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Concerto per il Millenario di Piero della Francesca

Piero della Francesca

"Concerto per il millenario della città di Piero della Francesca" - 2012

Trascrizioni di Salvatore Sciarrino da Domenico Scarlatti eseguite dal Quartetto Prometeo

Fabrizio Gifuni legge “Il racconto di quando la Resurrezione di Piero della Francesca salvò Sansepolcro da sicuro bombardamento

Ombre nel mattino di Piero” di Salvatore Sciarrino eseguita dal Quartetto Prometeo

Sansepolcro, Sala della Resurrezione del Museo Civico – 29 settembre 2012

"Il racconto di quando la Resurrezione di Piero della Francesca salvò Sansepolcro da sicuro bombardamento" (Dal diario di Antony Clarke)

Accadde nel 1944. Ero allora comandante di squadra nella batteria ‘A’ Chestnut Troop, Primo Reggimento, R.H.A. Il reggimento fungeva da artiglieria di sostegno all’indipendente Nona brigata corazzata e i Chestnut erano d’appoggio al Terzo Ussari.
Ricordo che per un certo periodo restammo di stanza intorno a Città di Castello e che poi muovemmo verso nord. Fu durante questo spostamento che mi comandarono di trovare un punto d’osservazione che dominasse Sansepolcro.
Da principio avanzai col mio carro sui declivi orientali delle colline che davano ad est, poi proseguii a piedi sui crinali, con un segnalatore ed una radio portatile, fino a raggiungere i più avanzati pendii. Ricavammo uno spiazzo all’interno di un gran cespuglio, ci sistemammo nella maniera più comoda possibile – stavamo infatti per trascorrervi l’intera giornata – e ci mettemmo ad osservare e ad aspettare. Non eravamo in comunicazione diretta con le nostre batterie (il che può aver avuto una qualche influenza su ciò che accadde in seguito), perché la nostra radio non ne aveva la portata. Eravamo, però, in contatto con il carro, la cui radio era sintonizzata con quella della batteria.
Detti l’ordine che un cannone di una data fila e portata sparasse un colpo solo da qualche parte nel mezzo della valle; in questa maniera, se avessi dovuto cannoneggiare all’improvviso, avrei saputo quali ordini impartire, senza arrabattarmi qua e là con carta geografica e goniometro. I nostri cannoni si trovavano due o tre miglia a sud. Restammo quindi in attesa.
All’alba sorse il sole nel cielo terso: davanti a noi si vedeva chiaramente Sansepolcro. C’era il sospetto che il nemico fosse ancora in città – mi dissero via radio – e, di conseguenza, dovevo cannoneggiarla prima che le nostre truppe si avvicinassero. Così regolai il tiro sulla città e feci partire due o tre scariche di batteria. Marcus Klinton, mio comandante di batteria, mi informò via radio che c’erano abbastanza munizioni e, perciò, potevo procedere ed anche usarne a mio piacimento. Il mattino seguente sarebbe stato lanciato l’attacco e nostro compito era liberare prima la città. Così cominciai a cannoneggiare Sansepolcro. Intanto con il binocolo scrutavo di lontano la città metro per metro, senza riuscire a scorgere da nessuna parte il minimo segno della presenza del nemico, anche se ciò naturalmente non voleva dire che avesse abbandonato la città.
In quel preciso istante, cominciò a tormentarmi un dubbio. Ma io il nome di Sansepolcro lo conoscevo già! E perché conoscevo quel nome? L’avevo sentito da qualche parte? Se me lo ricordavo, doveva essere stato in relazione a qualcosa di importante? Ma non riuscivo a ricordare bene né dove né quando.
Nel frattempo io e il segnalatore ricevemmo la visita di un ragazzo, coperto di stracci, con un cane. Gli dicemmo:”Tedeschi…Sansepolcro”, indicando la città. Lui scosse il capo, fece una smorfia e indicò le colline. I tedeschi per lui avevano abbandonato Sansepolcro; era, dunque, una ulteriore conferma alla mia ipotesi.
Fu allora che mi tornò in mente la ragione per cui conoscevo già il nome di Sansepolcro: “La più bella pittura del mondo!”. Dovevo avere diciotto anni circa quando lessi un saggio di Aldous Huxley . Ricordavo con chiarezza la descrizione di un suo faticoso viaggio da Arezzo a Sansepolcro e , tuttavia, quanto meritasse farlo quel viaggio, dato che a Sansepolcro c’era la Resurrezione di Piero della Francesca, “la più bella pittura del mondo”.
Feci il calcolo dei bossoli sparati e fui sicuro che, se non avessi ancora distrutto ‘ la più bella pittura del mondo’, avrei potuto, proseguendo il bombardamento, danneggiarla gravemente. Così feci cessare il fuoco. L’ufficiale superiore che comandava l’operazione mi chiamò via radio per sapere perché avevo interrotto il bombardamento; lo rassicurai, dicendogli che non vedevo postazioni nemiche da bombardare. Non avendo certezze sulla presenza del nemico a Sansepolcro, mi resi conto che avevo preso una decisione molto coraggiosa ma rischiosa, che avrebbe potuto costarmi la corte marziale, qualora la fanteria alleata, entrando a Sansepolcro, fosse stata sorpresa ed attaccata nella sua avanzata. Ci fu un’interruzione della comunicazione radio che mi salvò dall’obbligo di fornire una ulteriore spiegazione. Io e il segnalatore ci sedemmo sotto le fronde che ci nascondevano, scrutammo ancora con il binocolo la città, senza scorgere ombra del nemico. Quando fece buio, ci ritirammo e tornammo alla postazione della batteria.
Il giorno dopo facemmo il nostro ingresso a Sansepolcro, senza perdite per noi e senza incontrare resistenza. Domandai subito dove si trovava la Resurrezione. Ci andai e vidi che il Palazzo comunale era intatto. Entrai.. ed eccola sana e salva, e magnifica la Resurrezione di Piero,’ la più bella pittura del mondo’, così come l’aveva descritta Huxley:
Dipinta ad affresco, i suoi colori chiari eppure sottilmente sobri risaltano sulla parete con intatta freschezza. Non dobbiamo ricorrere all’immaginazione per indovinare la bellezza; è là, dinanzi a noi in tutto il suo splendore. Piero ha fatto della semplice composizione triangolare il simbolo tematico. La base del triangolo è costituita dal sepolcro; mentre i soldati che dormono attorno ad esso hanno la funzione di indicare, con le loro posture, il convergere verso l’alto dei lati, i quali si incontrano al vertice, sul volto del Cristo risorto. Il quale si sta ergendo con un vessillo nella mano destra e con il piede sinistro già alzato e appoggiato sull’orlo del sepolcro, pronto ad incamminarsi per il mondo. Nessun altra struttura geometrica avrebbe potuto essere più semplice ed adatta. Ma l’essere che si leva dalla tomba dinanzi ai nostri occhi è molto più simile ad un eroe di Plutarco che al Cristo della religione cristiana. Il suo corpo è sviluppato alla perfezione come quello di un atleta greco, ed emana una tale forza che la ferita sulla massa muscolare del fianco appare quasi irrilevante. Il volto è deciso, pensieroso; gli occhi freddi. L’intera figura è espressione del potere fisico ed intellettuale. E’l’ideale classico che risorge dalla tomba nella quale era giaciuto per molte centinaia di anni, incredibilmente più maestoso e bello della stessa realtà classica”. Queste le parole di Huxley.
La gente intanto aveva cominciato a ripararla con sacchetti di sabbia, ma erano arrivati solo all’altezza della vita del Cristo risorto. Alzai gli occhi al soffitto e realizzai che sarebbe stata sufficiente una solo granata per distruggere quel capolavoro. Talvolta mi chiedo come mi sarei sentito, ora, se mi fosse capitato di distruggere la Resurrezione. Per un momento ho pensato di scrivere ad Aldous Huxley. Ciò che era accaduto avrebbe potuto costituire un bell’esempio del potere della letteratura, e di come la penna sia più potente della spada!
Sono tornato a Sansepolcro molti anni dopo, il sindaco Ottorino Goretti (sindaco dal 1964 al 1976) mi consegnò le chiavi della città, onorandomi della cittadinanza.
Il sindaco Goretti in quell’occasione disse:
Ricorre quest’anno il ventennale della Liberazione; e mentre torna alla mente il ricordo di eventi tristi e tragici, con gioia vogliamo ricordare e celebrare un avvenimento ispirato da calorosa e profonda umanità, e dal rispetto ed amore per la civiltà e la storia. Quanto accadde in quel lontano 1944, ad opera del capitano Clarke che salvò la Resurrezione di Piero della Francesca e Sansepolcro dal bombardamento, sta a ricordarci come l’attenzione alla cultura e all’arte abbia sconfitto la brutalità della guerra. Possiamo, perciò, sperare che vedremo un giorno la fine delle guerre, che le nostre comunità potranno vivere in armonia , e che l’arte e la cultura porteranno, finalmente, la pace fra i popoli”.

Il capitano inglese, Anthony Clarke, insignito della Croce militare per ‘valore e coraggio in combattimento’ è morto nel 1981, a Cape Town, in Sudafrica, dove si era ritirato aprendo una importante libreria. A Sansepolcro, una via porta il suo nome, a ricordo di quando la Resurrezione salvò Sansepolcro dal bombardamento.

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Lo straniero

Lo straniero

"Lo straniero, un'intervista impossibile" - 2013

da L’Etranger di Albert Camus
con Fabrizio Gifuni
Suoni G.U.P. Alcaro
Costumi Roberta Vacchetti
Riduzione letteraria Luca Ragagnin
Regia Roberta Lena
Produzione Il Circolo dei lettori

1^ rappresentazione Torino Teatro Carignano, Festival Torino Spiritualità – 26 settembre 2013

Radio 3, Sala A di Via Asiago – 6 novembre 2013

Milano, Teatro Franco Parenti – 2 e 3 luglio 2014

Roma, Teatro Vascello – Le Vie dei Festival – 17 ottobre 2014

Parma, Teatro al Parco – 31 ottobre 2014

Santa Croce sull’Arno (Pisa), Teatro Verdi – 10 aprile 2015

Pistoia, Teatro Manzoni – dall’1 al 3 aprile 2016

Pavia, Teatro Fraschini – 5 aprile 2016

Pordenone, Teatro Comunale Giuseppe Verdi – 7 aprile 2016

Cesena, Teatro Bonci – 12 e 13 aprile 2016

Modena, Teatro Storchi – dal 14 al 17 aprile 2016

Firenze, Teatro Niccolini – dal 19 al 24 aprile 2016

Milano, Teatro Franco Parenti – dal 24 al 27 maggio 2016

Verona, Teatro Romano – 8 giugno 2016

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Un certo Julio

Un certo Julio

Un certo Julio. Omaggio a Julio Cortázar e Roberto Bolaño - 2014

di e con Fabrizio Gifuni

Perugia, Teatro Morlacchi – 3 maggio 2019

Torino, Salone Internazionale del libro – 9 maggio 2019

Lucera, Teatro Garibaldi – 8 febbraio 2019

Roma, Teatro Vascello (con Javier Girotto ai sassofoni) – 11 e 12 marzo 2017

Milano, Teatro Franco Parenti – 23 e 24 giugno 2016

Santarcangelo Festival, Santarcangelo di Romagna – 12 luglio 2014

Roma, Casa Argentina (con Javier Girotto ai sassofoni) – 14 novembre 2014

Festival La grande invasione, Ivrea – 1 giugno 2014

“Gifuni e il suo doppio: un certo Cortázar”
Fabrizio Gifuni con Un certo Julio conclude la quadrilogia “L’autore e il suo doppio” al Teatro Vascello di Roma.

Guizzo latino della lingua, dell’orlo dei pantaloni, della punta delle scarpe, si siede e si alza sulle gambe per dare traiettorie all’aria con le mani. Userebbe lo spazio del palcoscenico se non ne avesse costruito un altro, nella stessa metratura, con un pensiero che neanche è il suo ma se lo fosse avrebbe comunque la sua voce. Si chiama Fabrizio Gifuni, si chiama Julio Cortazár, Roberto Bolaño, Lucas o addirittura col nome del fratellastro Jorge Luis Borges e non è un attore. Fabrizio Gifuni (o i suoi eteronimi per lui e per se stessi) non “agisce” come vuole la definizione che gli riempie la professione sulla carta d’identità, è un prestacorpo dotato di idee, quindi è carne e voce di uno scrittore esistito fino a un certo punto anagrafico e addensatosi, poi, sulla carta stampata.

Le parole di Julio Florencio Cortázar Descotte, delle quali si intesse Un certo Julio, ultimo spettacolo della quadrilogia L’autore e il suo doppio, in scena dal 2 al 12 marzo 2017 al Teatro Vascello di Roma, sono difatti ben lontane dall’essere strette nelle righe narrative del romanzo Un certo Lucas che l’argentino scrive per sé, contro di sé e appena fuori da sé (l’attore, che cura l’adattamento, prende un prestito anche dal Cile di Roberto Bolaño); sono lontane perché non sono parole, si traducono fin da subito in immagini, abbozzate come gli stilemi dei coetanei futuristi accanto alla metrica verbale (si legge o si guarda Il palombaro di Corrado Govoni?).

L’eredità che lascia Cortazar è una realtà aumentata, una liberazione di psicosi e frenature borghesi che del borghese fanno la risata amara, specie se la voce della redenzione di costui abita nella persona di Gifuni. E ben lungi dal connotarli negativamente in questo che pare un giudizio sociale, gli spettatori si trovano a ridere sboccati dei propri insuccessi esistenziali, delle manie importune che sorgono nell’inedia di un ospedale o di un amore arenato sulle suggestioni dell’amore. Quanto un’incursione di insania, il fiato di Javier Girotto, sassofonista e argentino anch’esso, scorre a inframezzare le parole del suo doppio parlante sul palco, immediatamente dai polmoni senza sperdere il tempo in gola, l’aria è insufflata negli strumenti, quasi come se qualcuno gli puntasse un coltello ai reni, colpisce gli ostacoli dello strumento che sembra trattenersi per non sputarli e fare dell’aria il silenzio.
Due uomini, Gifuni e Girotto, immagine l’uno dell’altro, uno interprete di idee, l’altro delle idee il suono. Il primo parla una lingua di zucchero, in eremitaggio verso le proprie elucubrazioni, restituisce la tenerezza di tutti i poeti che si sono chinati a scrivere per la pigrizia di non imparare ogni lingua del mondo e col mondo dialogare; il secondo un leitmotiv, un ritmo dato alle arguzie della mente, ovvero la personalità più incombente che si esterna quando la parola tace e il disordine dell’emozione è udibile solo dal profondo. I due si sanno, come se la scrittura fosse concepita per un’unica rappresentazione; e non si sanno, come la sottile discrepanza tra due espressioni.

di Francesca Pierri, TeatroeCritica – 17 marzo 2017

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Lehman Trilogy

“Lehman Trilogy”, foto di Attilio Marasco Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

"Lehman Trilogy" - 2015

di Stefano Massini

regia di Luca Ronconi

Scene: Marco Rossi

Costumi: Gianluca Sbicca

Luci: AJ Weissbard

Suono: Hubert Westkemper

Trucco e acconciature: Aldo Signoretti

Personaggi e interpreti: Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Martin Ilunga Chishimba, Paolo Pierobon, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Laila Fernandez
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Milano, Piccolo Teatro Grassi – dal 29 gennaio al 15 marzo 2015

Milano, Piccolo Teatro Grassi – dal 12 al 31 maggio 2015

Torino, Teatro Carignano – dal 9 al 20 novembre 2016

Roma, Teatro Argentina – dal 25 novembre al 18 dicembre 2016

Milano, Teatro Grassi – dal 3 al 21 gennaio 2017

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Ragazzi di vita-Guidantoni

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Ragazzi di vita

Un omaggio e un inno alla lingua, alla sua capacità di salire vette poetiche, discendere inferni volgari, piegarsi all’ammiccamento del dialetto e alla deriva di sentimenti estremi, brutale e sublime ad un tempo. Nella lettura ad alta voce i due piani, poetico e teatrale, emergono in tutta la loro ricchezza, tracciando l’affresco della vita vissuta di periferie slabbrate. La voce accarezza e rafforza il linguaggio confermando il valore del teatro di parola e, al contempo, diventa parte del corpo, strumento che accompagna le membra, gli occhi, le mani in un gesto continuo che srotola il libro in una pellicola. Un lavoro di grande tecnica dove l’esercizio e la fatica non si vedono più: Gifuni è morbido, fluido, versatile sfiorando cime e abissi senza rischiare di superarli. Non stona mai. In una parola sublime.

Fabrizio Gifuni rende omaggio ancora una volta al grande intellettuale di origini friulane e dà voce al suo “Ragazzi di vita”, inaugurando in anteprima l’anno pasoliniano 2015, mentre al cinema lo doppia in “Pasolini” di Abel Ferrara. Così, dalla borgate della Roma degli anni Cinquanta, prendono corpo il Riccetto, il Caciotta, il Lenzetta, il Begalone.
La voce di Gifuni ci porta “dentro” le giornate di questi giovani sottoproletari, ci restituisce la loro generosità e la loro violenza, il comico, il tragico, il grottesco di questo sciame umano che dai palazzoni delle periferie si muove verso il centro, in un percorso che è anche un rito di passaggio dall’infanzia alla prima giovinezza. Lo sfondo è quello di una capitale postbellica che non esiste più, per un romanzo emblematico di una trasformazione epocale del nostro paese. Sul palcoscenico dell’Argentina, si rivive la Roma dell’immediato dopoguerra per comprendere gli abissi in cui siamo precipitati e scoprire il senso del dolore e dell’estraneità dei nostri tempi attraverso le parole di Pasolini. Le pagine di “Ragazzi di vita” (1955) ancora un volta ritornano a soccorrerci tra i paradossi di cosa eravamo e cosa siamo diventati perché Pasolini legge i segni e in tal senso prevede. Ne emerge il ritratto di una società allo sbando, in cui la famiglia è smembrata e non costituisce più un sistema di valori, le scuole sono edifici che accolgono sfollati e il lavoro è rappresentato da piccoli espedienti per sopravvivere. Così, le vicende del gruppo dei ragazzi delle borgate, affollate di ubriachi, avanzi di galera e prostitute, rintracciano un pensiero che diventa corpo e ha ancora molto da dirci. Soprattutto ci racconta la spaccatura tra ‘i signori’ e gli ‘umiliati e offesi’, violenti anche contro se stessi.
Lo spettacolo è una lettura scenica, forse non potremmo neppure definirla mise en espace, e concentra tutta l’energia nella voce e nella parola. Efficace l’ingresso: pochi minuti di recitazione, il racconto di un’aggressione ad un omosessuale. Poi la lettura, lunga, profonda, estenuante eppure lieve. Non un segno di fatica. Fabrizio Gifuni sembra volare, mai un momento di incertezza, una ripresa, un affanno, un respiro di troppo, un affaticamento nella voce, un sopra tono o un sotto tono. La sua voce è corpo, si visualizza e lo attraversa tutto con una vibrazione che in alcuni momenti è appena percepibile, in altri è un gesto evidente, uno sguardo, una smorfia o uno scatto. Ogni parola trova una visualizzazione, perfino una pausa, un sospiro, ma non è didascalica: è semplicemente un tutt’uno che non lascia mai scollare il testo dal gesto, la voce dalla mossa. C’è un’abilità di immedesimazione forte con il dialetto romanesco e perfino con poche battute in friulano, che però non ha accenti macchiettistici, e la grande capacità di essere ad un tempo, nello spazio di secondi, personaggi diversi, rende il testo vivo. Non solo.
Gifuni alterna l’italiano per la narrazione, all’inflessione dialettale per il discorso diretto e in tal modo ci restituisce i due volti di Pasolini: l’intellettuale raffinato di pagine ed espressioni poetiche, e l’uomo di strada che si mischia, si confonde e si perde nella seduzione popolare e scabrosa. Un grande lavoro che a mio sommesso avviso può diventare un laboratorio per un teatro che esiste sempre meno. Una grande prova che racconta come stare su un palcoscenico sia studio, cultura, finezza interpretativa e profondo e faticoso lavoro artigianale: quello sul corpo. Troppo spesso il teatro contemporaneo se punta sul corpo perde la voce o rende la voce grido senza più parola. Gifuni riesce ad essere un assolo e un’orchestra insieme.
Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto Roma per Pasolini, l’omaggio del Teatro di Roma alla fervida attualità della sua poetica e del suo spirito profetico. Tra gli altri appuntamenti dedicati al grande pensatore cardine del ’900 italiano, di cui il prossimo anno celebreremo i 40 anni dalla morte, la messa in scena di “Una giovinezza enormemente giovane” per la regia di Antonio Calenda con Roberto Herlitzka protagonista assoluto del testo di Gianni Borgna (in scena dal 5 al 9 novembre all’Argentina).

Ilaria Guidantoni, saltinaria.it – 2 novembre 2014

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Ragazzi di vita-Tangorra

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Ragazzi di vita di Pasolini secondo Gifuni

«… sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,
ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite».
Da “Poesia in forma di rosa”

Scriveva così Pier Paolo Pasolini nel 1964, facendo ancora una volta i conti con la morte, ed è così che prende il via Ragazzi di vita con Fabrizio Gifuni. L’attore scandisce questi versi facendo leva su una semplice, ma emblematica gestualità: indica e gira di 180° intorno a quel corpo immaginario, è come se il poeta si vedesse profeticamente morto ammazzato. Spesso la parola “profeta” è stata sovrausata e per questo svuotata di significato, ma mai come nel caso dell’artista originario di Casarsa è d’obbligo, è lo stesso Gifuni a dichiararlo: «Non si riesce mai a distinguere chi precede cosa, se l’esperienza ha preceduto la creazione o viceversa, e quanto i due aspetti siano intrecciati e confusi» (dal saggio di Ilaria Mainardi “Danza di Narciso” in “Omaggio a Pasolini. ‘Na Specie de Cadavere Lunghissimo”). Se a una lettura autonoma del corpus pasoliniano questa idea si avverte, associando tra loro poesie, romanzi e – ampliando il raggio – anche film, quando l’attore romano va in scena intrecciando versi poetici anche dalla raccolta de “La meglio gioventù” con brani da “Ragazzi di vita” è come se quel pensiero si materializzasse grazie a quel corpo e a quella voce che si fanno veicolo per gli spettatori.
Può capitare che assistendo a un reading si abbia la sensazione spiacevole che non abbia aggiunto nulla, che si sia trattato di una lettura ad alta voce di ciò che potevamo aver letto o leggerci comodamente a casa, ma questo pensiero non sfiora la mente mentre si partecipa a Ragazzi di vita. Lo aveva dimostrato con “Omaggio a Cesare Pavese – Non fate troppi pettegolezzi” (Milanesiana 2010), con la lettura di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, con “Lo straniero” di Albert Camus (visto poco meno di un anno fa sempre al Parenti) e lo conferma in questa serata. Dietro e sopra quel leggio ci sono due mondi: quello dell’attore Gifuni presente non solo con la sua voce pronta a declamare (azione, anzi, quasi rifiutata nell’accezione consueta) e quello dell”artista dalla cui penna son sgorgate quelle parole, di fronte c’è il mondo della platea di turno, tutti e tre son pronti a dialogare grazie a un’atmosfera da rito collettivo che si viene a creare (non scontata). Non è un caso che il primo brano tratto da “Ragazzi di vita” (edito da Garzanti nel 1955) sia il secondo capitolo del romanzo intitolato proprio “Il Riccetto”, che ci introduce ancor più a quel “simpatico malandrino” (o almeno così era all’inizio), accalappiato dal gioco delle carte messo in scena da un napoletano all’angolo di via delle Zoccolette. Con una spiccata capacità descrittiva e un linguaggio che esalta la lingua (romanesca e non solo), Pasolini sulla carta e Gifuni sul palco ci fanno visualizzare la scena come se si stesse svolgendo davanti ai nostri occhi e sarà così per ogni estratto dal libro e ogni verso. Lo spettatore resta profondamente toccato e spiazzato quando la polvere delle tavole del palcoscenico si alza dopo aver rievocato/mimato il pestaggio di un frocio eppure, poco prima, si era riso, di quel riso che nasce dalle parole e dalla cadenza pur parlando di quella miseria umana che il regista de “La ricotta” sapeva mettere a tema e l’attore sa restituire. Con una precisione millimetrica si crea, infatti, quasi un ossimoro tra il modo di affrescare una giornata – «Era una bella mattina, col sole che ardeva, libero e giocondo, battendo sui Grattacieli puliti, freschi […] e facendo piovere oro da tutte le parti» – e il linguaggio adoperato dai ragazzi di vita – «Aòh, – fece dopo un pò esitando Alvaro, con l’ossame sgretolato di soddisfazione sotto la cotica, – a Riccè, che ti sentiresti in caso de fatte na pella, a Ostia?». Ecco quando Gifuni dice dell’«ossame sgretolato» o l’espressione «rimestando le mandibole» non riporta solo delle parole, ma è come se la sua bocca e il suo corpo mimassero per rievocare concretamente, nell’hic et nunc di quell’attimo, anche il rumore fisico, lo stesso vale per il Picchio «infregnato» nella nottata a Villa Borghese. Tutto il corpo dell’attore emana e asseconda una vibrazione.
Gli estratti scelti da questo primo romanzo di Pasolini riescono a comunicare, nonostante le ellissi, un arco narrativo coerente, capace di trasmettere quell’humus umano presente nelle borgate romane dopo la Seconda Guerra Mondiale e che arriva con tutta la sua potenza concreta di vita e morte. Giocando in dissolvenza tra narratore e personaggio, possiamo affermare che quello di Gifuni non sia una mera lettura di “Ragazzi di vita” e l’unico modo per poterlo comprendere completamente è parteciparvi non appena ne avrete l’occasione.
Mentre assistiamo al cambiamento della maschera del Riccetto – da ragazzo innocente a ragazzo che si muove quasi in modo spettrale tra le fratte e inosservato osserva la sorte che tocca a un altro ragazzo – tornano in mente questi versi della poesia dell’incipit:

«La morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi».

Ci piace pensare che il lavoro di artisti come Gifuni (vedi anche “Realtà e verità – serata per Pasolini in 21 movimenti e chiusura” di e con Alessio Boni e Marcello Prayer) che si mettono a servizio di voci artistiche com’è quella di Pasolini, secondo le proprie corde «per giocare con le corde del mondo» di noi spettatori, permetta, invece, di comprendere – forse finalmente – Pasolini, al di là della morte fisica.

Maria Lucia Tangorra, culturaeculture.it – 8 giugno 2015

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Ragazzi di vita-Gregori

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Fabrizio Gifuni e i “Ragazzi di vita” di PPP

È ben più di una “lettura” quella che Gifuni compie del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Questo formidabile attore infatti, ci conduce dentro la fucina artistica di Pasolini, rivelandone l’amore sincero per le sue creature.

Ritorna – ma forse non se n’era mai andato, depositato chissà dove nell’inconscio perlomeno di quelli della mia generazione – Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. A quarant’anni dalla sua tragica morte e a sessanta dalla pubblicazione di questo romanzo, il primo di PPP, perseguitato dalla censura che pesò – va ricordato – pochi anni dopo sull’Arialda di Testori, risentire di nuovo i suoi personaggi parlare con un gergo che li identificava nella loro reale esistenza di ladruncoli, papponi, violenti, borseggiatori però anche capaci di gesti di impensabile tenerezza, figli delle poverissime borgate romane, messi ai margini da una società appena uscita dalla guerra che stava avviandosi, senza saperlo, verso il “miracolo economico”, già vittima del sacco dell’ambiente, della rovina dei pascoli perpetrata in nome del progresso, fa un certo effetto.
Di questo bisogna essere grati a Fabrizio Gifuni che ce ne ha proposto una lettura al Franco Parenti di Milano con grandissimo successo. Ho scritto “lettura” e così, del resto, dice il programma ma per spiegare il lavoro di Fabrizio dovrei dire ricreato, riscritto. Questo formidabile attore infatti, ci conduce dentro la fucina artistica di Pasolini, ce ne rivela il pensiero, l’amore sincero per le sue creature, mascalzone ma sostanzialmente innocenti, sottoproletari senza causa che ancora non sapevano e forse non avrebbero mai saputo che tutto quello che sarebbe venuto dopo li avrebbe sempre e comunque esclusi. Lo fa dando a ogni personaggio di cui racconta – il protagonista Riccetto, ma anche il Lanzetta, Begalone, Agnolo, il Caciotta, il Piattoletta, Nadia, pronta a darsi e a rubare il rubato, nel corso dell’amplesso , ecc. – una voce, un gesto, un atteggiamento, una sottolineatura, una postura che aiutano gli spettatori a riconoscerli in quel fluente romanesco che lo scrittore friulano aveva scelto. Un lavoro mostruoso, continuamente dentro e fuori i personaggi, dentro e fuori la pagina scritta e dunque dentro e fuori lo sguardo dell’autore che tanto amorevolmente li aveva ritratti in un romanzo che è un vero e proprio romanzo di formazione visto dalla parte degli emarginati, degli sfigati dove il punto di arrivo è l’entrata del Riccetto, sia pure dopo il carcere, nel mondo della cosiddetta normalità con un lavoro, una ragazza da sposare. E allora ci si taglia i ricci, quasi un sacrificio propiziatorio verso una vita nuova.
Insieme ai ragazzi di vita, Gifuni ci racconta le borgate di una Roma degli anni Cinquanta –Donna Olimpia, Ponte Mammolo, Pietralata, …– e le storie di questi ragazzi e i loro gesti crudeli e talvolta impensabilmente dolci: dare fuoco senza ucciderlo a un ragazzo o buttarsi nel fiume per mettere in salvo una rondine che sta per annegare. È il gesto per il quale il Riccetto è diventato famoso, un gesto che non ripeterà quando Genesio, uno dei tre figli del padrone per cui lavora, per imitarlo o per sfidarlo si butta nell’Aniene annegando fra il dolore e il terrore dei due fratellini Borgo Antico e Mariuccio, perché Riccetto – ci dicono Pasolini e Gifuni – è diventato adulto e di gesti generosi non ne farà probabilmente più.
Credo sia la prima volta che Fabrizio Gifuni – che a Pasolini ha dedicato un altro spettacolo molto bello e importante, Na specie de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci – affronti quel capolavoro che è Ragazzi di vita all’interno del quale costruisce un itinerario personale del tutto condivisibile che conclude con dei versi di PPP: “la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Lo dice lì, in scena, con tutta la sua lucidità, la sua presenza d’attore, la sua bravura, la sua passione. Quelli che (come me) si sentono orfani di Pasolini l’altra sera al Franco Parenti avrebbero voluto abbracciarlo.

Maria Grazia Gregori, delteatro.it – 10 giugno 2015

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Ragazzi di vita-Di Todaro

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Giovani senza scampo

Fabrizio Gifuni porta a teatro un estratto di Ragazzi di Vita, il primo romanzo di Pasolini. Nel contesto disagiato delle periferie romane, per i cinque protagonisti la vita sembra non lasciare scampo.

Un capolavoro. Non può essere definita altrimenti la lettura teatrale di Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pier Paolo Pasolini (di cui quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario del decesso), realizzata da Fabrizio Gifuni e portata in scena al teatro Franco Parenti di Milano. Come già fatto in maniera altrettanto eccellente con Lo Straniero di Camus e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, l’attore romano è riuscito nell’intento di trasferire in un monologo sul palco (75’) uno dei romanzi più apprezzati del Novecento. La resa è stata superba. Con una spiccata capacità descrittiva e una costante esaltazione del romanesco, l’attore è riuscito di fatto a ricostruire la scena di fronte agli occhi degli spettatori. Difficile perdere il filo, nonostante il monologo.
Il filo conduttore è la condizione dei ragazzi che vivono nei sobborghi della Capitale nel secondo dopoguerra. Fiaccati da anni difficili e speranzosi di poter ottenere un futuro diverso, i giovani risultano in realtà inchiodati alla loro povertà – culturale, innanzitutto – dal gergo con cui Pasolini li fa dialogare. Una scelta che, riportata in un teatro, rende ancora di più l’idea della crisi di identità vissuta in quegli anni, a cavallo tra le scorie del ventennio e l’auspicio di un futuro più radioso. Non c’è futuro, per questi uomini, che non sia legato alla marginalità sociale. Di fatto, secondo l’autore friulano, quei ragazzi non hanno scampo. Il quadro emerge in tutta la sua durezza anche nel reading di Gifuni, che ha scelto cinque racconti del romanzo per descrivere sessant’anni più tardi una desolazione urbana che appartiene anche alle odierne periferie delle grandi città.

Fabio Di Todaro – teatro.persinsala.it, 11 giugno 2015

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Ragazzi di vita-Porro

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Gifuni nel gran racconto romano di Pasolini

Serata bella e importante quella del 7 giugno in cui Fabrizio Gifuni ha letto alcune parti dei Ragazzi di vita di Pasolini al Parenti, dove tornerà sicuro alternando, a giocoliere della parola e dei sentimenti, con Camus e con una nuova prova, Bolaño. Il “fratello” Lehman ha lasciato l’economia mondiale, Wall Street, gli shabbat e si ri-posiziona nelle borgate romane, dove era partito con Na’ specie di cadavere lunghissimo.
Ed è ancora e sempre Pasolini: ma quelli di Gifuni non sono solo dei reading, non sta impalato col microfono in mano davanti a un leggìo con la lampadina accesa, bensì si muove, accende di vita propria le pagine che legge, fa del neo realismo col linguaggio di vita dello scrittore friulano, consulente di parolacce di borgata per il Fellini delle Notti di Cabiria e debuttante scandaloso nel 1955 con questo romanzo che rivoluzionò un modo di scrivere e di essere.
Riesce nello stesso tempo a far vivere e vedere le avventure di questi ragazzi di vita (i vecchi racconti romani di Moravia…) ed anche a storicizzare l’opera (che non ha mai preso, se non sotto mentite spoglie, la strada del cinema) inserendo con la sua arte dialettica delle invisibili “virgolette”. Un romanzo attualissimo e in cui debuttano personaggi che poi si rincorrono nella carriera multimediale di Pasolini: 75 minuti sulle 9 ore e 20 che occupa l’integrale audio libro Emons letto dall’attore di Capitale umano e che in tv è stato sia De Gasperi sia Basaglia. “Un’altra straordinaria occasione, come Gadda, di ripercorrere un’avventura linguistica” dice Gifuni che è appena stato come professore ad Harvard a parlare di Gadda. Come ha vivisezionato il romanzo pasoliniano? “Un principio di piacere, le parti che mi emozionavano di più, ma anche cercando di restituire un arco narrativo pur per ellissi e in modo frammentario.
Al centro c’è il Riccetto, già presente nel monologo curato da Giuseppe Bertolucci: è un archetipo dell’immaginario pasoliniano che nasce in una sua poesia giovanile poi riscritta”. Ma quello che appassiona Gifuni in questi suoi viaggi nella memoria letteraria (mai così attuale) è il gioco a rimpiattino tra prima e terza persona, quel gioco che viene da Pirandello e non a caso piaceva tanto a Ronconi quando prendeva ispirazione dai libri (e lo fece con Gadda, pure lui, tra gli altri), sono i passaggi continui dalla vita all’opera e viceversa. Le parole dell’artista restituiscono le danze dei Narcisi di borgata, quegli accattoni capaci di morire sulla croce come si è di recente visto nella riduzione teatrale della “Ricotta”: “L’ossessione pasoliniana prende corpo nei ‘50 in questo che è il suo miglior affresco. Le pulsioni che attraversano la mia lettura oscillano continuamente tra un romanzo intatto nella sua purezza senza rughe, ma che è impossibile non leggere con gli occhi del presente, addirittura come premonizione di vita e di morte del poeta. Pasolini dissemina l’opera di riflessioni sulla morte, riesce perfino a prefigurare la stessa immagine del suo assassinio”.
E torna così il grande tema del rapporto mai scisso tra vita e morte, leggere Pasolini è essere sempre esposti a quest’oscillazione: “Per l’Attore è una festa entrare in quel mondo, quelle parole, quelle memorie. “Ragazzi di vita” è uno dei romanzi più belli del 900 e mi emoziona giocare col ruolo, affiancandolo, facendolo apparire e scomparire, nascondendomi dietro di lui o lasciare che lui si nasconda dietro di me, una danza continua tra narratore e personaggio, tra discorso diretto e indiretto: la magìa di questa dissolvenza è la cosa che mi appassiona, far balenare per frammenti qualcuno ora vero e ora scomparso, come i Lehman. Segno per fortuna che un certo legame rituale della scena può ancora restare intatto”. E non tutto è perduto.

Maurizio Porro, cultweek.com – 12 giugno 2015

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Ragazzi di vita-Palma

Ragazzi di vita - Foto di Esther Favilla

"Ragazzi di vita" di Pier Paolo Pasolini - 2015

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Scortati da Gifuni per le borgate di Pasolini

Declassato ad accattone dopo la parabola discendente dei Lehman Brothers, Fabrizio Gifuni legge al Teatro Franco Parenti cinque episodi di Ragazzi di vita per la sola serata del 7 Giugno. Un percorso linguistico che dal declamato ronconiano della Lehman Trilogy – terminata al Piccolo il 31 Maggio – lo ha condotto al dialetto romano. Il suo dialetto. E quello di Riccetto, Picchio, Piattoletta: vite violente con nomi da fiaba, protagonisti di storie mai accadute che Pasolini forgia con la materia prima della realtà stessa.
Questi maschi adolescenti sono per il poeta «squadre ordinate di fiori nel caos dell’esistenza». Il suo sguardo li segue da lontano come irresistibili oggetti del desiderio, invidiando l’irriflessiva ma autentica sensualità del loro agire. Perché la loro spontaneità è vita; li rende saggi, più adulti del poeta stesso, da parte sua condannato a una specie di inazione, a non poter varcare «il confine tra l’amore per la vita e la vita».
Come in una versione di borgata di Morte a Venezia, il poeta è stordito dalla contemplazione di questi ragazzi, e tenta infine di camuffarsi, di mimetizzarsi nello sfondo di periferia che gli sarà fatale, per cercare di vivere – per fare il verso a Emmanuel Carrère – “vite che non sono la sua”. Non c’è cronaca in Ragazzi di vita. Non ci sono nemmeno politica o morale: solo la tensione verso un linguaggio estraneo sia all’autore sia al lettore.
Così la frustrazione di Pasolini diventa esistenziale e porta all’eterogeneità stilistica del romanzo, con forme ibride di discorso diretto e indiretto. E se nel diretto riescono a farsi largo i borgatari, nell’indiretto si sente il timido intervento di un personaggio estraneo, di un borghese infiltrato: è la voce del poeta.
Lontano da ogni realismo e neorealismo, Pasolini trova le parole e le cose della vita a partire dai bisogni primordiali più incalzanti dei suoi vinti. «Prima la pancia piena, poi la morale» direbbero i delinquenti brechtiani: un assioma che struttura lo stadio iniziale dell’esistenza, unica norma di un mondo ancestrale pronto a riemergere in ogni momento, con la prima fame.
Insieme alle fragilità, Pasolini mette per iscritto l’irrimediabilità del nostro esserci, il modo che abbiamo di scolpirci esattamente come dobbiamo essere, senza scampo: «Come un fiume, che – nel meraviglioso stupefacente suo essere quel fiume – contiene il fatale non essere alcun altro fiume», riassume nella Poesia in forma di rosa. Di nuovo il dramma di non essere altro: quel tormento di Pasolini che rende tanto dinamica la struttura di Ragazzi di vita, i cui personaggi non vanno amati per ragioni sociali, ma per l’incorrotta vitalità della loro «cruda gioventù».
Tutto questo è portato in scena da Gifuni con l’esecuzione di chi non si immedesima ma comprende. La sua lettura è più drammatizzata che per lo Straniero della scorsa stagione – sempre al Parenti -, con salti vertiginosi dalla prima alla terza persona: più contemplativo nelle pagine descrittive, feroce e primitivo negli scambi tra i personaggi.
Dopo gli altri testi letterari affrontati da Gifuni (oltre a Camus, Gadda e ancora Pasolini con le regie di Giuseppe Bertolucci) e il passaggio attraverso la Lehman Trilogy, il suo lavoro di millimetrica sovrapposizione tra registri gli permette di affrontare Ragazzi di vita dalla giusta distanza: intenso, ma asciutto e commovente senza patetismi.
Sala Grande al completo e solito trionfo per l’attore, adorato dal pubblico del Parenti specie per questa forma di spettacolo, in cui l’ascolto è supportato solo da un’esile ma eloquentissima ossatura di movimenti.
Imperdibile l’audiolibro Emons con la lettura integrale del testo: scortati da Gifuni per oltre nove ore di borgate.

Mattia L. Palma, glistatigenerali.com – 13 giugno 2015