioni.
La vaga cadenza lombarda, il ritmo allucinato che Gifuni conferisce al racconto, la lieve distorsione che imprime a ogni singola parola confermano una volta di più quanto la centralità della questione della lingua: del dio di Roserio non ci sono le convulse invenzioni lessicali che accenderanno l’Amleto e tutti i testi successivi. Eppure si avverte che quello usato dai personaggi non è l’eloquio di ogni giorno, è già una lingua plasmata ad hoc, dotata di un proprio autonomo impatto emotivo. Ma si capisce bene, in questo caso, che la potenza linguistica di Testori non è tutta e non è soltanto nella sua pagina scritta, è anche in gran parte nella fantasia dell’interprete che la coglie e la valorizza.

Renato Palazzi – Il Sole 24 ore, 3 gennaio 2016