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Sole negli occhi-Fofi

Sole negli occhi

Sole negli occhi - 2000

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Delitto e castigo all’italiana

L’esordio di Porporati, scrittore e sceneggiatore formatosi con Gianni Amelio, è un film insolito. In Sole negli occhi la banalità dell’ambientazione, una riviera romagnola di fine o inizio stagione, fa da sfondo a un dramma che lascia volentieri il terreno della cronaca per quello della psicologia e della morale. Il modello evidente è Delitto e castigo ma stavolta Marco-Raskolnikov (Fabrizio Gifuni nella sua migliore interpretazione infine alle prese con un personaggio pieno e non facilmente caratterizzabile, che egli fa ostico e delicato, intenso e segreto) non uccide una vecchia usuraia bensì il padre. Questi è colpevole ai suoi occhi di chissà quali colpe nei suoi confronti, ma è poi semplicemente un padre che ha disatteso il suo compito e per questo ha procurato al figlio le sue immedicabili ferite. Viviamo in un mondo di padri che non sanno più essere padri, di adulti da commedia o da farsa, ignavi o ignobili, un mondo senza adulta responsabilità, e di giovani che nel loro bisogno di modelli plausibili e saldi annaspano e soffrono, s’intorbidano e si sbandano.
Marco uccide il padre e un giovane poliziotto (l’ottimo Mastandrea) saprà come portarlo dolcemente e lentamente alla confessione e dunque all’uscita dall’abulia morale verso un possibile riscatto. Bravo come sceneggiatore e direttore di attori, Porporati finisce per concedere un po’ troppo alla narrazione di tradizione, non raggiunge una dimensione di rigore all’altezza delle giuste ambizioni del suo film e la sua preoccupazione di un’ambientazione plausibile e di una scorrevolezza dell’azione lo devia alquanto dalla ricerca di un linguaggio proprio e forte, diverso e unico. Una scelta gli si imporrà: o più stile o più racconto (e con il racconto l’adeguamento, il successo?). Si vedrà. Per intanto salutiamo la speranza di un bravo autore e la certezza di un ottimo attore.

Goffredo Fofi, Panorama – 6 dicembre 2001

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Sole negli occhi

Sole negli occhi

Sole negli occhi - 2001

Regia di Andrea Porporati

Con: Fabrizio Gifuni, Valerio Mastandrea, Delia Boccardo, Emanuela Macchniz, Gianni Cavina, Margherita Cenni
Sceneggiatura: Andrea Porporati
Fotografia: Franco Lecca
Montaggio: Simona Paggi
Scenografia: Beatrice Scarpato
Costumi: Beatrice Scarpato
Colonna sonora: Andrea Guerra

“Consiglio un film italiano, Il sole negli occhi di Andrea Porporati. E’ girato molto bene e merita di essere visto per l’intepretazione del protagonista Fabrizio Gifuni: è un bravissimo attore che cresce giorno dopo giorno, film dopo film.” Pupi Avati, Il Messaggero –  30 novembre 2001

[…] Il minimalismo è qui una chiara fonte di segni, e corrisponde alla tranquillità di chi osserva, alla semplicità della sceneggiatura, che ha disposto le scene in modo da cogliere i segni “massimali” dei personaggi. Contemporaneamente il furore ed alla follia da tragedia che culminano nella scena del parricidio e la stasi ambigua in cui il movimento è prospettato dalle espressioni, dai primi piani del volto di Fabrizio Gifuni, attore grandissimo che diventa il segno cinematografico più sorprendente nelle messe in scena dei film italiani contemporanei. Andrea Caramanna, reVision

[…] Merito, non c’è alcun dubbio, degli attori: da un Fabrizio Gifuni alla prova della maturità ai sobri ed essenziali Mastandrea, Cavina, la sempre dolcissima Delia Boccardo. Aldo Fittante, FilmTv – 2 dicembre 2001

[…] Superiore ad ogni lode Fabrizio Gifuni, l’unico attore italiano della sua generazione. Stefano Selleri, Gli spietati

[…] Gifuni e Mastandrea sono molto bravi e il nome di Dostoevskij non è speso invano. Fabio Ferzetti, Il Messaggero

[…] Gifuni conferma così di essere un attore di cui non si potrà mai dire sufficientemente bene e che negli ultimi anni si è ritagliato un ruolo abbastanza scomodo: quello di mostrare personaggi di cui vorremmo dimenticarci e – come nel caso di Marco – uomini che è meglio consegnare all’oblio cartaceo dei quotidiani per farci vivere più tranquillamente.[…] SuperEva.it

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L’inverno-Ferzetti

L'inverno - 2001

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“Inverno”, storie di coppie e storie di vampiri

Storie di coppie, storie di vampiri. I vampirizzati: un giovane scrittore e la moglie gallerista (Fabrizio Gifuni e Valeria Bruni Tedeschi). I vampiri: un uomo maturo di soave arroganza (Yorgo Voyagis) e la sua consorte dall’aria sventata (Valeria Golino) che in realtà è una terribile “acqua cheta”, pronta a introdursi con destrezza nelle crepe degli altrui ménage. Aggiungete uno psichiatra confuso (Alberto Di Stasio), un manoscritto che passa di mano in mano, un doppio tentativo di seduzione che non andrà in porto ma si trasformerà in furto letterario, e capirete che con L’inverno Nina Di Majo, classe 1975, rischia molto. Passerà per presuntuosa, la confronteranno agli Antonioni e ai losey-Pinter anni 60, si enfatizzeranno incongruenze e artificiosità. Però con tutti i suoi tic, le esagerazioni, la ricercata sgradevolezza, L’inverno resta un raro esempio di cinema di ricerca, di inconsueta e brutale aderenza psicologica. E la Di Majo sa spingere i personaggi (e gli attori, tutti notevoli e davvero senza rete) su terreni infidi e molto interessanti a volerli guardare da vicino. Sarà mica anche lei un po’ vampiro?

Fabio Ferzetti, Il Messaggero – 8 febbraio 2002

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L’inverno-Zonta

L'inverno - 2001

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Nina Di Majo e le sue ragazze nell’inferno della borghesia

L’inverno di Nina Di Majo è un film importante e bello, lo diciamo subito. Si fa varco con difficoltà e con la sola forza delle proprie idee. È un film piccolo, ma straordinario, di una giovane regista, già autrice, che rifiuta la logica della comunicazione a favore di un’idea di cinema sperimentale, che non crede nel suo precoce invecchiamento e che sente, con urgenza, di dover ancora dire qualcosa, dire la sua. Di Majo ci sta dicendo qualcosa. E lo fa con quella ostentata e, a volte, fastidiosa sicurezza che contraddistingue chi, precocemente, arriva a delle acquisizioni che nascono dal vissuto personale e che presto si trasformano in idea del mondo. Il mondo della Di Majo è nel senso del catastrofismo, è avvolto in un perenne inverno, come il titolo di quest’opera seconda. L’inverno, lascia intendere. È l’inverno dei sentimenti ma sembra l’inferno dell’umanità. Quella borghese, apatica e arricchita che vive, come le coppie del film, in uno dei tanti stabili di quell’archeologia industriale che una volta operava produttivamente e che ora, dismessa ai bordi di un fiume Aniene, arreda le stanze vuote e fredde di intellettuali, scrittori, galleristi e artisti. Sono gli ambienti entro cui viene rappresentata questa tragedia raffreddata e, allo stesso tempo, pulsionale che vede affacciarsi, sulle opposte rive dello stesso fiume, le esistenze di due coppie di giovani trentacinquenni che precocemente hanno fatto esperienza di una certa realtà, che velocemente l’hanno metabolizzata restando, ora, muti e soli nel tentativo goffo di comunicare ciò che non si ha da dire. Come Leo, scrittore in crisi giunto al culmine di una “onesta carriera” senza aver detto mai una volta la verità e che cerca nella semplicità degli oggetti in disuso una via di fuga alle sue ossessioni, rincalzate dalle nevrosi della moglie Marta, gallerista stridula che cerca disperatamente un aggancio coniugale per non sparire dietro gli sfondi vuoti di quei quadri dell’arte contemporanea che colleziona nella sua galleria. Come Anna, donna sola e senza figli, sposata con un greco maturo e adulto che la tratta con pietosa accondiscendenza come fosse una bambina psicolabile. Sono personaggi la limite che si trasformano nella caricatura di se stessi, dei loro tic, delle loro idiosincrasie. Fotografati in un’atmosfera quasi irreale, esseri congelati in celle frigorifero, che fanno di tutto per scrostarsi dalla patina di ghiaccio e compiere movimenti in libertà. Ma la libertà è loro negata, proprio perché vittime e prigionieri di quella libertà assoluta tanto ricercata che tutto permette e niente dà. In questo senso L’inverno porta tanto in là l’analisi del rapporto uomo-donna in una società anonima da sembrare un film di fantascienza. La Di Majo guarda il suo mondo in vitro come uno scienziato dal suo microscopio. Un’entomologa del sentimento, un chirurgo che taglia la superficie per studiare la “fisica” dei rapporti e la meccanica del loro deterioramento. Più che a Antonioni o Bergman, come alcuni hanno osservato, ricorda da una parte il sottile sguardo di Wong Kar Wai e dall’altra quello spietato e freddo di Ballare e di Cronenberg.

Dario Zonta, L’Unità – 8 febbraio 2002

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L’inverno-Fofi

L'inverno - 2001

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Belli, puliti e cattivi

E’ singolare e importante che escano nelle sale, in queste settimane, quattro film italiani decisamente controcorrente rispetto alla logica dominante, che prevede solo pellicole che consolano, che nascondono, che mentono, che divertono e che insomma compiacciono il gusto di un pubblico che non vuole pensare o, al più, vuole pensare secondo l’interesse e il padrone.
Sono opera di un “vecchio” Marco Bellocchio (L’ora di religione, il suo miglior film da anni e anni, che andrà a Cannes); di un giovane, Marco Bechis (Figli/Hijos); e di due giovanissimi, Giovanni Maderna (L’amore imperfetto) e Nina Di Majo (L’inverno, che va a Berlino). Non metto nel conto il film di Silvio Soldini (Brucio nel vento) di indecisione formale e forse anche morale non insolita.
Unisce i quattro la ricerca di un grande rigore di stile e una grande durezza di sguardo.
Nell’Italia caciarona e imprecisa in tutto, mi pare una rara cosa. Con L’inverno, Nina Di Majo non parla della Napoli borghese da cui proviene, ma di intellettuali-artisti che vivono a Roma le loro frustrazioni e nevrosi, la loro modesta cattiveria causata da una solitudine che è anche d’epoca e che finisce per essere dolorosamente (e inutilmente) autodistruttiva.
L’inverno può far pensare all’Antonioni de L’eclisse, a certi registi di Formosa. Il gioco di massacro tra pochi personaggi “a porte chiuse” è servito da un’ottima interpretazione (Bruni Tedeschi, Golino, Gifuni), da un’ottima fotografia (Cesare Accetta), e se qualche carenza la presenta è nella sceneggiatura, ma è positivo che Di Majo, come Maderna, faccia da sé, anche rischiando, perché gli sceneggiatori italiani sono l’appendice più diretta dei produttori, sono i mediatori ossessionati dalla comunicazione.
Con i suoi personaggi la regista ha qualche complicità, poche, perché ne conosce la condizione, le normali viltà, i claustrofobici dolori. Personaggi che nello stesso tempo, come tanti di noi, sono condannati all’immaturità, e sono anagraficamente, irresponsabilmente adulti.

Goffredo Fofi, Panorama – 14 febbraio 2002

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L’inverno

L'inverno - 2002

Regia di Nina Di Majo

Con: Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Yorgo Voayagis, Paolo Paoloni

Sceneggiatura: Nina Di Majo
Fotografia: Cesare Accetta
Montaggio: Giogiò Franchini
Scenografia: Gianni Silvestri
Costumi: Grazia Colombini

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La meglio gioventù-pressbook

La meglio gioventù - 2002

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Intervista con Fabrizio Gifuni – Carlo Tommasi

… prima di essere scelto da Marco Tullio Giordana per il ruolo di Carlo, avevo interpretato, nell’ultimo anno, personaggi molto contrastati: dal parricida de Il sole negli occhi di Andrea Porporati, allo scrittore attraversato da una forte crisi depressiva de L’inverno di Nina Di Majo. Il personaggio di Carlo, quindi, costituiva una specie di ritorno alla luce. Borghese nell’accezione migliore del termine, Carlo è un uomo molto solido, concreto, ma nello stesso tempo generoso, aperto, con un grande senso della famiglia e dell’amicizia. Raccontato soprattutto dalle sue relazioni con gli altri. In questo, il preesistente rapporto di amicizia e di collaborazione artistica con alcuni dei protagonisti del film (Luigi Lo Cascio, Alessio Boni e Sonia Bergamasco) è stato per me un elemento prezioso. Carlo diventa per i genitori di Nicola e Matteo quasi un terzo figlio maschio della famiglia; ne verrà addirittura inglobato sposando la più giovane dei carati. Brillante studente di economia, sceglie di consolidare la sua formazione in Inghilterra e diventerà al suo ritorno un economista illuminato dell’Ufficio Studi di Bankitalia.
Analogamente agli altri personaggi, mi sono posto il problema di come rendere il passaggio del tempo, quasi quarant’anni di vita. Prima d’iniziare il lavoro, oltre alle singole letture e ai materiali di documentazione, sicuramente mi è stato molto utile rivedere La notte della Repubblica, la lunga serie di Sergio Zavoli, grande esempio di televisione e indagine storica, che inquadrava il fenomeno del terrorismo in un discorso molto più ampio, proprio come La meglio gioventù. In Un amore di Gianluca Tavarelli avevo già interpretato, attraverso dodici momenti di vita di una coppia, dall’università fino ai quarant’anni, un ampio arco temporale. Ne La meglio gioventù il percorso di Carlo è stato ancora più lungo e complesso. Come raccontare il nostro passaggio dalla giovinezza all’età adulta, cosa si perde, cosa si conserva e cosa si acquista? Lavorare su questi temi coi mezzi artigianali dell’attore è molto affascinante. Come quando rivedi le vecchie foto di famiglia e scorgi cos’è cambiato nel corpo, nello sguardo. Ho cercato inoltre di documentarmi su quali erano stati i grandi cambiamenti del sistema economico e industriale di questi trent’anni per capire come Carlo avrebbe potuto reagire. Ne La meglio gioventù questi grandi eventi passano tangenzialmente, non sono mai spiegati in maniera didascalica. La Storia entra nella vita privata delle persone con molta delicatezza. Una delle cose belle del film è come viene raccontata l’amicizia tra persone di strati sociali molto diversi. Carlo, alla festa per il suo matrimonio, non vuole raccontare bugie all’amico operaio messo in cassa integrazione dalla Fiat, ma allo stesso tempo soffre perché sa benissimo che l’amico sarà una delle vittime della ristrutturazione industriale. Diventato un obiettivo del terrorismo, Carlo non vuole sradicare la sua famiglia e decide di restare in Italia malgrado i rischi che questo comporta.
Non è stato facile interpretare un personaggio che ha così tanta fiducia nel proprio lavoro e nel proprio Paese conoscendo bene il nostro presente storico. Un presente altamente drammatico e che molti di noi vivono con profonda angoscia.

dal pressbook per il 56° Festival di Cannes – 2003

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La meglio gioventù-Escobar

La meglio gioventù - 2002

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Come salvarsi dalla volgarità

Iniziata con un’attesa di futuro, la storia di Nicola (Luigi Lo Cascio), Matteo (Alessio Boni), Francesca (Valentina Carnelutti), Giovanna (Lidia Vitale), della loro madre Adriana (Adriana Asti, perfetta) e dei molti altri si chiude sulla speranza di bellezza. In mezzo, tra i vent’anni dei fratelli Carati e i vent’anni di Andrea (Riccardo Scamarcio), figlio di Matteo, ci sono la storia del nostro Paese e la sua cronaca, le sue emozioni, la sua forza e le sue paure, le sue ignobiltà e le sue generosità.
Nella prima parte del film di Marco Tullio Giordana (vedi “Il Sole 24 Ore” di domenica scorsa) ci sono, per quanto solo accennati, il coraggio e l’intelligenza di chi ricostruì l’Italia dopo i disastri del fascismo e della guerra. C’è la ribellione dei loro figli e figlie. C’è la generosità di chi, come Nicola, negli anni ’70 provò a realizzare il sogno di liberare il mondo dalla chiusura morale e dall’ingiustizia, insieme con la presunzione criminale e stupida di chi invece, come Giulia (Sonia Bergamasco), s’immaginò padrone della vita e della morte, sostituendo quel sogno con un incubo.
Poi, nella seconda parte di La meglio gioventù (Italia 2003, 366′ complessivi), ci sono la trasformazione economica e sociale degli anni ’80, il dilagare della corruzione, l’attacco della mafia allo Stato e alla magistratura. E c’è, soprattutto, un senso di disorientamento e di vuoto, come se, perduta quella dei padri e delle madri, l’Italia dei figli, la nostra Italia, rischiasse di sprofondare nella volgarità, di tradire la sua vocazione storica alla bellezza, appunto.
Tutto questo, d’altra parte, è tenuto sullo sfondo dalla sceneggiatura intelligente e raffinata di Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Qualche volta la storia e la cronaca politica sono alluse, magari solo accennate dalle parole lontane di un telegiornale, come nel caso del processo Moro o in quello del primo emergere d’un movimento fondato sulla paura e sull’odio. Qualche volta, al contrario, entrano nelle vicende personali con invadenza tragica, come nel caso dell’assassinio e dei funerali di Giovanni Falcone. Mai, tuttavia, si sovrappongono alle storie dei singoli e ai loro sentimenti. E’ questo che fa di La meglio gioventù non tanto lo specchio di una generazione quanto un “frammento” della sua memoria, un frammento sempre verosimile e spesso anche tenero.
Certo tenero è lo sguardo del cinema su Matteo, sulla sua esposizione indifesa alla vita, sul sio desiderio radicale e irrealizzabile di purezza e trasparenza. E’ inadatto alla vita, Matteo. E’ incapace di accettarne le “imperfezioni”, che ne sono poi il gusto più forte. In fondo, Matteo è l’immagine speculare di Giulia: tutti e due rigidi, tutti e due decisi a distruggere la vita così com’è in nome d’una sua immagine ideale e astratta. La differenza, terribile e tragica, è che lui distrugge solo la propria, mentre lei cerca una via d’uscita nella distruzione delle vite degli altri.
Ben diversa è la disponibilità di Nicola a imparare dall’esperienza, ad accettarne la casualità. Anche Nicola vive una tensione morale, e forse un’utopia. Ma le vive ben dentro le cose, i rapporti, gli affetti. Per questo è sempre pronto a mettersi in gioco, a rischiar se stesso, a spendersi nella serietà di un progetto, che si tratti della sua professione di psichiatra o che si tratti della responsabilità e delle tenerezza (ancora) dovute al futuro della figlia.
Per tutti, d’altra parte, vale la trasparenza morale, l’abitudine appunto morale di non fuggir via da se stessi. Anche Giulia, persino Giulia ha questa trasparenza. Non rifiuta la propria responsabilità, non si concede attenuanti. E lo fa con una durezza che è la stessa con cui sarebbe pronta a uccidere.
Insomma, è un’Italia “bella”, nelle sue luci e nelle sue ombre, e addirittura nel suo buoi, quella inventata e raccontata dal cinema/memoria di Giordana, Petraglia e Rulli. E’ un’Italia che forse non esiste, ma che alcuni, pochi o molti, amano sognare e sperare. Ed è comunque la stessa che, da banchiere, sogna e spera carlo (Fabrizio Gifuni): immediata e diretta, responsabile e seria. E’ un’Italia, ancora, che ha il coraggio di mantenere fede a se stessa: allo splendore della sua terra, ai colori del suo mare, alla grandezza della sua arte.
E qui, mentre si chiude La meglio gioventù, torna alla mente I cento passi dello stesso Giordana. “La bellezza, questo di dovrebbe insegnare alla gente”, così dice peppino Impastato in quel bel film del 2000: “La bellezza contro la cupidigia, la bellezza contro l’omertà, la bellezza contro la rassegnazione, la bellezza contro la paura…”. Alla fine: la bellezza contro la volgarità, e per amore del nostro futuro.

Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore – 6 luglio 2003

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La meglio gioventù-Rota

La meglio gioventù - 2002

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I caratteri di una nazione

Dal Festival di Cannes, gli interpreti parlano dei loro personaggi

Fabrizio Gifuni (Carlo Tommasi)

Con alcuni degli attori di questo film ho condiviso con chi cinque, con chi dieci, con chi addirittura quindici anni di vita: è stato un elemento prezioso per dare quel senso di amicizia e confidenza assoluta che traspare dallo schermo. Con Luigi e Alessio ci conosciamo da quando avevamo vent’anni. Abbiamo iniziato a condividere insieme l’avventura di questo lavoro, le case, le serate, le interminabili discussioni. Non so se questo ti aiuta a riprodurre meglio uno stato d’animo. Sicuramente ci sono delle cose che sono già nei corpi, la naturalezza è come un filo rosso che non si interrompe mai. Anch’io rivedendo il film sono stato colpito dalle parti di grande amicizia. Sia quando siamo giovani, sia nel finale al casale. Le parti da cinquantenne sono una variabile sconosciuta e rivedersi è molto emozionante. Perché è un’ipotesi plausibile su come potresti davvero diventare. In fondo Carlo non perde mai la luminosità della giovinezza ma la mette al servizio delle istituzioni. Di questo personaggio mi ha conquistato la fiducia nel proprio Paese. E sinceramente in questo momento non è tanto facile da recitare. Sicuramente tra le fonti di ispirazione del personaggio c’è anche Ambrosoli. Una consapevolezza e tranquillità che non crollano. Poi della parte adulta mi piace, di Carlo, il senso di accoglienza verso una famiglia allargata, che si è stratificata nel tempo e che è rappresentata da questo casale che viene ristrutturato e aperto a tutti. Giordana è stato grandissimo perché gli attori hanno una consapevolezza relativa di quello che sarà il racconto, ognuno conosce il suo percorso. Cerchi di capire come costruirlo, ma Marco Tullio ha una padronanza assoluta degli ingredienti, conosce ogni tessera del puzzle e dove deve andare. Il titolo del film ovviamente viene dalla Meglio gioventù pasoliniana, la raccolta di liriche rivolte alla luminosità e all’utopia di un mondo contadino morente, ma anche dalla Nuova forma della meglio gioventù, l’apocalittica e nera riscrittura romana di quelle poesie. Il miracolo compiuto da Rulli, Petraglia e Giordana e essere riusciti a fondere insieme queste due opere.

a cura di Massimo Rota – Duel, giugno-luglio

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La meglio gioventù-Alberione

La meglio gioventù - 2002

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Gioventù amore e rabbia
Premiato al “Certain regard” di Cannes, il film di Giordana dimostra come sia possibile fare tv e ritrovare il cinema civile.

Parte dal centro – dalla capitale – il viaggio del film di Giordana, che poi si muove fuori e dentro i confini della madre patria a dimostrazione di una vocazione centrifuga, potenzialmente sbandata o forse solo anelante alla libertà, del racconto e dei personaggi.
Parte da uno scorcio romano (che torna tre volte nel film), un coacervo di architetture e di epoche storiche che costituisce già un’indicazione: come se la storia fosse fatta di accostamenti, integrazioni, ampliamenti più che di cancellazioni, abrasioni e rotture. Parte da un tempo sospeso, da un vuoto – la “vacanza” estiva del 1966 – per attraversare quasi quattro decenni di storia italiana, anni pieni e pesanti di fatti, persone, avvenimenti, questioni private e vicende pubbliche.
Nasce così il corso fluviale della Meglio gioventù. Con una forma che è già sostanza di un discorso storico: una narrazione distesa nel tempo e nello spazio, uno scorrimento a tratti lento e a volte trascinante, con personaggi che sono affluenti impetuosi o sotterranee correnti carsiche… Il fatto stesso che al cinema esca diviso in due parti – un primo atto che va dal 1966 al 1982; un secondo dall’82 a oggi – sembra un riverbero della natura stessa dei personaggi («Chi non è diviso in due? Tu sei tutto poliziotto? lo sono tutto medico?»). Forse della natura stessa degli italiani.

La meglio gioventù è un heimatfilm nostrano che, attraverso la vita di due fratelli, dei loro consanguinei e amici, tenta il bilancio di una generazione che non è stata solo di rivoltosi e terroristi, come poteva sembrare qualche tempo fa, e nemmeno, come a volte sembra oggi, di figli di puttana che prima o poi sono saliti sul carro del vincitore di turno. Questa “meglio gioventù” è una generazione – ma forse si potrebbe dire un Paese – che ha ospitato al suo interno speranze e contraddizioni, spinte in avanti e bruschi stop, docce gelate e brucianti passioni, la lotta e l’impegno, il disordine e il bisogno di regole. Una generazione che voleva tutto ma che ha trovato o perduto molte cose per caso. Rulli, Petraglia e Giordana lo sanno perché è proprio dei migliori anni della loro vita che si sta parlando. Ma non hanno un’ambizione sociologica o epocale: scelgono di guardare agli individui, alle persone o al massimo ai gruppi che conoscono meglio. La “meglio gioventù” evocata dalla canzone era quella delle persone chiamate a fare la guerra e perciò destinate ad andare “sottoterra”; qui, in un senso più ampio, esprime la condizione di chi si assume delle responsabilità, fa delle scelte per governare la propria vita o aiutare quella degli altri Con il rischio di non farcela o di finire travolto dagli eventi.

«L’Italia è un paese bello e inutile… Un paese da distruggere» dice il professore universitario all’inizio del film. Dopo circa sei ore, sapremo che «tutto è veramente bello» e che è valsa la pena di vivere, lottare, amare, cercare di capire e di migliorare il mondo.
La meglio gioventù, al di là del titolo e di un riferimento puntuale alle posizioni di Pasolini sugli scontri tra contestatori e polizia, non è un film pasoliniano: non lo è nella messinscena e non lo è negli assunti ideologici. Non ne ha la religiosità e la fisicità, anche se ne condivide la stessa matrice civile (secondo quella linea minoritaria della cultura italiana che comprende nomi come Dante, Foscolo, Leopardi e, appunto, Pasolini), ma non è un film pessimista, esacerbato e sconsolato come l’Italia aveva fatto diventare Pasolini. Al contrario: il film di Giordana gronda dolore ma distilla speranza, contiene il tragico (nella figura di Matteo) ma subordina tutto al suo impianto “progressista”, e cioè a un’ipotesi riformista e migliorativa della società e della vita. Addirittura prevede la conservazione di un’amicizia interclassista che resiste agli anni e all’acuirsi delle diversità tra le persone: segno di una fratellanza possibile degli italiani in nome di una storia comune e condivisa (siccome gli italiani si scoprono fratelli solo in occasione dei mondiali di calcio, i nostri eroi non esitano a tifare Corea per smontare la più superficiale delle esibizioni di italianità).

E’ un film talmente dominato dalla positività da riuscire nell’impresa di fondere cinema e televisione. Infatti non è per nulla “antitelevisivo” come viene detto da coloro che ritengono impossibile l’accostamento qualità e tv. La meglio gioventù è una grande lezione su come si potrebbe usare al meglio il mezzo televisivo, i suoi codici linguistici, le sue tipiche strutture narrative. La sceneggiatura non ha paura di richiamare la tradizione del feuilleton e magari anche qualche topos da telenovela (come quel figlio di un’unica notte d’amore che a un certo punto sbuca fuori…; ma va benissimo, perché la sceneggiatura ha già previsto anche una possibile replica a chi criticasse una scelta del genere, quando dice: «le cose brutte ci sembrano naturali, le cose belle facciamo tanta fatica a crederle»).

Soprattutto è un film di immagini che cercano di “cogliere il mistero” dell’esistenza individuale, dei vissuti relazionali e del tessuto storico che ogni vita e ogni scelta alimenta. Forse non è sempre riuscito l’invecchiamento di alcuni personaggi, ma quel che davvero conta – la loro anima – balza in tutta evidenza sullo schermo: lo “spirto guerrier” di Matteo o la “simpatia” di Nicola sono impresse nei volti di Alessio Boni e Luigi Lo Cascio (ed è un discorso che vale per l’intero cast, uno dei migliori visti in un film italiano degli ultimi vent’anni). E’ anche grazie a questi attori che La meglio gioventù diventa uno straordinario esempio di cinema glocal: una storia d’Italia inedita e preziosa (davvero a molti “carati”), ma anche il romanzo di formazione di chiunque abbia capito che la storia, comunque e dovunque, siamo noi.

Ezio Alberione, Duel – giugno/luglio 2003