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Vite in sospeso (Belleville)

Cinema

Vite in sospeso (Belleville) - 1998

Regia di Marco Turco

Con: Massimo Bellinzoni, Paolo Bessegato, Isabella Ferrari, Ennio Fantastichini, Fabrizio Gifuni,

Sceneggiatura: Marco Turco, Andrea Porporati, Doriana Leondeff
Fotografia: Franco Lecca
Montaggio: Simona Paggi
Costumi: Lia Francesca Morandini
Musica: Riccardo Fassi

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Alcide De Gasperi

Alcide De Gasperi

Alcide De Gasperi - 2005

Regia di Liliana Cavani

Con: Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Stefano Scandaletti, Ana Caterina Morariu, Camilla Filippi, Massimo Poggio, Andrea Tidona, Toni Bertorelli, Mattia Sbragia

Sceneggiatura: Massimo De Rita, Mario Falcone
Fotografia: Claudio Sabatini
Montaggio: Massimo Quaglia
Scenografia: Tonino Zera
Costumi: Alessandro Lai
Colonna sonora: Paolo Vivaldi

Premio Flaiano – 2005
Premio Ischia – 2005
Premio Rodolfo Valentino- 2005

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L’ultima frontiera

L’ultima frontiera

L’ultima frontiera - 2006

Regia di Franco Bernini

Con: Fabrizio Gifuni, Nicole Grimaudo, Guido Caprino, Stefania Orsola Garello, Francesco Meoni

Sceneggiatura: Franco Bernini, Marcello Fois
Fotografia: Tani Canevari
Montaggio: Carla Simoncelli
Scenografia: Giada Calabria
Costumi: Paola Marchesin

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Paolo VI

Paolo VI

Paolo VI - 2008

Regia di Fabrizio Costa

Con: Fabrizio Gifuni, Mauro Marino, Antonio Catania, Mariano Sigillo, Licia Maglietta, Luca Lionello, Sergio Fiorentino, Luciano Virgilio

Sceneggiatura: Francesco Arlanch, Maura Nuccetelli, Gianmario Pagano
Fotografia: Giovanni Galasso
Montaggio: Alessandro Corradi
Scenografia: Antonello Geleng
Costumi: Enrica Biscossi
Colonna sonora: Marco Frisina

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C’era una volta la città dei matti

C’era una volta la città dei matti

C’era una volta la città dei matti - 2010

Regia di Marco Turco

Con: Fabrizio Gifuni, Vittoria Puccini, Branko Djuric, Michela Cescon, Thomas Trabacchi, Sandra Toffolatti.

Sceneggiatura: Alessandro Sermoneta, Katja Colja, Elena Bucaccio, Marco Turco
Fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Massimo Quaglia
Scenografia: Walter Caprara
Costumi: Lia Francesca Morandini
Colonna sonora: Mauro Pagani

  • Miglior attore al Festival di Montecarlo, 2010
  • Miglior attore al Roma Fiction Festival, 2010
  • Miglior attore al Busto Arsizio film festival, 2010
  • Miglior attore al Festival di Alghero, 2010
  • Premio della Rivista del Cinematografo, 2010
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La bruttina stagionata

Cinema

La bruttina stagionata - 1996

Regia di Anna Di Francisca

Con: Milena Vukovic, Isabella Bigini, carla Signoris Edi Angelillo, Fabrizio Gifuni, Luigi Verga, Valeria Sabel, Milly Corinaldi, Issa Seck, Tony Nardi, Gabriele Parrillo
Tratto dal libro di Carmen Covito

Sceneggiatura: Patrizia Pistagnesi, Anna Di Francisca, Giovanni Robbiano
Fotografia: Luigi Verga
Montaggio: Simona Paggi
Scenografia: Beatrice Scarpato
Costumi: Liliana Sotira

Trailer da FilmTv

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Così ridevano

Così ridevano - 1998

Così ridevano - 1998

Regia di Gianni Amelio

Con: Enrico Lo Verso, Francesco Giuffrida, Fabrizio Gifuni

Sceneggiatura: Gianni Amelio
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Simona Paggi
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Gianna Gissi
Musica: Franco Piersanti

[…] nel finale di Così ridevano Giovanni rincorre il treno su cui Pietro e il suo accompagnatore si sono imbarcati per tornare al riformatorio. (…) Mentre Giovanni scambia la propria atavica angoscia con quella più recente dell’accompagnatore – bellissima ed emblematica figura secondaria, perfetto esemplare di intellettuale “sociologico” che sta trasformandosi quasi senza saperlo in intellettuale di massa – noi percepiamo per intero la sua debolezza, l’essere sempre in ritardo. […]
Tullio Masoni – Cineforum 378

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Un amore-Marangi

Un amore - 1998

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

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Un amore

“E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo fu verso sera:
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore.
Il primo: e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
Storie di, credo, quindici anni fa?”
(Umberto Saba, “Un ricordo”)

Il secondo lungometraggio di Tavarelli, a cinque anni dal sottovalutato Portami via, conferma che il cinema dell’autore torinese si nutre di sentimenti e di atmosfere rarefatte e appare poco interessato alla nozione di realismo fisico o sociale a tutto vantaggio della centralità soggettiva dei vissuti dei suoi personaggi. La presunta oggettività e la fiducia nei dati sono materia per i sondaggi, come suggerisce una sequenza del film in cui si parla di uno studio che quantifica i litri di lacrime che si versano mediamente in una vita, le ore in cui si fa l’amore, il numero di veri amici che si conoscono, quanti giorni si dorme e così via. Di fronte alle contraddizioni del reale e alla precarietà quotidiana, Tavarelli non sembra fidarsi delle certezze matematiche e preferisce scegliere un atteggiamento poetico, come testimonia la scelta di chiudere il film sul testo della poesia di Saba, di cui citiamo in esergo le ultime due strofe. Non si tratta di fuga dalla realtà, ma al contrario di uno sguardo più fine e personale che si confronta con le cose della vita in un altro modo, privilegiando l’emozione dei sentimenti alla logica della ragione ciò non esula dalla lucida constatazione che, per tornare a Saba, “amore” possa fare rima con “dolore” e che “felicità” si specchi in “quindici anni fa”. Non appare quindi casuale che il film si strutturi sul duplice vettore dell’intensità sentimentale, che va oltre ogni scelta ponderale, e sul gioco della memoria che seleziona i momenti forti di un percorso autobiografico in chiave puramente soggettiva e senza gerarchie predefinite: c’è il primo incontro ma non la prima notte; c’è un esame scampato, ma non la laurea; c’è una lite furiosa, ma anche un incontro apparentemente di routine. I flash di una vita sono perfettamente stilizzati nei sipari animati di 30 secondi che aprono ogni capitolo, realizzati da laura federici a partire da foto di scena che si trasformano graficamente e cromaticamente, e rendono perfettamente il senso delle forze che si muovono dietro la bidimensionalità delle apparenze, in un gioco stilistico che rimanda, non crediamo casualmente, alla pittura espressionista. Spingendo fino all’estremo il partito preso della soggettività e dell’unicità di ogni rapporto amoroso, Tavarelli fa un film molto personale che non pregiudica però possibili meccanismi di identificazione dello spettatore in certe tappe dei due protagonisti. Soprattutto nella prima parte del film, e soprattutto per una certa generazione, viene spontaneo cercare di ricordarsi dove si era durante il Mundial spagnolo, con chi si è guardato il Live Aid, come si è reagito alla caduta del Muro o al bombardamento dell’Iraq. La scelta di introdurre molte sequenze con un riferimento di cronaca al periodo non serve a contestualizzare l’opera, già definita dalle didascalie iniziali sui siparietti di presentazione, ma piuttosto sottolinea la distanza tra la storia di Sara e Marco e la Storia, che appare spesso come un semplice sfondo scenografico rispetto all’intensità dei sentimenti dei due protagonisti, e alla loro continua trasformazione: curiosità, complicità, ira, dolcezza, rabbia e stanchezza. Non si tratta però di elegia del disimpegno o di riduttivismo sociale, ma al contrario di puntuale osservazione della distanza sempre più marcata tra il microcosmo del privato e il contesto storico, sociale e politico, fenomeno che sembra aver caratterizzato molti tracciati esistenziali degli ultimi due decenni. La constatazione vira nell’amarezza lungo la seconda parte del film, quando scompare ogni riferimento alla cronaca, quasi a sottolineare come da una certa età in poi, quando ci si sente ormai grandi, il mondo che si trova al di fuori dei confini sempre più stretti del proprio ego non funge neppure più da sfondo ma semplicemente cessa di esistere.
Di fronte alla progressiva trasformazione dei personaggi e alla ripetitività di certe situazioni necessariamente incentrate sul rapporto tra i due protagonisti c’era il rischio di cadere nel grigiore estetico e narrativo di quel cinema italiano “carino” e minimalista che Moretti ha ben fotografato in Caro diario, con l’ormai mitica sequenza tratta da un ipotetico film estivo di un giovane regista italiano in cui un gruppo di ex-giovani rinnega le cose orribili gridate nei cortei e rimpiange il tintinnio degli Optalidon di una volta. Pur senza ricorrere agli “splendidi quarantenni”, Tavarelli non cade nella trappola e solo qua e là si impantana in qualche dialogo eccessivamente emblematico o in soluzioni narrative un po’ acrobatiche, come accade nel doppio incontro parallelo tra le due ex-coppie, con Sara e Veronica da una parte e Marco e Filippo dall’altra, oppure nell’episodio dell’investigatore privato e del marito tradito da Sara. Sarà un caso, ma sono gli unici due episodi in cui il film non si affida completamente ai due protagonisti, che viceversa reggono sempre molto bene. Il merito della riuscita va condivisa almeno alla pari tra la straordinaria prova recitativa offerta da Lorenza Indovina e Fabrizio Gifuni, perfetti nello scolpire due personaggi sfaccettati e mutevoli, e la grande padronanza di stile di Tavarelli. Ora complice dei due protagonisti ora osservatore distaccato e impietoso, il regista riesce a tradurre il suo atteggiamento ambivalente nella scelta stilistica del piano sequenza, che non si accontenta di restituire la continuità spazio-temporale della vita vissuta qui e ora, né si propone come sterile estetizzazione compiaciuta e autoreferenziale, ma rende la complessità di ogni momento filmato e traduce linguisticamente il continuo gioco degli opposti che convivono in ogni relazione amorosa, unendo la staticità dei personaggi al movimento della camera, la linearità delle architetture visive alla sinuosità della macchina da presa, i silenzi ai rumori d’ambiente, le pause ai picchi d’azione, senza alcuna soluzione di continuità. Il gioco della poliedricità narrativa e del tentativo di sovvertire i clichés si sublima nella straordinaria sequenza in riva al mare, che segna il nuovo incontro tra i protagonisti dopo tre anni. Di una semplicità disarmante, da Super8, la sequenza sembra preludere a una nuova fase amorosa quando i due si bloccano sullo sfondo dell’abbacinante riflesso del sole nell’acqua: ma la cartolina si frantuma e la speranza si trasforma in cognizione del dolore, con Marco che rivela di essersi sposato. La camera non può più tenere la perfetta composizione di prima ma deve correre dietro a Sara che va in mare vestita, poi raggiunta da Marco che la porta a riva, ove la donna lo percuote distrutta dal dolore. Mi scuso per l’inadeguatezza delle parole, ma il gioco di pause e di azioni, i colori che assumono nuove tonalità e sfumature in un attimo, gli sguardi che mutano e diventano gesti, sono davvero cinema puro, di un’intensità rara nel panorama italiano più recente.
Ed è questa intensità che porta Un amore oltre le apparenze del film privato e minimale, fuori dal ghetto del “carino”, e ne fa apprezzare il coraggio narrativo e il costante tentativo di rendere la complessità di due percorsi esistenziali in cui le logiche del quotidiano si scontrano con l’irrazionalità dei sentimenti.

Cineforum 387 – settembre 1999

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Un amore-Columbo

Un amore - 1998

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

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Un amore

Dodici frammenti di un discorso amoroso lungo diciott’anni, Istantanee in movimento, introdotte da flussi di colore dei bellissimi quadri animati di Laura Federici, colgono, quasi sempre nel respiro di un singolo piano sequenza, i momenti più o meno decisivi di un amore, al tempo indeterminato e singolare, unico e a tratti esemplare. Come ricordi vivi, attimi dilatati, gli episodi che compongono il secondo lungometraggio di Gianluca Maria Tavarelli (dopo l’esordio del 1994 con Portami via) descrivono una conversazione d’amore fra un uomo e una donna, fatta d’illuminazioni e abissi, fughe e ritorni, illusione e dolore, mentre gli anni passano segnando il volto e l’anima.
Una storia solo in apparenza semplice, minata com’è dal rischio di sconfinare nella banalità del già visto e nell’enfasi retorica, di operare semplificazioni didascaliche o di risolversi in un minimalismo di maniera. Uno dei pregi maggiori di Tavarelli è proprio quello di accettare la sfida di petto, riuscendo con coraggio e sensibilità ad attraversare “luoghi” che pensavamo di conoscere a menadito con uno sguardo sinceramente nuovo, tuttavia mai ansioso di dimostrare la propria originalità. L’utilizzo stesso del piano sequenza, che sulla carta poteva apparire una scelta un po’ troppo programmatica, una sorta di partito preso stilistico o di esibizione virtuosistica, risulta un principio di stile personale tutt’altro che gratuito: la mdp segue con partecipazione attenta i personaggi che, grazie all’interpretazione eccezionale di Ludovica Indovina e Fabrizio Gifuni, riescono in pochi gesti a suggerire il segreto del tempo, a evocare la complessità di mondi nascosti e moti interiori. Tavarelli fotografa le ombre e le luci di un rapporto senza paura di “perdere” i corpi dei suoi personaggi in zone d’oscurità o d’illuminarne la loro banalità quotidiana con una fredda luce artificiale. E se a momenti alcune battute o certi ambienti sembrano “dire” un po’ troppo, questo film possiede ugualmente una luce rara (una fiaccola, un sole, un fuoco d’artificio: tutte scintille che illuminano Un amore) in grado di accendere un’emozione molto vicina alla poesia.

Matteo Columbo, Duel – ottobre 1999

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Un amore-Lodoli

Un amore - 1998

"Concerto per Amleto", per orchestra sinfonica - 2016

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L’ultimo tram
“Forse ho sbagliato, il cinema italiano non sta poi tanto male. Almeno a vedere il film di Gianluca Tavarelli”

Per fortuna siamo ancora abbastanza aperti, e abbastanza confusi, per accogliere con gioia ogni messaggio che ci consegni la prova capace di smentire quanto avevamo solennemente affermato un’ora prima. Passano mesi bui da cui ricaviamo una visione amara della vita, e la sosteniamo con pensieri profondi e citazioni di melanconici poeti, la trasformiamo quasi in un punto di forza, in un lato fascinoso della nostra personalità, come un capooto nero indossato per darsi un tono di sdegnata eleganza: e poi d’improvviso arriva una mezza giornata di sole, fuori e dentro, e tutte quelle cupe considerazioni si rivelano pura presunzione, ogni filosofica invettiva stona come un piagnisteo infantile e il nostro impeccabile cappotto nero è ridicolo in quella bella mattinata primaverile.
Dopo aver tirato il sasso e mostrato sfacciatamente la mano, ci ritroviamo con un piccolo regalo sul palmo, un dono inaspettato giunto proprio dalla direzione del nostro lancio, e ci sentiamo stupidi e contenti. Così, dopo aver severamente scritto appena una settimana fa che il cinema italiano è nelle pesti, mi ritrovo commosso ed entusiasta all’uscita di un film quasi perfetto, pensato e girato con mano sicura da un giovane regista di Torino, Gianluca Maria Tavarelli, e interpretato da attori talmente bravi da non sembrare neanche attori.
Il film, travolto e scacciato dagli eserciti trionfanti delle guerre stellari tra mummie, si è andato a asserragliare in qualche saletta laterale, poche poltrone e uno schermo come una feritoia: trovarlo non sarà facile, ma va visto ad ogni costo, bisogna portargli i viveri delle nostre 10mila lire e della nostra gratitudine. Il film si conclude con una poesia di Umberto Saba così bella che desidero riportarla interamente: “Non dormo. Vedo una strada, un boschetto, / che sul mio cuore come un’ansia preme; / dove si andava, per stare soli e insieme, / io e un altro ragazzetto. / Era la Pasqua; i riti lunghi e strani / dei vecchi. E se non mi volesse bene / – pensavo – e non venisse più domani? / E domani non venne. Fu un dolore, / uno spasimo fu verso la sera; / che un’amicizia (seppi poi) non era, / era quello un amore; / il primo; e quale e che felicità / n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste. / ma perché non dormire, oggi, con queste / storie di, credo, quindici anni fa?”. E questo è il film, la storia di un amore che resiste tutta una vita come una nostalgia e un rimpianto, perché a volte – sberleffi del destino – ci si incontra troppo presto, quando ancora non si è pronti per intrecciare insieme un nido e tutti i giorni futuri, quando la smania, le folate dei desideri, le aspettative giovanili bruciano troppo forte perché quel primo amore sopravviva intatto.
Poi ci si accorge che la smania ha prodotto solo macerie, che le aspettative si sono sbriciolate come grissini in attesa di un pranzo sontuoso mai arrivato, che a Parigi e a Londra nessuno ha bisogno di noi e la capanna poetica da inventare ai carabi era solo una bugia puerile. Allora si vuol fare resuscitare a tutti i costi quel primo purissimo amore, tirare fuori Lazzaro dalla tomba e spingerlo all’altare. La ragazza della storia insegue quella speranza con un furore sentimentale che fa soffrire, il ragazzo vi si rassegna come si è rassegnato quasi a tutto, a un lavoro redditizio ma meschino, a una vita subita come una sconfitta. Per quasi vent’anni i due amanti si prendono e si lasciano e si ritrovano, si sposano con altri, fanno figli, divorziano e invecchiano nel sospetto che il meglio sia già stato, e forse è perduto per sempre.
E’ la ballata del disincanto e dei giorni sprecati, una canzone amara da motel che l’uomo canta a mezza voce e la donna rifiuta con tutte le sue forze, nell’illusione che il treno passi ancora una volta. E quando il treno passa, nell’ultima notte del secolo, finalmente i due amanti salgono insieme, anche se sono stanchi, logorati dalle offese e dalle incomprensioni: e se il cielo esplode di fuochi e di ardori, le loro luci sembrano fioche e il treno è solo un tram che sferraglia gentile in discesa.

Marco Lodoli, Diario – ottobre 1999