Categorie
360

Recitare la storia attraverso la poesia

360°

Fabrizio Gifuni
. Recitare la storia attraverso la poesia

Dopo aver assistito a ‘Na specie de cadavere lunghissimo, si ha l’impressione d’aver vissuto un contatto diretto, fisico, con la materia letteraria di Pier Paolo Pasolini e ancor più con il suo pensiero, lucidissimo e tagliente, che si rivolge anoi profilando un’attualità cruda e incontrovertibile. Il merito di questa particolarissima esperienza che vive lo spettatore è certamente di Fabrizio Gifuni, uno dei nostri attori di maggior talento, che in realtà, proprio nel teatro, si fa anche autore dei testi, come ci conferma lui stesso. “Negli ultimi dieci anni ho lavorato quasi esclusivamente a progetti pensati fin dalle fondamenta, in cui il lavoro di riscrittura e drammaturgia rappresenta un momento centrale del percorso.”


Tu hai un rapporto attivo con la letteratura; non ti limiti a mutuare testi, ma attraversi le esperienze letterarie, le metabolizzi e le rielabori.


E’ quello che cerco di fare. Al cinema o in televisione mi diverto a giocare da interprete puro. In teatro sento il bisogno di una maggiore assunzione di responsabilità. Lo avverto come un luogo troppo importante per potermi permettermi il lusso di lavorare solo in una dimensione.


Si può dire che come attore ti metti al servizio dell’idea; non reciti l’autore che proponi, ma ti metti al servizio del suo pensiero e lasci che il testo plasmi la figura?

In un certo senso è così. Anche se ci sono modalità molto differenti a seconda degli spettacoli. Per esempio, nello spettacolo tratto dai testi di Pasolini e Somalvico è difficile definire quale personaggio ci sia in scena nella prima parte. Indubbiamente ci sono solo io. Qualcosa di un po’ misterioso si determina in scena proprio grazie alle parole del testo, che lentamente si trasformano in corpo e sguardo.



Nei tuoi lavori il personaggio risulta quindi molto complesso. Che lavoro fai sul personaggio?


Non c’è nessun tentativo di aderenza mimetica. Sono personaggi che prendono forma dal proprio pensiero; sono le parole che determinano il personaggio. Al cinema invece il lavoro sul personaggio può anche in alcuni casi prescindere dal testo.


Ma attraverso il pensiero di questi autori esprimi anche te stesso.


Sì. Sono autori con cui non c’è soltanto un rapporto di grande consuetudine – perché mi accompagnano da tanti anni – ma che producono anche una positiva azione chiarificatrice nei miei processi creativi. Una parte di me dialoga costantemente in scena con loro.



Parliamo dei quattro spettacoli su Pasolini, Gadda, Pavese e Dante.


Gli spettacoli su Pasolini e Gadda fanno parte sostanzialmente di un unico progetto, che si è andato componendo nell’arco di otto anni. Ho iniziato intorno al 2002 a lavorare su alcuni testi di Pasolini e su un poemetto del poeta milanese Giorgio Somalvico, incentrato sulla morte di Pasolini. Il quesito iniziale era come raccontare quello che era accaduto in Italia negli ultimi decenni. Ho pensato quindi di organizzare una sorta di grande racconto su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Sono partito dai testi di Pasolini perché penso che a tutt’oggi alcuni suoi scritti siano insuperati per precisione, esattezza, e capacità di radiografare la realtà, tanto da determinare questo effetto speciale per cui molte delle sue parole, oggi, sembra che siano state scritte ieri più che trentacinque o quaranta anni fa.


Così è nata l’idea di ‘Na specie de cadavere lunghissimo.


È la prima tappa di un viaggio che ho iniziato e continuato con Giuseppe Bertolucci, che ha curato la regia di entrambi gli spettacoli e che non ringrazierò mai abbastanza per il suo aiuto. I testi su cui ci siamo concentrati nella prima parte sono stati principalmente le Lettere luterane, gli Scritti corsari, l’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo sei ore prima di morire. Mentre nella zona centrale, prima del testo di Somalvico, ci sono alcuni appunti della sceneggiatura su un film su San Paolo mai realizzato, alcuni versi de La nuova forma de la meglio gioventù e di Poesia in forma di rosa, un breve estratto da Ragazzi di vita. La prima parte dello spettacolo ha preso quindi la forma di un unico ragionamento socratico, fatto in mezzo al pubblico, sulla trasformazione dell’Italia dai primi anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta. Mentre nella zona mediana prende letteralmente “corpo” una riflessione scritta da Pasolini pochi giorni prima di morire, intitolata Lettera ai giovani infelici, in cui il poeta dichiara il suo sentimento di condanna verso i giovani che aveva fino a quel momento amato, su cui aveva riposto molte speranze e da cui si sentiva in un certo senso tradito. Partendo da un enunciato della tragedia greca – le colpe dei padri ricadono sui figli – Pasolini sviluppa il suo ragionamento arrivando a individuare il nucleo della colpa dei padri e in ultima analisi di se stesso. Sentendosi lui stesso padre simbolico di una generazione.


Nella seconda parte dello spettacolo, quella più violenta che traduce anche la tragedia della morte di Pasolini, scegli la poesia, una poesia anche formale, sempre in endecasillabi.


Credo che la poesia all’interno di questo percorso sia determinante. Anche perché nonostante Pasolini sia riuscito a mettere in campo i propri talenti sotto tante forme, credo che resti innanzi tutto un poeta. Perciò per me era importante che la poesia avesse un corpo centrale all’interno dello spettacolo. E il testo di Somalvico mi sembra, da un punto di vista della sostanza linguistica e dunque da un punto di vista poetico, un materiale straordinario. Giorgio Somalvico è un poeta eccentrico, che oltre a esprimersi in versi nella vita, conosce come pochi altri in Italia la musica e il teatro.


Il tuo percorso prosegue poi con Carlo Emilio Gadda.


Sì, sempre animato dallo stesso intento: costruire una sorta di mappa cromosomica degli italiani. Con Gadda facciamo temporalmente un passo indietro. Con i testi dei suoi Diari di guerra e di prigionia, che utilizzo soprattutto nella prima parte dello spettacolo, ripartiamo dai primi decenni del Novecento per approdare al 1945, quando Gadda inizia a scrivere Eros e Priapo. Un testo imprevedibile, scritto in forma di referto medico, avente per oggetto la psicopatologia erotica del presidente del Consiglio Benito Mussolina ma soprattutto la patologia e irrimediabile attrazione che il popolo italiano prova periodicamente verso queste figure affette, come dice Gadda, da “delirio narcissico”. Uno scritto-anamnesi, tragico ed esilarante al tempo stesso, in cui Gadda analizza e demolisce l’iconografia psicosessuale in cui si sostanzia qualsiasi espressione del Potere e del ventennio fascista in particolare.


Perché i Diari?


Sono un materiale indispensabile a chiunque voglia avvicinarsi seriamente all’opera di Gadda. Non erano destinati alla pubblicazione, ma contengono già uno spessore di lingua straordinario. A mio avviso, l’esperienza del primo conflitto mondiale, la detenzione nei campi di prigionia e la scoperta della morte del fratello, provocarono in Gadda quella che potremmo definire la sua “ferita originaria”. Una ferita che non si risanerà mai e lo accompagnerà per tutta la vita, determinando nella sua anima un dolore atroce, che lo costringerà a un urlo vitale come reazione alla morte. È per reagire a questo dolore che si scatenerà la sua lingua fantasmagorica. Questa è l’idea che sta alla base della drammaturgia e che lo avvicina così tanto all’Amleto di Shakespeare.


Nella seconda parte, dove la lingua si trasforma e diventa effervescente e pirotecnica, tu ricorri ancora alla poesia.


Il testo Eros e Priapo può essere considerato a tutti gli effetti un poemetto, in cui la lingua fatta vivere nella sua dimensione verticale, cioè staccata dalla pagina, diventa immediatamente lingua poetica.


Perché senti l’esigenza di ricorrere alla poesia?


Ragionando in termini di istinto scenico, non bisogna mai dimenticare che tutti questi materiali devono reggere alla scommessa di diventare un fatto teatrale, dove la reinvenzione di un testo deve essere messa alla prova su un palcoscenico: testi originariamente non destinati alla scena, devono tradursi in carne e sangue. In questo quadro la lingua poetica consente una maggiore apertura e visionarietà; può diventare una lingua più aperta, che si stacca decisamente da qualsiasi forma di realismo letterario o scenico per diventare metafora di qualcos’altro.



Nella terza esperienza, invece, ti rivolgi proprio a un poeta, Pavese.


Quello su Pavese, e poi quello su Dante, sono spettacoli in forma di concerto, nati in due momenti diversi. Lo spettacolo su Pavese è nato nel 2007 dalla richiesta del Festival di poesia di Parma di riscrivere un testo e una drammaturgia originali, partendo dai testi di Pavese e aventi per filo conduttore il rapporto che Pavese aveva con la musica. Io e il pianista Cesare Picco siamo partiti da una annotazione di Massimo Mila, secondo cui Pavese non sembrava avere un grande interesse per la musica, fatta eccezione per la canzone popolare. Così ho scelto come spina dorsale del testo un racconto giovanile, Il blues delle cicche, dove il protagonista Masino, alter ego sfuggente dello stesso Pavese, si diverte a comporre canzonette. Ho lavorato poi su diverse poesie, inserendo anche alcuni passi dei suoi diari privati. Ne è venuto fuori lo spettacolo a cui abbiamo dato il titolo Non fate troppi pettegolezzi, la frase di commiato scritta da Pavese prima di suicidarsi, forse in estremo omaggio a Majakovskij.



E infine c’è Dante.

Il lavoro su Dante nasce nel 2008, quando io e Sonia Bergamasco abbiamo iniziato a lavorare su alcuni canti della Divina Commedia (due dell’Inferno, due del Purgatorio e l’ultimo del Paradiso), pensando a uno spettacolo in cui la musica dal vivo fosse elemento determinante della drammaturgia. In questo caso abbiamo lavorato con un grande chitarrista, Stefano Cardi. Inserendo questo spettacolo su Dante nella monografia proposta a novembre al teatro Valle di Roma, il viaggio si è così ulteriormente arricchito. Perché il percorso teatrale fatto negli ultimi dieci anni non è soltanto un viaggio all’interno della storia italiana del secolo scorso che ci conduce fino al presente, ma è anche un viaggio nel corpo della nostra lingua, dove le parole di Dante rappresentano le fondamenta di un edificio visto in trasparenza.


C’è anche un’altra lettura di Dante molto particolare, in cui fai incontrare il testo dantesco con altri di Pasolini.


È un lavoro nato in occasione di un premio che mi hanno dato al Teatro della Pergola di Firenze, assegnato dalla Società degli studi danteschi. In quella occasione mi era capitato di leggere Dante accostando le sue terzine ad alcuni brani tratti da opere di Pasolini dichiaratamente debitrici, in termini di ispirazione, all’opera di Dante. Si trattava di Alì dagli occhi azzurri, Trasumanar, organizzar per verba, La poesia della tradizione e Divina mimesis. L’idea era di far reagire chimicamente, e senza soluzione di continuità, due sostanze linguistiche apparentemente distanti.



A ben vedere parliamo dunque di lavori che hanno un contenuto culturale, oltre che meramente letterario, che spesso si rivela di un’attualità inquietante. Il pubblico come reagisce?


Per me il pubblico è un elemento centrale del discorso. Penso sempre a quello che voglio raccontare e a chi lo devo raccontare. Credo fortemente in un’idea di teatro che si sforzi di recuperare il suo compito originario, quello che i greci chiamavano “catarsi”. Sia l’attore in scena sia il pubblico, partecipando di un’esperienza comune, devono uscire un po’ modificati dagli effetti del rituale. Ché di questo si tratta. Per questo ho voluto che gli spettacoli su Gadda e Pasolini chiamassero il pubblico a un patto di corresponsabilità. E il pubblico ogni sera avverte questa richiesta e si abbandona. Oggi il teatro può essere un luogo dove giocare una partita fondamentale sul piano culturale all’interno della nostra società.



Il teatro come la poesia chiama a un’esperienza di conoscenza. Nello spettacolo su Pasolini, tra la prima e la seconda parte, tu ti spogli. Un gesto fortemente simbolico. L’intellettuale si mette in gioco, va nudo nell’inferno e la sua visione si traduce e si rappresenta nella seconda parte. Sembri richiamare oggi a un ruolo coraggiosissimo dell’intellettuale.


Credo che oggi sia più difficile trovare un modo efficace per far sentire la propria voce. Pasolini stesso, al di la della sua vicenda giudiziaria, decise in qualche modo di andarsene dal mondo, perché lui stesso non sapeva più con chi parlare e come parlare. Già alla metà degli anni Settanta sentiva una società cambiata a tal punto che lui stesso non riusciva a trovare gli strumenti per parlare con la stessa efficacia di prima. Figuriamoci oggi.


Siamo anche nell’epoca della comunicazione globale, abbiamo molti più strumenti di comunicazione, ma abbiamo perso il rapporto con i contenuti.


È vero. In questo senso credo che il teatro sia uno dei pochi luoghi rimasti realmente liberi. Proprio all’epoca in cui tutto e in qualsiasi istante è riproducibile, il teatro recupera la sua unicità nel suo non essere un’esperienza ripetibile. I corpi degli spettatori sempre diversi determinano un campo magnetico che ogni sera muta profondamente ciò che accade in scena. Tutto questo credo che possa tradursi in una possibilità di incontro molto forte. Inoltre, non penso mai a spettacoli per addetti ai lavori. Anche chi non ha letto una sola riga di Gadda o Pasolini deve avere la possibilità di accedere a quel pensiero e a quelle parole per altri canali. In questo senso credo che il teatro sia, senza alcuna retorica, un fatto profondamente democratico.



Nicola Bultrini, Poesia n. 259 – Aprile 2011

Categorie
360

Ordinare o precipitarsi

360°

"Ordinare o precipitarsi? Sul Rito di Ingmar Bergman"

Il Rito di Ingmar Bergman è un film ‘da camera’ denso e misterioso. Un film perfetto. Bergman mette in scena, in nove quadri, lo scontro mortale tra un giudice inquirente e tre attori. Il giudice Abrahamsson indaga sulla presunta oscenità di un numero teatrale eseguito da Hans e Thea Winkelmann (marito e moglie) e Sebastian Fischer (amante di Thea).
L’impianto del racconto è matematica allo stato puro. Le scene 1, 3 5, 7 e 9 si svolgono nello stesso ambiente, ‘Una stanza per gli interrogatori’. Le scene 2, 4, 6 e 8 sono ambientate in quattro luoghi diversi : ‘Una camera d’albergo’, ‘Un confessionale’, un ‘Camerino di un teatro di un varietà’, ‘Un bar’. Nelle scene dispari il giudice interroga i tre attori (prima insieme, poi a turno, separatamente, poi di nuovo insieme), nelle scene pari i tre attori si confrontano fra loro, mentre il giudice incontra il suo confessore – interpretato dallo stesso Bergman.
Il Rito è un film sulle opposte pulsioni. L’impulso ordinatore del diritto e l’impulso disaggregante dell’arte. Scrive Franco Cordero nel suo splendido manuale di Procedura Penale (il mio ultimo esame universitario prima di un Macbeth al teatro romano di Verona): “Rito. Parola classica della nomenclatura giudiziaria, molto usata. Rito, rituale, irritualmente : nome, aggettivo e avverbio colgono l’aspetto più visibile del fenomeno. Ascendano al sanscrito ‘ra’ (ordinare, computare, da cui reor, ratio, ratus) o al greco ‘reo’ (scorrere, fluire, ma anche spandersi, diffondersi, slanciarsi, precipitarsi o infuriare contro), evocano uno svolgimento conforme al prescritto quanto a forma, sequela, tempo.” Seguendo a ritroso le tracce della parola ecco pararsi il bivio originario. Ordinare o precipitarsi? Apollo o Dioniso. Bergman va al cuore della Sapienza greca. Come Eraclito – che usa la formulazione antitetica nella maggioranza dei suoi frammenti – Bergman è convinto che il mondo che ci circonda non sia altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l’unità, il Dio che vi sta dietro.

Il Rito è un grande film sulla potenza invisibile e deflagrante del teatro. Quando ancora pensavo di concludere i miei studi universitari in legge, pensavo a questo film – assieme a un episodio dell’Amleto di Shakespeare e a un racconto di Plutarco – come punto di partenza per un’ ipotetica tesi di laurea che, probabilmente, nessuno mai mi avrebbe concesso. Il tema era: quanto della potenza arcana del Rito sopravvive all’interno del rito processuale? E’ possibile, in un processo penale, ‘muovere’ l’altrui coscienza, spostarla, colpirla insomma, attraverso una serie preordinata di azioni, gesti e parole? Il nucleo simbolico del rituale sopravvissuto all’interno del Processo è ancora in grado di condizionarne gli esiti? Questi i quesiti che mi ponevo. Ma se è vero che tanto il rito teatrale quanto il rito processuale nascono da uno ‘slittamento’ progressivo dall’originario rito misterico e religioso, da cui mutuano in parte le forme della rappresentazione, è possibile istituire un parallelo fra le due forme rituali? E’ esattamente quello che Bergman fa in questo piccolo capolavoro. Decretando in maniera inequivocabile la supremazia del rito teatrale su quello giuridico. Nella scena finale del film il giudice inquirente convoca di nuovo i tre attori, di notte, nella stanza degli interrogatori e chiede loro di rappresentare in quel luogo, solo per lui, il numero teatrale incriminato. Ma la sola vicinanza spazio-temporale con il Rito (il numero sta per iniziare e gli attori sono molto vicini) mette in ginocchio il giudice che ‘confessa’: “Ho i miei superiori e i miei dipendenti, do ordini e mi danno ordini. Voi siete liberi invece. Io non vi invidio : è una terribile libertà, non è vero? Io non vi capisco. Non capisco cosa vi guida, non capisco questi vostri legami, non capisco la mia propria connessione con voi.” Il Rito teatrale ha inizio. Il giudice cerca di interrompere la scena.

Nel racconto di Plutarco e nell’Amleto di Shakespeare accade, in fin dei conti, qualcosa di simile. Lo storico greco racconta che il legislatore Solone, ancor prima della istituzione dei concorsi tragici, assistendo a una delle primissime rappresentazioni teatrali, ad opera di Tespi, avesse, indignato, interrotto e abbandonato la recita. A Tespi che si sarebbe difeso sostenendo che non si trattava dopo tutto che di una finzione scenica, il vecchio uomo di Stato ateniese avrebbe replicato che non si sarebbe tardato a vedere le conseguenze di tali finzioni sui rapporti fra i cittadini.
Ne La tragedia di Amleto, Principe di Danimarca, infine, Shakespeare racconta come il Re Claudio – usurpatore e assassino – rivivendo da spettatore il proprio misfatto, avesse abbandonato e interrotto incollerito la rappresentazione a corte del dramma ‘L’assassinio di Gonzago’, appositamente allestito come trappola su ordine di suo nipote Amleto.In ciascuno dei casi – Plutarco, Shakespeare e Bergman – tre uomini con tre diverse posizioni in rapporto alla norma – un legislatore (colui che istituisce la norma), un assassino (colui che viola la norma) e un giudice (colui che applica la norma) – si trovano di fronte a un rito teatrale.
E in ciascuno dei casi, tre rappresentanti della legalità (un legislatore, un Re e un giudice) resteranno sconvolti davanti a una finzione scenica, tentando di interromperla. Ma mentre nei primi due casi gli uomini di legge riusciranno a bloccare la recita (sia pure manifestando al contempo la propria debolezza o la propria colpa), Bergman consumerà in questo film la sua vendetta di uomo di teatro nel modo più crudele.

Nel finale del film, finalmente, i tre attori si dispongono davanti al giudice su un’unica linea. Thea è a seno nudo, senza maschera. I due uomini, invece, indossano le maschere e portano dei grandi falli scuri sopra i costumi. Hans inizia a descrivere il Rito, mentre tutti prendono a mimarlo. Ma prima che il giudice riesca a fermare l’azione dei tre attori, sarà il suo cuore a fermarsi. Il giudice Abrahamsson muore d’infarto.

Fu così che decisi di chiudere i libri di giuris-prudenza e diventai un attore.

Fabrizio Gifuni

Categorie
360

Gadda, Pasolini e il teatro, un atto sacrale di conoscenza

Gadda, Pasolini e il teatro, un atto sacrale di conoscenza

Prefazione

Sono sempre più convinto che i teatri, oggi più che mai, siano il luogo dove poter giocare una battaglia fondamentale per i destini culturali del nostro paese. Non mi vengono in mente tanti altri luoghi, come il teatro, dove una comunità possa continuare a ritrovarsi, liberamente, per condividere uno spazio di pura conoscenza emotiva.
Il corpo a corpo con lo spettatore fa del teatro un’esperienza unica e irripetibile. Il campo magnetico prodotto dall’incontro tra il corpo degli spettatori e quello dell’attore può determinare, a patto che in scena accada realmente qualcosa, un cortocircuito che non ha uguali dal punto di vista delle emozioni e della conoscenza.
Il teatro è anche uno degli ultimi luoghi dove si esercita ancora l’arte della memoria. Intesa sia come mnemotecnica (gli attori sono gli ultimi depositari di questa disciplina) sia come serbatoio di una coscienza storica collettiva. Per questo il teatro oggi fa più paura al potere.
Perché molti italiani ricordano. E non sono disposti a dimenticare. Perché molti italiani sanno che la sistematica distruzione della memoria storica del nostro paese è stata e resta uno degli obiettivi più pervicacemente perseguiti negli ultimi decenni. Perché azzerare e annullare il valore della memoria significa poter dire e fare, oggi, tutto e il contrario di tutto.

Il progetto Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione nasce da questo: dal desiderio di organizzare un grande racconto sulla trasformazione del nostro Paese. Su ciò che eravamo, su ciò che siamo diventati o su ciò che in fondo siamo sempre stati. Per capire cosa è accaduto, come sia stato possibile arrivare a tutto questo. Una mappa cromosomica dell’Italia e degli italiani per orientarsi meglio in un presente troppo spesso buio, opaco e pericoloso. Ho iniziato così, circa dieci anni fa, un lungo ed entusiasmante viaggio con Giuseppe Bertolucci – che non ringrazierò mai abbastanza per avermi accompagnato con il suo talento e la sua umanità – prendendo in prestito le parole di due autori per molti aspetti diametralmente opposti per formazione, lingua e visione della Storia. Attraverso ‘studi’ e passaggi successivi, hanno preso vita e corpo i due spettacoli “‘Na specie de cadavere lunghissimo” (da alcuni testi di Pasolini e da un poemetto di Giorgio Somalvico) – andato in scena a partire dal 2004 – e “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” (da due testi del gran Lombardo e dall’Amleto di Shakespeare), che ha debuttato nel gennaio del 2010.

Quello che ne è venuto fuori, a distanza di anni, è un doppio sguardo sulla nostra storia del ‘900, feroce e inesorabile. Dove al ‘teorema pasoliniano’ sulla mutazione antropologica di un intero Paese si aggiungono, come tessere di un unico mosaico, le note gaddiane sulla Grande guerra e le sue annotazioni psico-letterarie sul ventennale flagello fascista. Due sguardi incrociati sulle dinamiche della grande Storia, spesso sorprendenti, dove termini come ‘progressista’ o ‘conservatore’ cedono il passo alla sola forza di due intelligenze in continuo movimento.

I due autori, pure così distanti, si ritrovano sul terreno comune di un amore furioso verso il proprio Paese, partendo dalla loro personale tragedia privata. Due uomini che si conquistano sul campo la possibilità di poter esprimere un giudizio su ciò che li circonda, solo dopo aver fatto a pezzi se stessi. E’ per questo, credo, che le loro parole sembrano avere, oggi, un peso specifico così grande, come munite di una speciale forma di autorevolezza. Da questa pratica auto demolitoria, da questo continuo far naufragio del proprio io, credo derivi la forza dei loro ragionamenti, oltre che della loro scrittura. In questo esercizio spirituale e al contempo laico sta lo statuto etico del loro pensiero. Perché non basta esprimere un pensiero alto o condivisibile, ma è necessario che chi lo esprime sia credibile per chi lo ascolta.

Gadda e Pasolini analizzano da differenti angolazioni i sintomi di quella piaga – antropologica prima che storica – che fu il fascismo. Osservando la riemersione carsica (e dunque periodica) di quel liquame nero presente nelle arterie del nostro Paese, marcano differenze e continuità tra il vecchio e il nuovo e individuano con precisione chirurgica i connotati endemici di quel fenomeno definito da Piero Gobetti con lucidissimo intuito, nel novembre del ’22, ‘l‘autobiografia della nazione’.

Nel primo dei due spettacoli – ‘Na specie de cadavere lunghissimo – l’emergenza drammaturgica nasceva dal desiderio di distillare sostanze linguistiche dai sapori apparentemente opposti: la prosa politica e polemica del Pasolini luterano e corsaro e gli endecasillabi inediti e sorprendenti di Giorgio Somalvico, che – in un romanesco crepitante e reinventato – costringe in metrica il delirio dell’omicida, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Su questo formidabile poeta milanese – ancora incredibilmente troppo poco conosciuto rispetto al suo valore – ci sarebbe molto da dire. Poeta, romanziere, autore di libretti d’opera, pittore, espressione della migliore operosità ambrosiana, eppure schivo e appartato come Gadda, Somalvico nasconde nel ritmo dell’endecasillabo tutti i segreti artigianali del suo sapere teatrale e musicale. Grazie all’invenzione del personaggio di Piero Pastoso ( “Detto Rana – e nun Pecora né Biscia/ Comm’ a tutti voantri ‘n malaffede/ – ve pozzino cecà! – ve piasce crede.”) il testo dello spettacolo è in grado di operare uno scarto semantico imprevedibile, trovando nei versi di Somalvico l’indispensabile anti climax alle parole di Pasolini.

E così il ‘teorema pasoliniano’ – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentale dei media da parte del Nuovo Fascismo – si dispiega inesorabilmente in tutta la sua lucida disperazione, delineando – attimo dopo attimo – i connotati dell’assassino.

Generandone i tratti identitari, le de-motivazioni profonde, “pensandolo” quell’assassino, prima ancora di incontrarlo, in un vertiginoso (quanto involontario?) processo di invenzione. Una sorta di agone tragico (inteso come scontro, ma anche come agonia) tra un Padre e un Figlio, vissuto in scena da un solo corpo e una sola voce, che de-genera, senza soluzione di continuità, da vittima a carnefice, da Dottor Jekyll a Mister Hyde, in una reazione a catena culturale e linguistica tutta da sperimentare.

Anche ne “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” (il cui ‘primo studio’ risale al 2006: una lettura drammatica all’interno del Museo della Fanteria di Roma), la drammaturgia originale si fonda su testi in origine non destinati alla scena. Gli scritti gaddiani scelti – smontati e riordinati per andare a comporre un nuovo testo, questa volta destinato al teatro – sono Il Giornale di guerra e di prigionia ed Eros e Priapo (oltre a due piccoli frammenti da La cognizione del dolore).

I Diari di guerra sono la testimonianza diretta della partecipazione di Gadda al primo conflitto mondiale (arma di fanteria, V reggimento Alpini), il racconto della personale tragedia dello scrittore e di un intero Paese, dal 24 maggio del 1915 – primo giorno di addestramento del Sottotenente Gadda al magazzino di Edolo – agli inizi del 1919, quando il futuro autore de Il Pasticciaccio farà rientro a casa dopo quasi due anni di detenzione nei campi di prigionia tedeschi. Eros e Priapo è, invece, un testo che assume l’originale forma letteraria di un simil trattato di psichiatria. Oggetto di anamnesi la psicopatologia erotica del Presidente del Consiglio, Benito Mussolini, e l’altrettanto patologica attrazione che il popolo italiano prova, periodicamente, verso le figure di tiranni affetti da ‘delirio narcissico’. Scritto in un reinventato fiorentino Cinquecentesco, inizialmente intitolato Da furore a cenere, il libro è un autentico saggio di psicoanalisi sui legàmi erotici che uniscono il Potere alle masse e, allo stesso tempo, un vertiginoso viaggio all’interno dell’ineguagliata lingua del genio gaddiano.

A unire i due testi ci pensa Amleto, principe di Danimarca e di Longone (in Brianza). Amleto fu per Gadda qualcosa di più di una passione letteraria. Gadda si rapportò, si può dire per tutta la sua vita, ad Amleto come a un archetipo che lo riguardava profondamente. Stessa coscienza della propria statura intellettuale all’interno di una società e di un tempo ‘fuori dai cardini’. Simile il rapporto devastante con la propria madre, che entrambi collocano al centro di una ragnatela mortale di menzogne di cui devono liberarsi. Uguale il temperamento naturalmente predisposto alla melanconia e agitato da infinite nevrosi. Entrambi, infine, costretti – per stare al mondo – a fingere di essere affetti da una particolare forma di pazzia. E così se Amleto finirà con l’assumere con i suoi simili il comportamento di Yorik, il buffone di corte idolo della sua infanzia, Gadda si trasformerà definitivamente nel genio letterario che tutti conosciamo. Sparire dietro una lingua fuori dall’ordinario, scatenando il suo lessico fantasmagorico, sarà il suo nuovo modo di comunicare col mondo, la folle scommessa di un Ingegnere schivo fino all’eccesso. E se la Danimarca malata di Amleto si fa con Gadda metafora del nostro Paese, l’amore del Principe per il teatro finisce per coincidere con il mio stesso sconfinato amore. Per questo, ho preso ad immaginare Gadda come un Amleto non più giovane, solo, senza più un padre o una madre da invocare o da maledire, sempre più debole di nervi, collerico. Solo con i suoi fantasmi. La lingua squassata da lampi di puro genio proteiforme. Sempre sull’orlo di una follia tragica eppure, a tratti, comicissima. E ricca di metodo. Ah sì, ricca di metodo.

Un ‘Amleto Pirobutirro’ (protagonista-ombra del suo più grande romanzo, La cognizione del dolore) che riavvolge il nastro delle sue nevrosi camminando a ritroso – come un granchio – sulle tavole della memoria. Una discesa agli inferi che riapre antiche ferite, mai rimarginate. Fino ad arrivare alla ferita originaria. A ciò da cui tutto discende. Nel male e nel bene. Al pozzo nero della sua futura infelicità ma anche, forse, all’involontaria miniera della sua immensa arte. La partecipazione dell’Ingegnere al primo conflitto mondiale, la disfatta di Caporetto, la detenzione nei campi di prigionia tedeschi e la morte del fratello Enrico, modificheranno per sempre la vita dello scrittore.

Ma il dolore non è mai solo fatto ‘privato’. Anzi. Si fa sempre inesorabilmente ‘pubblico’. E così con progressione implacabile, la furia del Gaddus inizia a montare e ad abbattersi, a colpi d’ascia, sul suo Paese – che è pur pronto a difendere con la vita – sul suo popolo e sui suoi governanti. Scritti dall’assai scomodo osservatorio delle trincee, i suoi Diari di guerra e di prigionia squarciano il velo su qualsiasi retorica patriottarda per farsi atto d’amore autentico e doloroso.

Acquisita coscienza del proprio dolore, questo Amleto un po’ avanti con gli anni è ormai perfettamente in grado di analizzare le storture di una Storia ciclicamente “fuori dai cardini”. Preso l’abbrivio, il flusso è inarrestabile. Con il trascorrere del tempo (quanto?), la demenza totale di un popolo frenetizzato ha ora consegnato il suo Paese a un tiranno che si preoccupò de le femmine; al delirio narcissico di un ultra-istrione, auto – erotomane affetto da violenza ereditaria.

Seguito ideale, dunque, di un discorso aperto qualche anno prima dalle riflessioni performative luterane e corsare (di ‘Na specie de cadavere lunghissimo), anche questo nuovo capitolo si presenta al pubblico come un atto cognitivo ‘sacrale’ – rituale laico di un consorzio civile che si vorrebbe migliore – utile forse a chiunque, oggi, voglia provare a riannodare i fili di una tela in brandelli. La tela di un paese chiamato Italia.

Dice Gadda in Eros e Priapo: “I crimini della triste mafia e di tutti gli entusiasmati a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano, con una penetrazione capillare (oh si, davvero!), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano ora intervenire nel giudizio del male, patito e fatto.” Perché (…) “l’atto (sacrale) di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione, se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie.

Spaliamo il fango, liberiamo i campi, dissodiamo i terreni, rimettiamo in movimento gli aratri. Torniamo a seminare con cura per le primavere future. Difendiamo con uguale tenacia il grano e i fiori, gli alberi che danno frutti e quelli che ci servono a respirare. Stordiamoli di profumi. Sorprendiamoli con l’amore per il nostro lavoro. Hanno appestato questo paese. E’ il momento di riprenderselo. Coraggio, pazienza e luce negli occhi.

Fabrizio Gifuni

Categorie
bio

Premio Volonté 2012

BIO_hp(V4)

Premi e riconoscimenti

Premio Gian Maria Volonté 2012

Cosa caratterizza la personalità artistica e umana dell’attore, regista e drammaturgo Fabrizio Gifuni? Certamente bravura e lucidità, ma anche rigore, spessore e onestà intellettuale che si accompagnano alla sua dignità, alla consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione, alla sua sensibilità civile e politica. Tutte qualità – vissute in prima persona e con grande passione – che contraddistinguono il lavoro di Gifuni, un attore completo e totale il cui talento, educazione e cultura offrono il senso di un lavoro prezioso, originale e desideroso tanto di riscoprire e sperimentare quanto di eccellere nella ricerca di storie e personaggi complessi.

Attore di cinema e di televisione, autore, interprete e regista teatrale capace di capitalizzare il proprio lavoro – svolto con eleganza e intelligenza davanti al grande pubblico in tanti film e tante fiction di significativo successo – al fine di permettersi la libertà artistica e personale di portare in giro per l’Italia intensi ed emozionanti spettacoli teatrali dai vasti orizzonti culturali in cui sublimare le suggestioni delle idee e delle parole di grandi del passato – da Gadda a Pavese a Pasolini – che Gifuni rilegge, rivive e racconta in un flusso ininterrotto di pensieri e di emozioni volti a interpretare, a spiegare e a comprendere il nostro presente alla luce di un passato che non può e non deve essere dimenticato.

Il suo lavoro di artista, la sua esplorazione della memoria, la nostra memoria, assomigliano molto a quelli dell’intellettuale eclettico che con passione e ironia guarda in maniera disincantata al nostro presente. Una scelta di vita culturale che – oltre a eleggerlo, di fatto, quale erede ideale di un grande Gian Maria Volonté – ci fa guardare con attenzione e ammirazione al suo impegno nella società civile in un momento storico in cui è più facile astenersi o piegarsi che reagire.

E’ quindi per il suo impegno coniugato ad un talento magnifico sempre proteso a ricercare e raccontare le vite e le storie, le “storie degli altri”; per la sua lungimirante caparbietà e la sua viva ironia coniugate all’irrefrenabile desiderio di difendere il diritto ad essere un sognatore, che gli viene tributato il Premio Gian Maria volonté.

 

Categorie
bio

Gian Maria Volontè

BIO_hp(V4)

Gian Maria Volonté

Il canto di Ulisse – frammenti di una battaglia

Due uomini corrono a perdifiato, trascinando pesanti taniche d’acqua.
Tutt’intorno strade divelte, palazzi sventrati, macerie fumanti.
Nell’aria sospesa, qua e là, un grido d’allarme.
Siamo ai primi di dicembre del 1994 e il vecchio ponte, da cui la città ha preso il nome, è stato abbattuto, con venti granate, poco più di un anno prima.
L’uomo che sembra più anziano ha i capelli bianchi, arruffati dal vento.
Inciampa, cade. Ma poi si rialza e riprende la corsa.
Durante due soste, per riprendere fiato, confida all’altro che ha passato mesi e mesi chiuso in un laboratorio, nel tentativo di risolvere la formula di una vecchia sostanza chimica. E che i suoni delle sostanze che sgocciolavano sembravano, a tratti, la musica di una misteriosa canzone.
Poi è scoppiata la guerra; e da allora si è dedicato solo a proteggere la cinemateca della città, di cui è direttore. “Che ne resti la memoria”, dice. E con occhi spauriti di bambino, conclude: “.. ma adesso che senso potrebbe avere qualsiasi cosa, in mezzo a tutto questo massacro?“.
Mine anti-uomo, cluster bombs, cecchini fantasma – chirurgia dell’orrore. In quella voce affannata c’è la furia bestiale dell’uomo sull’uomo che, attraversati i suoi occhi, per canali segreti, si è fatta suono. Agonia di parola. Radiografia vocale di un paesaggio straziato. Poi, in un lampo d’improvvisa ironia, mormora: “In questa città la migliore amica degli uomini è la nebbia. Manca la visibilità, i tiratori sono costretti a fare una pausa. Qui i giorni di nebbia sono giorni di festa.”
I due, stremati, riprendono, infine, la corsa.
Li vediamo, di spalle, correre verso un ponte e attraversarlo. Ma prima di averlo passato completamente una voce, da un altoparlante, gli intima di fermarsi: “Stop!!”

L’uomo giusto – narra una leggenda turca – raggiunge l’Altrove passando su una passerella più sottile di un capello e più affilata di un rasoio.
Un arco celeste, purissimo.

Il giorno dopo i nostri uomini sono ancora vivi. Via da Mostar. Diretti a Spalato;
da lì a Zagabria. In aereo raggiungono Skopje, in pullman Florìna.
Durante il tragitto, l’uomo che sembra più anziano ha voglia di cantare. Sussurra qualcosa. Forse ricorda quella strana canzone? Ad un tratto ripensa ai suoi film: “una sequenza ininterrotta contro la cultura della morte”.
E’ notte adesso e vorrebbe dormire. Nella sua stanza d’albergo – chissà perché – si siede per terra. Il suo cuore è stanco, troppa guerra negli occhi. Ma mentre si addormenta si domanda se correre, trascinando pesi, fra le macerie di una città sia una pena infernale adeguata per un attore.
E con un sorriso beffardo, Gian Maria Volontè varca il suo ponte verso l’Ignoto.

Quelle girate a Mostar, il giorno prima, sono le sue ultime immagini.

Fabrizio Gifuni

Categorie
bio

Franco Basaglia

BIO_hp(V4)

Franco Basaglia

Corpo a corpo

Amo il mio lavoro con tutte le mie forze.
Sono disposto a giocarmi tutto in un teatro. Il corpo a corpo con ogni singolo spettatore nello smarrimento del gioco rituale, i processi creativi e cognitivi offerti al centro della scena, la condivisione con la comunità di quello che qualcuno ha definito un atto sacrale di conoscenza attraverso cui cercare riscatto e resurrezione (Carlo Emilio Gadda in “Eros e Priapo”), tutto questo impagabile corto circuito di aspetti razionali e di pura irrazionalità, insomma, continua a scuotermi e a commuovermi.
Ma se in teatro il corpo a corpo è tutto nel simultaneo confronto con chi condivide con te l’esperienza del rito – ché di questo si tratta – in un film le cose cambiano. Il lavoro procede per differenti dinamiche temporali. Gli spettatori sono una presenza virtuale e rimandata nel tempo. Si rivelano come presenze reali a distanza di mesi, a volte dopo un anno, durante il quale la materia – un tempo incandescente – ha preso naturalmente a raffreddarsi. E, soprattutto, questo cosiddetto ‘pubblico’ prenderà parte, quasi nella sua interezza, alla visione del film in assenza del corpo vivo degli attori. Mancando o essendo in genere esigue le cosiddette ‘prove’, inoltre, l’incontro vero e proprio con il regista avviene sostanzialmente sul set, durante le riprese. Insomma non c’è dubbio che, nel caso di un film, il corpo a corpo dell’attore – soprattutto nella fase iniziale del proprio lavoro – sia con il personaggio. Quel personaggio – ispirato a un’esistenza reale o partorito dalla fantasia degli sceneggiatori – a cui il combinato disposto ‘scelta/casualità’ ti ha messo di fronte. Quell’altro da te in cui dover sprofondare.
Quando il regista e i produttori di “C’era una volta la città dei matti…” mi hanno ufficialmente proposto la possibilità di interpretare il protagonista di questo racconto, il volto di uno delle più grandi personalità della storia italiana del XX secolo ha iniziato lentamente a materializzarsi allo specchio. Il volto aperto, tranquillo, serio ma irriverente di Franco Basaglia.
Ricordo di essere andato, di primo acchito, a cercarlo in una primissima serie di immagini pescate nella ‘rete’. Fra le infinite possibilità offerte dalla ‘nuova età dell’uomo’ – l’era di internet – c’è anche quella di poter trovare, in pochi secondi, molteplici immagini, fisse o in movimento, mute o sonore, di una persona mediamente conosciuta. Se poi quel volto appartiene a un personaggio molto noto, in pochi istanti, un vasto catalogo di fotografie e filmati può squadernarsi davanti a tuoi occhi.
Le prime impressioni che mi attraversarono furono: un’eccessiva larghezza del suo viso rispetto al mio, una corporatura che mi sembrò subito più massiccia e un certo suo modo di muovere gli occhi. Un certo portamento dinoccolato me lo rendeva però alquanto familiare. E poi la voce. Una voce con cui instaurai da subito un rapporto fortemente empatico. Mi accade spesso. Spesso la risonanza di una voce mi permette di accedere più velocemente a una forma di conoscenza con un altro essere umano. Ma in questo caso quel timbro, unito a un modo tutto particolare di modellare la linea della voce sulla quella dei propri pensieri come fosse un abito aderente che ti permette di indovinarne le forme, mi risuonava dentro in maniera davvero decisa.
Lo sguardo e la voce mi sembrarono subito le cose più personali di Basaglia, quelle a cui puntare in questa nuova avventura dell’incantamento. Non possedevo ancora quella gran mole di informazioni a cui sarei pervenuto dopo qualche mese di intenso lavoro. Non sapevo ancora quanto quello sguardo – indissolubilmente legato alla sua straordinaria capacità di ascolto – fosse centrale nella prassi del suo lavoro. Ma ricordo di aver pensato subito che se fossi riuscito a conquistare un po’ di ‘quello sguardo’ qualcosa di importante sarebbe accaduto. Poi iniziarono le letture. Le mie iniziarono ad incollarsi alle sue: l’esistenzialismo di Sartre e Merleau Ponty, e poi Foucault, Binswanger, ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione e la fenomenologia di Husserl. Belle letture. Alcune già frequentate ai tempi del liceo o successivamente negli anni delle letture onnivore, altre da scoprire. Non lo faccio sempre, non sono così ossessivo. Ma questa volta, istintivamente, sentivo che era importante, per me che lo dovevo studiare, capire come e cosa avesse studiato lui. Chi fossero stati i suoi maestri e in che modo li avesse mangiati e digeriti per poterli attraversare.
Dopo circa un mese e mezzo di primo lavoro feci vedere a Marco Turco qualche breve registrazione fatta in casa con una telecamera: nei miei primi tentativi di ‘esser Franco’ mi ero inventato delle interviste simulate. Parlavo a ruota libera ad un immaginario interlocutore raccontando l’esperienza di Gorizia e lo shock del mio primo ingresso in un manicomio. Marco mi sembrò contento e colpito da questa prima tappa di avvicinamento. Parlammo a lungo. Marco appartiene a quella categoria di registi, non così diffusa, che ama gli attori. Li annusa, li riconosce, decide se dargli fiducia. Quando questo avviene, è il primo a godere di ogni sfumatura. Ti incoraggia con il suo entusiasmo. E un attore non può che essergliene grato.
Ci rivedemmo un bel po’ di tempo dopo per le prime prove trucco e costumi. Con Bruno Tamagnini cercammo di avvicinarci alla qualità dei suoi capelli, più mossi dei miei. Con Gabriella Trani cercammo di capire come poter leggere i passaggi di tempo sul suo viso, quanto accentuare con misura i segni del trascorrere degli anni (nel film si va dai trenta ai cinquantasei anni). Con Lia Morandini ci concentrammo su come si portavano con naturalezza i vestiti e le cravatte negli anni sessanta. Pensai allo scultore Alberto Giacometti che dipingeva e scolpiva normalmente nel suo atelier in giacca e cravatta come se indossasse i più comodi e consunti abiti da lavoro. E poi il passaggio agli anni settanta, ai maglioni, ai jeans, alle giacche e ai pantaloni di velluto pesante. Eravamo tutti d’accordo su un punto: gli anni sessanta andavano pensati in bianco e nero, gli anni settanta a colori.
Infine, o se si vuole in principio, arrivarono i giorni delle riprese. Il tempo in cui misurare, attimo dopo attimo, quanta parte di quell’indispensabile lavoro preliminare avrebbe resistito all’immersione nella vita vera delle singole scene e quanta parte, invece, si sarebbe rivelata nei fatti ‘sbagliata’ per eccesso o per difetto. Si trattava insomma di capire sul campo se tutto questo lavoro preliminare, quasi sempre ignorato e sconosciuto ai più, mi avesse condotto da qualche parte. Oppure no. Sono delicate le prime giornate su un set. C’è tanta gente, molti gli sconosciuti con cui finirai magari con lo stringere rapporti intensissimi nell’arco delle riprese, ma che poi perderai. In realtà non è così vero che il pubblico arriva dopo molti mesi. I primi spettatori, spesso i più esigenti, sono già qui. I loro sguardi, a volte esibiti a volte nascosti, hanno un peso e si fanno sentire. In questi primi giorni, inoltre, bisogna spesso munirsi di una particolare forma di coraggio: quella di abbandonare subito qualcosa del personaggio a cui si era già affezionati ma che si rivela d’un tratto innaturale, per accudire silenziosamente tutto ciò che diventa natura senza sforzo.
Le prime due settimane le passammo in un grande edificio sul lungomare di Ostia, dove girammo alcuni interni sia della prima che della seconda parte (alcune scene con Franca e le riunioni con i miei collaboratori a Gorizia, molti interni del S. Giovanni di Trieste, una parte del laboratorio arcobaleno). Poi arrivarono le settimane di Imola. I padiglioni abbandonati del vecchio ospedale psichiatrico della città servirono a raccontare la maledizione dell’ospedale di Gorizia e la sua trasformazione. Giornate indimenticabili e decisive perché alla troupe del film si unirono le ragazze e i ragazzi delle cooperative di Imola, che avevano vissuto o stavano ancora attraversando – nella realtà – momenti di disagio mentale, e che presero a riempire con incontenibile e a volte silenzioso entusiasmo e con strabiliante professionalità tutte le scene delle camerate e delle prime assemblee goriziane. E’ li, credo, che ha preso definitivamente ‘corpo’ il personaggio di Franco Basaglia. Per merito degli altri corpi e degli altri sguardi in cui mi impigliavo. Tutto si confuse. Tutti ci perdemmo. Unendo le nostre forze, scambiandoci consigli o semplicemente osservandoci da lontano, stavamo cercando di raccontare tutti insieme una delle storie più importanti del secolo appena trascorso. Quindi ci trasferimmo a Trieste. Esaurite, nelle prime giornate friulane, le riprese degli esterni dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, entrammo al S. Giovanni: in quella che appena qualche decennio fa era chiamata, dai cittadini di Trieste, ‘la città dei matti’ e ora è sede del Dipartimento di salute mentale. Temevo questo momento da quando erano iniziate le riprese. Paventavo l’incontro con tutte le persone che avevano conosciuto Basaglia, che ci avevano lavorato o erano stati suoi pazienti, e da cui temevo di sentirmi osservato. Mi aspettavo tutta una sfilza di “Io che l’ho conosciuto, però te digo…’. E invece avvenne tutto il contrario. Tutti mi chiamavano Franco. Ciascuno mi raccontava la propria storia. Che si fosse fra i viali, o nel mitico ristorante-cooperativa ‘Il posto delle fragole’, o nel grande roseto creato da Franco Rotelli, si respirava fiducia. Peppe Dell’Acqua fu il mio Virgilio. Che non ringrazierò mai abbastanza. Finite le riprese o quando non lavoravo, qualche volta lo accompagnavo nei suoi giri, nei centri di salute mentale, nelle microaree, in tutti quei luoghi resi possibili da una delle leggi più civili e più avanzate al mondo. Mi presentava a tutti come Franco Basaglia e tirava dritto senza dare molte spiegazioni. Grazie a lui potevo constatare con i miei occhi quali fossero gli esiti dell’unica rivoluzione portata a termine in questo Paese. Capire davvero cosa significa cercare di applicare quotidianamente la ‘Legge 180’ per riempirla concretamente di senso e come sia tutt’oggi facile disattenderla. Avevo il privilegio di attraversare, per qualche settimana, un territorio dove, ogni giorno, persone pazienti e preparatissime mettono a disposizione tutte le proprie energie per aiutare ‘i nostri fratelli più sfortunati’, in strutture pubbliche dove non esiste più, come diceva Basaglia, una psichiatria per i poveri e una psichiatria per i ricchi. Persone consapevoli che, una volta restituita dignità e diritti civili a persone per decenni private di tutto, la maggior parte del lavoro sia ancora da fare. Allo stesso tempo, però, stabilito un contatto con ‘il corpo’ di Franco e finchè l’incantamento perdurava, potevo anche guardare il presente, con un po’ dei suoi occhi. Ma quale presente si offre dunque oggi al nostro sguardo? Temo che, paradossalmente, e forse in controtendenza rispetto a quel che più spesso accade – quando si ha l’impressione che il sentire comune sia più avanti delle leggi che regolano la nostra comunità – in questo caso la netta sensazione sia quella di disporre oggi di uno strumento legislativo e culturale molto più avanzato rispetto alla sensibilità diffusa. Come si sia arrivati a questo credo sia un quesito a cui non sia difficile azzardare delle risposte. Venendo da alcuni decenni in cui le politiche di questo paese sono state sempre più spesso gestite e direzionate facendo leva sui temi della paura, della chiusura e della diffidenza, sul pensare innanzitutto a come difendersi dall’altro, se questo insomma è stato il laboratorio con cui sono state costruite sistematicamente le paure di una comunità, è ovvio che oggi quello stesso paese viva più sulla paura che sull’ascolto. Aver paura dell’altro significa aver paura di perdere quel poco o tanto che si ha; una paura che non conosce distinzioni di classe, che attraversa trasversalmente tutto il tessuto sociale, dai ceti più abbienti a quelli più disagiati. Perché la paura è un sentimento dall’innesco facile, un virus di rapido ed irrazionale contagio. Esattamente contro tutto questo, del resto, avevano combattuto Basaglia e i suoi collaboratori e contro tutto questo (oltre che contro uno sterminato elenco di altre questioni) sta oggi a noi, ogni giorno, continuare a combattere. Ecco perché un quotidiano nazionale (L’Unità del 9 febbraio 2010), nel dedicare tutta la sua prima pagina – fatto per’altro decisamente eccezionale – all’enorme successo di questo film, intitolava: “Lo sguardo che manca”. Ed ecco perché sono convinto che un piccolo film come questo – nato dalla passione e dalla determinazione di molti – contribuendo al recupero di un altro pezzo di memoria condivisa – rappresenti anch’esso ‘un atto sacrale di conoscenza’.

Fabrizio Gifuni

Categorie
bio

Giuseppe Bertolucci

BIO_hp(V4)

Giuseppe Bertolucci

Magari vi raggiungo dopo – Lavorare con Giuseppe Bertolucci

Da quando ho a che fare con Freud per motivi di teatro ho ripreso a sognare. La notte prima della proiezione del bel documentario di Stefano Consiglio (Evviva Giuseppe!) dedicato a Giuseppe Bertolucci – ospite della Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 – faccio questo sogno che annoto la mattina seguente.

Siamo al Lido. Cammino con Natalia Aspesi (incontrata nella realtà il giorno prima alla proiezione di un altro film e forse per questo rimasta impigliata nel mio sogno) andando verso la Sala dove verrà proiettato il film su di lui. Mi accorgo, mentre camminiamo a passo svelto, di un signore che sta un po’ nascosto dietro a un camion e che assomiglia in maniera impressionante a Giuseppe. Mi fermo per guardalo meglio, lasciando andare avanti la Aspesi. Capisco senza ombra di dubbio che si tratta di Giuseppe e penso, mentre inizio a parlargli, che è la prima volta in vita mia che vedo e parlo con un vero fantasma più vero del vero.
Gli dico: “Giuseppe… che meraviglia… stiamo tutti andando a vedere il film su di te… vieni anche tu?”. Lui schermendosi e ritraendosi di un passo, come faceva spesso in tante occasioni in cui non aveva piacere di farsi vedere, mi dice:
“Ma no, andate andate, mi imbarazzo a stare lì in sala con tutte le persone…”.
Poi, forse vedendo un po’ di delusione nei miei occhi, aggiunge: “dai su… magari vi raggiungo dopo”.

Ho conosciuto e lavorato per la prima volta con Giuseppe Bertolucci, intorno al 1998, alla radio. E più precisamente in quell’oasi – ancora protetta – di intelligenza che è Radio 3. A Luca Ronconi era stata affidata la direzione di un bellissimo progetto chiamato “Teatri alla radio” che vedeva coinvolti venti registi e duecentocinquanta attori, gli uni e gli altri di sorprendente varietà.
Sia i registi che gli attori provenivano infatti indifferentemente dal teatro o dal cinema, come Gianni Amelio che ho avuto modo di conoscere sempre in una di quelle occasioni. Si iniziava a rompere in quegli anni quell’idiotissima ‘separazione delle carriere’ – tutta italiana – che aveva diviso, per circa trent’anni, il mondo del teatro da quello del cinema e della televisione e si pensò, forse, che la radio potesse essere un ‘campo neutro’ adatto a quest’opera di pacificazione. Per Giuseppe, abituato da sempre ad ogni pratica di contaminazione, si trattava semplicemente di declinare il suo modo di lavorare in uno dei suoi tanti possibili fronti. Ci incontrammo dunque per la prima volta in Via Asiago dove mi propose di dar voce a uno dei figli di Arialda – personaggio che dà il titolo a un lavoro teatrale di Testori – interpretata da quel faro di luminosa bellezza e sfolgorante talento che è stata – e continuerà ad essere – Mariangela Melato (anche con lei il primo incontro).
Più o meno un anno e mezzo dopo, Giuseppe mi propose un altro ruolo in quello destinato a diventare il suo ultimo film di finzione (e ‘sulla finzione’) – L’Amore probabilmente – ospitato alla Mostra cinematografica di Venezia nel 2001.
Fu un viaggio bellissimo, spericolato ed entusiasmante, durante il quale iniziammo a conoscerci decisamente meglio e ad instaurare un rapporto che iniziava ad andare anche oltre le questioni lavorative. Giuseppe fece arrivare dall’Inghilterra dei primissimi modelli di minuscole telecamere digitali di cui, precorrendo i tempi, voleva saggiare vantaggi e opportunità, vere o presunte. Iniziò a riprendere ogni cosa fin dai giorni di preparazione. Le prove degli attori, le discussioni, le letture, le prove costumi. Iniziava lentamente a prendere forma nella sua testa un’idea imprevista, del tutto estranea al progetto originario, che diventerà poi il motore primo del film: costringere gli spettatori a saltare continuamente dalla realtà delle prove degli attori con il regista alla finzione delle scene ‘recitate’. Verità e finzione si sommavano progressivamente fino a confondere ogni cosa, aprendo la strada al terzo capitolo del film, quello sull’immaginazione. Come effetto di tutto ciò, durante le riprese, si liberava sul set una strana disordinata euforia che a Giuseppe piaceva da pazzi.
Dopo l’esperienza de L’Amore probabilmente – dal 2004 al 2010 – abbiamo passato molto tempo insieme, questa volta in teatro, per il progetto Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione. Questa volta fui io a chiedere a Giuseppe se voleva lavorare con me. Stavo elaborando da diverso tempo un’idea di spettacolo a partire da alcuni scritti di Pasolini e da un poemetto in versi dello scrittore e pittore milanese Giorgio Somalvico a cui si aggiunse, successivamente, il lavoro sui materiali che avevo raccolto da alcune opere di Gadda. Ne sono nati due spettacoli, per me decisivi, di cui Giuseppe ha curato la regia, dal titolo ‘Na specie de cadavere lunghissimo e L’Ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro. Oggi a distanza di anni mi capita di ripensare a questo progetto come a una sorta di personale Rito di passaggio. E’ in quest’ultimo lungo lavoro fatto di drammaturgie e forsennati gesti performativi che, forse, sono diventato adulto, ammesso che questo voglia dire qualcosa. Giuseppe mi ha accompagnato in questo viaggio facendomi da specchio e restituendomi, con una generosità rara e stupefacente, tutto l’entusiasmo, la fatica e le speranze di un complesso processo creativo in cui il lavoro sul corpo era al centro della scena.
Dei due spettacoli Giuseppe ha curato la regia anche delle riprese televisive, con particolare attenzione a ‘Na specie de cadavere lunghissimo. Mentre infatti nel lavoro su Gadda, anche su mia richiesta, le riprese, effettuate durante le repliche, riflettono abbastanza fedelmente il montaggio dello spettacolo, la versione televisiva del Pasolini – registrato a Bologna al di fuori delle repliche – sovverte e scardina spesso l’andamento teatrale, con invenzioni e soluzioni registiche formidabili, come nell’uso di un coro greco femminile affidato alla direzione di Giovanna Marini o nella frequente trasformazione dei corpi degli spettatori (a tratti tutti vecchi, a tratti tutti bambini) visti come in una visione allucinata del protagonista.
Questo in sintesi il nostro percorso: la radio, il cinema e il teatro fatti insieme. Negli anni seguenti Giuseppe ed io abbiamo continuato a parlare a lungo di spettacoli visti e di nuovi progetti da immaginare. Ma anche e molto di politica, di famiglie, di padri ingombranti, di Parma e di Roma, di ristoranti a cui eravamo affezionati. Abbiamo continuato a seguire la Juve in televisione. Oggi avremmo continuato a parlare delle giocate di Dybala che molto gli sarebbero piaciute o dei suicidi psicoanalitici della Sinistra che molto lo avrebbero intristito, senza troppo darlo a vedere. Perché Giuseppe si sforzava di dare alle cose il peso che queste meritavano.
Giuseppe Bertolucci è stato uno degli uomini e degli artisti più liberi e generosi che abbia mai conosciuto. Un artista che, oltre a ignorare completamente il significato di alcune parole come calcolo o convenienza, era in grado di esercitare il suo talento artistico e poetico, nei territori più svariati, senza farsi condizionare da nulla. Assumendosi, sempre e totalmente, oneri e onori (questi ultimi sempre troppo pochi) di questa sua personale ricerca di libertà.
Un vero intellettuale, se è ancora possibile attribuire a questo termine un significato semplice e concreto, sottraendolo allo svilimento del linguaggio di questi anni quando non all’insulto. Oltre che cineasta, documentarista e regista teatrale, pittore, poeta, scrittore e Presidente, per un lungo periodo, della Cineteca di Bologna.
Mettendo da parte l’affetto e l’amore infinito che gli porto, mi piacerebbe saper raccontare come lavorava Giuseppe sul set o in teatro. Ma non è facile definire a parole la rarissima qualità del suo sguardo e dell’attenzione con cui capovolgeva abitualmente l’ordine delle cose, senza esibire mai tecniche o trucchi da grande Maestro. Giuseppe si divertiva al contrario a far perdere spesso le tracce della sua presenza, diventando improvvisamente silenzioso, così da farti perdere con lui. Almeno nelle occasioni lavorative che mi hanno visto coinvolto, ho avuto l’impressione che il suo modo di vivere il set fosse molto diverso dal suo modo di vivere il teatro. Credo che il cinema gli risvegliasse più infanzia. Giuseppe era più sicuro e più sfrontato nel portare avanti le giornate di lavoro. O almeno così sembrava. Il cinema del resto obbedisce a regole più ferree, pretende un capitano che ogni giorno attraversi il mare per ricoverare ogni notte la sua nave in porto. E Giuseppe si divertiva a interpretare a suo modo quella parte senza mai esercitare quella fetta di potere che quel ruolo ti assegna nel tempo limitato della lavorazione di un film. Senza prendersi mai veramente sul serio.
In teatro invece lo vedevo molto più riflessivo e silenzioso, concentrato verso un unico punto, lo spazio scenico e il corpo dell’attore. Più sereno forse, più felice chissà. Credo si sentisse meno afflitto dalle responsabilità di un ruolo. Arrotando le sue erre diceva che in teatro si sentiva, come nel pugilato, ‘uno sparring partner’, un finto avversario complice dell’attore ingaggiato per un match di allenamento. Un allenatore che ti aiutava a indirizzare i pugni, a stare in guardia, attento all’importanza del gioco di gambe, per sorprendere meglio il pubblico nel corso delle future riprese del vero combattimento. Naturalmente faceva molto ma molto di più ma ogni volta che sorrideva sornione e gli sentivo ripetere quell’espressione avvertivo una totale e arrendevole sincerità. Che nasceva da una profonda ammirazione e da un vero rispetto per il mistero dell’attore in scena.
Sia al cinema, naturalmente, che in teatro Giuseppe riservava una grande attenzione alla luce. Aveva iniziato in teatro accendendo solo una lampadina, appesa a un filo, sulla testa di un giovanissimo Benigni nell’indimenticabile Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, monologo teatrale che si fece cinema poco tempo dopo nel suo primo film, Berlinguer ti voglio bene. Nei lavori a cui ho preso parte, due grandi direttori della fotografia – Fabio Cianchetti ne L’Amore probabilmente e Cesare Accetta nei due spettacoli su Pasolini e Gadda – sono stati i suoi interlocutori privilegiati nel suo magmatico e magnetico lavoro di regia. Giuseppe lavorava in un modo gentile, non conflittuale. Detestava gli scontri aperti, non alzava mai la voce, ma sapeva puntare i piedi come un mulo quando decideva di non mollare su un punto. L’uso del tempo era una delle sue armi migliori. Sapeva che il Tempo non va mai forzato e che bisogna avere il coraggio e la spudoratezza di prenderselo tutto, senza mai lasciarsi opprimere dall’ingannevole calendario del ‘dover essere’.
Sia sul set che sul palcoscenico Giuseppe non aveva mai in tasca una verità pronta da offrire all’attore ma piuttosto dieci dubbi, creativi e stimolanti, da sparpagliare abilmente sul suo cammino. Raramente ti offriva delle soluzioni preconfezionate o decise in partenza ma sempre ti costringeva a riflettere su un ventaglio di possibilità che lentamente ma inesorabilmente ti aiutavano a ricostruire un tuo personalissimo sentiero.
Un modo di lavorare, non so se un metodo, sicuramente più vicino alle pratiche dell’inconscio – che d’altronde ben conosceva – che non a quelle di un’ Io cosciente pronto ad imporsi. Giocava (o fingeva di giocare?) di rimessa, divertendosi di più a nascondersi dietro alle cose che faceva (così bene) che non a stampare in bella mostra il suo marchio di Autore.
Sempre un passo indietro.
Come nel sogno fatto a Venezia prima della proiezione del film che provava a mettere insieme alcuni pezzi della sua storia.

(Il testo farà parte di un libro di studi critici e testimonianze dedicate a Giuseppe Bertolucci di prossima pubblicazione)

Categorie
bio

Massimo Castri

BIO_hp(V4)

Massimo Castri

Quel salto che non dimentico

Credo che Massimo fosse davvero felice solo in teatro perché solo in quel luogo poteva abitare di nuovo, pienamente, la sua infanzia. E c’era molta infanzia nel suo teatro: figli scombinati, non cresciuti, feriti, male educati, in conflitto con i grandi ma soprattutto con se stessi. E poi adulti cialtroni, insensati, violenti o bugiardi. Un’umanità storta e inadeguata, alle prese con la vita.

Massimo Castri è stato uno dei miei maestri teatrali. Se Orazio Costa è stato il grande maestro del periodo Accademico, l’incontro con Castri è coinciso esattamente con il mio debutto in teatro. In un’Elettra di Euripide, nata per il Teatro Caio Melisso di Spoleto nel 1993 e prodotta dal Teatro Stabile dell’Umbria.
Uno spettacolo per tanti versi memorabile.
In primo luogo, dal mio punto di vista, era un debutto da far tremare le vene ai polsi. Iniziare con una tragedia, nel ruolo di Oreste, diretto da uno dei più grandi registi italiani, con una compagnia di grande esperienza (con Annamaria Guarnieri, Tonino Pierfederici e Galatea Ranzi fra gli altri) è uno di quei banchi di prova in cui si può anche soccombere. O sopravvivere molto fortificati dall’esperienza.
In secondo luogo, l’Elettra era soprattutto uno spettacolo bellissimo, di quella bellezza un po’ magica che solo certi spettacoli riescono a sfiorare. E lo dico, se mai è possibile, da spettatore ancor prima che da attore. C’erano alcuni istanti in cui riuscivo a guardare lo spettacolo – pur standoci dentro – e a commuovermi. Senza dubbio una delle regie più belle degli ultimi vent’anni del lavoro di Castri.

Di quella prima esperienza ricordo nitidamente le lunghe prove a Spoleto d’inverno e anche quelle del riallestimento dell’anno successivo a Bevagna, in quel piccolo gioiello che è il Teatro Torti, riaperto dopo tanti anni per quella occasione. Prove per me difficili. Avevo paura di deluderlo. Che si potesse pentire di aver puntato su un ragazzo sconosciuto, appena uscito dall’Accademia, per un ruolo così importante. Sudavo in un modo impressionante. Il calore degli abiti e delle luci, certo, le corse sul campo di terra con i solchi dell’aratro che mettevano a rischio le caviglie. Ma oltre a questo, una tensione interna che non mi lasciava mai e che cercavo di mettere al servizio del racconto.

A quello spettacolo seguì il grande progetto sulla Trilogia della villeggiatura di Goldoni, un lavoro importante, durato diverse stagioni, per il quale Castri aveva riunito una gran parte degli attori e delle attrici con cui si era trovato meglio negli ultimi anni. Dando vita a una compagnia, credo, abbastanza speciale, che metteva insieme diverse generazioni. Abbiamo lavorato insieme quattro anni. Poi, come a volte accadeva già allora, in un periodo di crisi ancora non conclamata, le incertezze produttive dei teatri stabili costrinsero la compagnia allo scioglimento.
Fu una vera “Trilogia”, perché a differenza di quella storica di Strehler o anche di quelle successive di Vacis o di Servillo, che avevano riunito tutta la Trilogia in un unico spettacolo, Massimo l’aveva voluta come Goldoni l’aveva pensata. Con i tre testi separati visti come tre capi d’opera, tre momenti linguisticamente distinti. Li portammo in scena, anno dopo anno, e poi li rappresentammo tutti di seguito, in tre settimane, soltanto alla “Pergola” di Firenze.

Castri è stato un grande artista e un grande intellettuale, una persona che è riuscita a mettere in connessione, in alcuni momenti, in maniera abbastanza miracolosa, la sua testa con la sua pancia. Quella di Massimo era un’anima contadina, un po’ come la sua Elettra, che viveva su un campo in mezzo ai sassi. Un uomo legato visceralmente agli umori e agli odori della sua terra, la Toscana, e allo stesso tempo un solido intellettuale. Un regista in grado di dare una lettura personalissima e spesso sorprendente di alcuni testi del Novecento teatrale. Un etrusco, si definiva – ma poi chissà com’erano gli etruschi – dal carattere ispido e spesso scontroso. A volte avevo l’impressione che ricercasse, in maniera un po’ disperata, un modo per ritrovare il piacere. E lo cercava in uno dei pochi luoghi in cui è ancora possibile condividere la felicità dei giochi. Per questo spesso e volentieri litigava furiosamente con i suoi compagni – che fossero attori, produttori, critici o addetti ai lavori – esattamente come poteva litigare un bambino, grande e grosso, a cui qualcuno voleva rovinare la festa. Una volta l’ho visto mentre spiava dal fondo della platea un suo spettacolo. Lo faceva sempre, dopo un certo numero di repliche, per vedere se gli attori stavano ‘sbracando’ troppo il suo spettacolo. Borbottava, commentava ad alta voce, non si dava pace. Una signora lo zittì bruscamente. Lui si è girato e con la massima serietà gli ha detto: ‘Ma che vuole, lei ?’. Poi – con lo stesso tono che ha il bambino che si è portato la palla da casa e se lo fanno arrabbiare se ne va e se la porta via – indicando la scena ha aggiunto: ‘Quello l’ho fatto io!’.

Massimo sapeva divertirsi e faceva divertire, facendo ammattire gli attori, come spesso accadeva e continua ad accadere in quel teatro, al tramonto, che è il grande teatro di regia del Novecento. Con Castri però – a differenza che con altri registi, forse più ‘sinceramente’ dittatori sulla scena – c’era sempre una specie di trappola di libertà. Durante le prove gli attori avevano spesso l’illusione di poter lavorare liberamente, improvvisando per ore. Fino a quando intuivi che il lavoro di improvvisazione terminava nel momento in cui avevi indovinato quello che lui aveva in testa. E questo, spesso, provocava attriti, malumori e qualche frustrazione negli attori. Ma al di là di questo – è lunga e irrinunciabile l’aneddotica legata ai grandi maestri di quella stagione teatrale, come Strehler o Ronconi – Castri era una sorgente continua di suggestioni, di voglia di fare, di sperimentare, di immergersi nel proprio lavoro. Difendeva il valore artigianale del teatro, era curioso delle tecniche dell’attore.

Sono certo che Castri si sentisse veramente felice solo mentre preparava gli spettacoli, e ancor più quando li immaginava. Quando iniziava a metterli in scena, alle prove, riusciva ancora a divertirsi molto. Ma quando lo spettacolo debuttava, subito rientrava in quella prigione di nevrosi in cui ha vissuto per tutta la vita, e che lo straziava, perché Massimo era una persona fondamentalmente sofferente. Quando usciva dalla sala e tornava alla luce, il suo sguardo sul mondo tornava ad essere uno sguardo ferito, lo sguardo di una persona che non ci stava bene, che non si riconosceva in quasi nulla di quello che vedeva intorno. Solo in teatro riusciva a dipanare il suo groviglio, a fare pace con il garbuglio dei suoi fantasmi.

Massimo Castri ha sopportato il sistema teatrale italiano con grande fatica e con grande fatica il sistema sopportava lui. Eppure sentiva che quello era il suo posto, quella la sua storia e come un bambino ostinato rivendicava il suo spazio all’interno di quel mondo, scontando spesso per il suo carattere ma soprattutto per la sua libertà, anche dei prezzi piuttosto alti.
Fra tutti i ricordi legati al mio lavoro con Castri uno più degli altri si è conservato intatto fino ad oggi. Quello legato al modo in cui Massimo aveva immaginato il mio ingresso in scena nell’Elettra. L’arrivo di Oreste. Il pubblico era seduto soltanto nei palchi e spiava la storia dall’alto perché tutta la platea era occupata da un enorme campo di terra arata con in cima un ulivo. Le luci illuminavano la storia dall’alba al tramonto. Io dovevo restare nascosto per diverso tempo prima di entrare in scena in un palco laterale di secondo ordine e, quando era il momento, saltare sul campo iniziando ad inseguire Elettra. Lo spettacolo iniziava e io me ne stavo un quarto d’ora al buio, accucciato, con il pubblico a fianco che non mi vedeva, in attesa di saltare. E sera dopo sera cercavo di non pensare fino all’ultimo istante a quello che stava per succedere. Era la mia sfida. Con un misto di paura e coraggio mi preparavo al salto, sonnecchiando fino all’ultimo secondo utile. Poi, con il cuore in gola, facevo volare il mio bagaglio, che mi precedeva in scena, e poi mi lanciavo.
Mi era toccato in sorte di saltarci dentro, allo spettacolo, in una specie di rito iniziatico che mi è servito molto, credo, a registrare con la sola memoria del corpo, come si può entrare in un altro spazio e in un altro tempo. Quello dell’immaginazione.
Sarò sempre grato a Massimo di avermi regalato quel salto.

Fabrizio Gifuni

Categorie
bio

Orazio Costa

BIO_hp(V4)

Orazio Costa

Orazio Costa, Amleto e il metodo mimico

Nel biennio 1992-93, Orazio Costa tenne in Accademia circa centosessanta lezioni, interamente dedicate all’Amleto di Shakespeare. Questo straordinario momento di studio faceva seguito a un altro ciclo di lezioni sul cosiddetto ‘metodo mimico’ tenuto da Pino Manzari e da Costa stesso l’anno precedente. Conservo gelosamente gli appunti di quelle giornate. Il testo su cui si lavorava era quello integrale, dal primo all’ultimo verso. Sette o otto traduzioni a confronto, più quella di Costa, da leggersi – come alcuni romanzi di Gadda – vocabolario alla mano. Tutti i ruoli erano a disposizione di tutti. Donne e uomini potevano cimentarsi indifferentemente su Amleto o Gertrude, Ofelia o Osric, Claudio o Polonio. Mi è capitato diverse volte durante gli ultimi quindici anni – sia che stessi lavorando a uno spettacolo sia che mi stessi preparando a un film – di sfogliare a caso quegli appunti, quasi scaramanticamente, per ricercarvi risposte a improvvisi quesiti, come nell’antico libro cinese dei Mutamenti, l’I Ching. “E’ l’aldilà che introduce il teatro, sono i fantasmi che guidano la nostra storia. L’uomo è sempre in colloquio con questi personaggi ideali, la cui presenza è sicura.. Il sipario in Amleto potrebbe aprirsi quando appare il Fantasma. Tutto sommato fino al suo apparire, in scena si realizza – sia pure con i dovuti incidenti – una ‘commediola militare’.” “La capacità di ripetere identico un suono o un rumore è un fatto di prodigiosa importanza. Ogni attore dovrebbe sapere esattamente quali siano le proprie condizioni audiometriche. Le attuali condizioni del nostro orecchio devono essere tenute sotto controllo e accuratamente esercitate. E il Coro è senz’altro uno dei modi più efficaci per farlo.” “S.Paolo diceva : ‘Che guerra in me, in cui vivono due uomini diversi’. Io dico, beato lui che ne aveva soltanto due..” “Non basta trovare la propria voce, è necessario volta per volta trovare la voce di un personaggio..” “Siete in una posizione privilegiata. Il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi. Gli attori sono punte ai margini dell’esistenza. Gli altri sono già morti e non sentono, per fortuna loro, la puzza che fanno..” “Non troverete molte persone che vi correggeranno ‘onestamente’ : siete soli e dovete sentire tutta la responsabilità di essere parte di questo tessuto esistente che è la lingua italiana.” “ ‘Colpi di scena’ e ‘nodi drammatici’ fanno si che un fenomeno possa essere compreso nella sua interezza : non c’è bisogno di conoscere tutte le gocce che compongono un temporale per ‘essere’ quel temporale. I caratteri distintivi di un fenomeno (una foglia può essere lanceolata, oblunga, a forma di cuore, a trifoglio, etc.), non devono allontanarci dal considerare che, per fortuna, i fenomeni in natura sono omogenei e si possono descrivere con alcuni ‘colpi di scena’ contestuali. Un albero si può descrivere con tre ‘colpi di scena’.” “In questo momento noi facciamo questo tipo di lavoro sul personaggio Amleto, ma il vantaggio che ne avrà chiunque un domani si trovi ad affrontare altri personaggi sarà quello di aver guadagnato ‘un fondo di Amleto’..” “Il timbro (o colore o metallo) è l’aspetto più personale di una voce, ed è una variabile che l’attore cura troppo poco. Nella vita di tutti i giorni diamo luogo continuamente ad un processo di mimesi spontaneo – anche dal punto di vista timbrico – rispetto alle persone con cui parliamo : a seconda della loro età, del sesso.. Cercate di ricordarvelo.” “C’è una splendida frase di Cicerone che dice : non esiste per l’uomo miglior teatro di quello che gli offre la propria coscienza.” ( Etc.etc..) Scorrendo quei taccuini, che hanno resistito a diversi traslochi, ogni volta mi domando quanti altri uomini, in Italia, abbiano dedicato con la stessa intensità tutta la loro vita al lavoro dell’attore. So con certezza che uno dei pensieri che hanno ossessionato Costa fino all’ultimo istante è stato come si potesse rappresentare il fantasma del padre di Amleto, in scena, senza scadere nel ridicolo. Chi ha avuto l’immensa fortuna di partecipare a quelle lezioni d’Arte sa che ha passato sicuramente molte più ore ad ascoltare la sua voce inconfondibile o a recitare in Coro tutto l’Amleto, di quante non ne abbia passate a provare una scena o un monologo, in questo o quel ruolo. Senza accorgersi, allora, che quella condizione di incomprensibile attesa a cui Costa spesso ci sottoponeva per ore e ore, era il modo migliore per infiammare la nostra fornace. E che quel morso tenuto sulla bocca del cavallo fino a farlo schiumare, era il modo migliore per prepararlo alla corsa. A una corsa lunga e insidiosa, in cui è facile perdersi o cadere sfiniti. Ci allenava, il maestro. Ci educava all’Ascolto, condizione primaria di qualsiasi prassi attoriale, teatrale o cinematografica. E ci insegnava al contempo, attraverso l’antica esperienza del Coro, che non si è mai ‘solisti’, anche quando si è soli in scena o si monologa. Precondizione di qualsiasi lavoro sul testo o sul personaggio, il risveglio dell’infanzia e del suo infallibile istinto mimico. Riavvicinarsi sempre di più a quell’innata capacità di diventare ‘qualsiasi cosa’ che hanno i bambini nei primissimi anni di vita. Un viaggio a ritroso alla ricerca di un’età dell’oro – il primo stadio dell’esistenza – in cui famiglia, scuola e convenzioni sociali, non avevano ancora avuto il tempo di chiudere la propria morsa infernale sui nostri corpi, interrompendo quel fiume di energia spudorata e benedetta. Che è mimica allo stato puro. ‘Scatenarsi’ di nuovo nel gioco, recuperarne le regole, smarrire il tempo e abbandonarsi. Costa si preoccupava del ‘nucleo originario’ dell’attività espressiva, del ri-avviamento all’Espressione. Stava all’attore scegliere successivamente la propria strada, che fosse la Fonè di Carmelo, la comicità di Panelli o il realismo mimetico di Volontè. In questo sta la grandezza della sua intuizione e l’unicità del suo insegnamento : il metodo mimico si antepone a qualsiasi altra tecnica, dandogli linfa e anima. Non può contrapporsi a nessun altra pedagogia perché, inevitabilmente, la precede.



Fabrizio Gifuni

Categorie
tv

Le cinque giornate di Milano

Le cinque giornate di Milano

Le cinque giornate di Milano - 2004

Regia di Carlo Lizzani

Con: Fabrizio Gifuni, Chiara Conti, Giuseppe Soleri, Ana Caterina Morariu, Daniela Poggi, Riccardo, Sammel, Giancarlo Giannini

Sceneggiatura: Fabio Campus, Giuseppe Badalucco, Franca De Angelis
Fotografia: Blasco Giurato
Montaggio: Massimo Quaglia
Scenografia: Enrico Tovaglieri
Costumi: Luigi Bonanno
Colonna sonora: Stelvio Cipriani