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Non fate troppi pettegolezzi

“Non fate troppi pettegolezzi”. Omaggio a Cesare Pavese, Fabrizio Gifuni e Cesare Picco - Foto di Momy Manetti

“Non fate troppi pettegolezzi”. Omaggio a Cesare Pavese - 2008

Un’idea di Fabrizio Gifuni

Voce: Fabrizio Gifuni

Pianoforte: Cesare Picco

Drammaturgia originale di Fabrizio Gifuni

Musiche originali di Cesare Picco

Produzione PARMACONCERTI

Come per gli spettacoli su Gadda e Pasolini, un testo originale nato da un personale lavoro di drammaturgia su materiali pensati dal poeta come parola scritta non destinata alla scena. La spina dorsale di questo corpo di scrittura è costituita da un esilarante e malinconico racconto giovanile (“Il blues delle cicche”), agito in prima persona da Masino, giornalista e chansonnier, sfuggente alter ego dello stesso Pavese; arti vitali di questo nuovo corpo poetico, alcune fra le sue liriche più intense, oltre a diversi brani dei suoi diari privati. Il viaggio ci conduce – attraverso il suono della musica e delle parole – fino al termine prematuro della sua vita. Il titolo dello spettacolo -“Non fate troppi pettegolezzi” – fa riferimento alle ultime parole annotate dal poeta su una pagina bianca di un suo libro (“Dialoghi con Leucò”), prima di togliersi la vita a Torino, in una calda notte dell’agosto 1950. Lo spettacolo – in forma di concerto – si avvale della preziosa collaborazione di uno dei più bravi ed affermati pianisti delle ultime generazioni: Cesare Picco. Pensando al ‘non rapporto’ di Pavese con la musica colta e alla sua passione per la ‘canzonetta’ popolare, Picco intreccia il suo originale ordito musicale alle parole del poeta.
Fabrizio Gifuni

Testi di Cesare Pavese:

Il blues delle cicche (da “Ciao Masino”)
Alle finestre di un 4 piano (da “Poesie Giovanili”)
Sono andato una sera di dicembre (da “Rinascita”)
I due corpi si scuotono avvinghiati (da “Poesie Giovanili”)
Oh ballerine dalle coscie nude (da “Rinascita”)
Disciplina antica (da “Lavorare Stanca”)
Tutta la perfezione (da “Le febbri di decadenza”)
A sol, di saxofono (da “Blues della grande città”)
No, io son nato per l’inverno (da “Estravaganti scelte”)
Questa città mi ha vinto come un mare (da “Blues della grande città”)

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Trasumanar

Trasumanar

Trasumanar... (da Dante a Pasolini) - 2010 reading

con Fabrizio Gifuni

Drammaturgia: Stefano Massini

Prima lettura in occasione del Premio Francesco Mazzoni 2010 assegnato a Fabrizio Gifuni, dalla Società degli Studi Danteschi – Firenze, Teatro della Pergola 24 marzo del 2010

Da Dante:

Inferno, canto I
Paradiso, Canto I

Da Pasolini:

Ali dagli occhi azzurri (La mortaccia)
Divina mimesis (canto I seconda parte)
Trasumanar e organizzar (La poesia della tradizione)

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Premio Mazzoni 2010

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Premi e riconoscimenti

Premio Francesco Mazzoni 2010 assegnato a Fabrizio Gifuni, dalla Società degli Studi Danteschi - Firenze, Teatro della Pergola 24 marzo del 2010

“Nonostante l’apparente contraddizione con l’età anagrafica del premiato questo riconoscimento a Fabrizio Gifuni è da intendersi a tutti gli effetti come un vero e proprio premio alla carriera non soltanto dunque un premio alla sua oggettiva e non comune statura di interprete ma anche e soprattutto all’importanza delle sue scelte artistiche, alla coerenza del percorso, alla lucida capacità di preservare il proprio valore al riparo da facili scorciatoie e spicciole tentazioni di show business.

Fabrizio Gifuni meritoriamente persegue da anni un itinerario di singole tappe in continuo crescendo inanellando una dopo l’altra, e con fatica, una sorprendente rassegna di sfide vinte sia che si tratti di spettacoli teatrali sia che si avventuri negli insidiosi mari aperti del cinema e della televisione. E se è vero che la sua grande, attuale popolarità nasce in primo luogo da quell’affresco capolavoro de La meglio gioventù con cui il nostro cinema trionfò a Cannes, ciò che più sorprende nella vita artistica di Gifuni è proprio la costanza con cui ben prima di quel ruolo, anno dopo anno, egli si avvicinava con passo sicuro ad majora. Eccola allora 17 anni fa già spiccare in scena nell’Elettra di un Massimo Castri o nelle sue memorabili villeggiature goldoniane, eccolo ancora consolidarsi sotto la guida di maestri come Terzopolous e Giancarlo Sepe, eccolo in fine giungere anche con Giuseppe Bertolucci al punto fermo di vibranti monografie teatrali su Pasolini, Pavese, Gadda e perfino Mozart. Tutti spettacoli, quest’ultimi, unanimemente acclamati, premiati, celebrati; nel frattempo questa giovane promessa mantenuta del teatro italiano si rivelava anche sul grande schermo. Passo dopo passo da Così ridevano di Gianni Amelio che ebbe il Leone d’oro alla mostra di Venezia nel 1998 a ruoli sempre più inattesi con registi come Magni, Chiesa, Bertolucci, Molaioli, nientemeno Ridley Scott. In pochissimi anni Gifuni è rivelazione europea al Festival di Berlino, Globo d’oro della stampa estera e Premio de Sica nel 2002, Nastro d’Argento nel 2004, Premio Flaiano, Premio Ischia e Premio Rodolfo Valentino nel 2005.

Qui, oggi, viene premiato quindi come attore completo che con ciascuno dei suoi tanti ruoli ha sempre mostrato una nitida e appassionata sensibilità d’interprete, quella stessa che gli ha fatto assolvere con raro tatto il compito di entrare nelle case di milioni di italiani vestendo ora i panni di un De Gasperi, ora di un Paolo VI, se non più di recente e con clamorosi esiti dell’inquieto psichiatra Basaglia.”

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“Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia in versi”, Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco - Foto di Marco Caselli Nirman

"Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia in versi" - 2010 reading

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Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un’amicizia in versi

La sera del 4 febbraio 2013, nel quartiere Monteverde di Roma, a poche decine di metri dal palazzo in cui abitarono due dei poeti e intellettuali italiani più influenti del secolo scorso, alcune centinaia di persone si sono riunite per ascoltare una lettura poetica dai caratteri straordinari.

Per il luogo, certo, uno dei più significativi per la cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta; ma anche per la qualità dei lettori, Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco, che hanno coinvolto il pubblico – col semplice utilizzo della voce, seduti di fronte a un leggio – in un rito laico né mondano né banale. Due attori, semplicemente, hanno prestato la voce a due poeti, entrambi scomparsi, che durante la loro vita di parole hanno avuto modo di dialogare attraverso le lettere, le chiacchiere quotidiane, le confidenze, ma anche le recensioni e, soprattutto, le poesie che si sono scambiati e dedicati, mettendo in scena, nel teatro della vita, uno dei più bei dialoghi letterari del Novecento.

Mi aspettava nel sole della vuota piazzetta
l’amico, come incerto… Ah che cieca fretta

nei miei passi, che cieca la mia corsa leggera.
Il lume del mattino fu lume della sera:

subito me ne avvidi. Era troppo vivo
il marron dei suoi occhi, falsamente giulivo…

Mi disse ansioso e mite la notizia.
Ma fu più umana, Attilio, l’umana ingiustizia

se prima di ferirmi è passata per te…
(da Recit, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1956)

Bertolucci, che lavora per Garzanti, incontra Pasolini per dargli notizia del procedimento giudiziario a carico dell’autore di Ragazzi di vita. È l’inizio della persecuzione giudiziaria del romanziere, poeta e regista Pasolini, ma è anche l’inizio del successo, dopo un periodo gramo, faticosissimo, durato almeno dal 1950, anno della fuga dal Friuli. D’altronde, è stato l’amico Attilio, di undici anni più anziano, a incamminare Pier Paolo sulla strada del lavoro editoriale, prima mettendolo sotto contratto per Guanda, per l’antologia della Poesia dialettale del Novecento (1952) e per Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare italiana (1955), e poi presentandolo a Livio Garzanti, l’editore dei romanzi e delle poesie che verranno, da Le ceneri di Gramsci (1957) in avanti. E ora, a partire dal 1956, Attilio è anche uno dei personaggi della narrazione poetica pasoliniana, a cui si aggiungerà, di lì a poco, Bernardo Bertolucci, destinatario della poesia A un ragazzo (1958):

Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,

vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento

alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,

vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,

ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia…

Rimani tra noi, discreto per pochi minuti
e, benché timido, parli, con i modi già acuti

dell’ilare, paterna e precoce saggezza.


E lasciamo la parola a Bernardo per andare a scoprire uno degli avvenimenti fondamentali di quegli anni, gravido di conseguenze per il futuro:

Nel ’59 la famiglia Pasolini (Pier Paolo, Susanna e Graziella Chiarcossi) si trasferisce in via Carini 45. Noi abitiamo al quinto piano, loro al primo. Ricominciai a scrivere poesie per poter bussare alla porta di Pier Paolo e fargliele leggere. Appena ne avevo scritta una scendevo le scale a grandi balzi con il foglio in mano. Lui era rapidissimo nella lettura e nel giudizio. Il tutto non durava più di cinque minuti. Quegli incontri cominciai a chiamarli dentro di me momenti privilegiati. Ne uscì un mucchietto di poesie che Pier Paolo, tre anni dopo, mi incoraggiò a pubblicare. Chissà cosa pensò mio padre, degradato senza spiegazione a lettore numero due. Arriva la primavera del ’61 e Pasolini, incontrato sul portone, mi annuncia che dirigerà un film. Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista. Non ne sono capace, non ho mai fatto l’aiuto. Neanch’io ho mai fatto un film, tagliò corto.
(Da B. Bertolucci, Il cavaliere della valle solitaria, in P.P. Pasolini, Per il cinema, a c. di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001).

Intanto, nel 1959, Attilio dedica a Pier Paolo una Piccola ode a Roma (poi raccolta in volume in Viaggio d’inverno, Milano, Garzanti, 1971), una lunga descrizione pittorica in distici che alla fine si apre a una lunga riflessione sui poeti ‘esuli’ dall’Italia settentrionale a Roma: Virgilio, Catullo… e poi, impliciti, Bertolucci e Pasolini. Pasolini risponde con l’epigramma A Attilio Bertolucci (da La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961), nel quale riprende il tema del distacco dal paese d’origine che diventa, però, il presagio della fine di un mondo.

… Chi non la conoscerà, questa superstite terra,
come ci potrà capire? Dire chi siamo stati?

Ma siamo noi che dobbiamo capire lui,
perché lui nasca, sia pure perso a questi chiari giorni,

a queste stupende stasi dell’inverno,
nel Sud dolce e tempestoso, nel Nord coperto d’ombra…


Ma la tappa più importante di questa lunga conversazione poetica è rappresentata dal poemetto La Guinea, del 1962. È un testo lungo, che recupera il metro e lo stile dei poemetti delle Ceneri di Gramsci per affrontare, insieme ai temi della fine del mondo contadino e del conflitto tra mondo preindustriale e mondo industriale, quello della scoperta dell’Africa come luogo simbolico della resistenza e della speranza. E proprio questa poesia ha segnato il culmine della lettura scenica di Gifuni, la voce dei testi di Pasolini, e di Bermagasco, la voce dei testi di Bertolucci. La poesia – che si apre su Casarola, il paese appenninico di Attilio Bertolucci– riprende il ragionamento avviato con l’epigramma per ampliarlo a un contesto globale, al rapporto tra primo e terzo mondo e, soprattutto, tra civiltà contadina e civiltà industriale. I versi più alti e giustamente celebri della poesia recitano così (da leggere rigorosamente ad alta voce o da ascoltare dalla voce di Pasolini):

Ah, non potrò più resistere ai ricatti
dell’operazione che non ha uguale,
credo, a fare dei miei pensieri, dei miei atti,

altro da ciò che sono: a trasformare
alle radici la mia persona:
è, caro Attilio, il patto industriale.

Nulla gli può resistere: non vedi come suona
debole la difesa degli amici laici
e comunisti contro la più vile cronaca?

L’intelligenza non avrà mai peso, mai,
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da una dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo, ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.


Ma Pasolini, a questo punto della sua vita, è già orientato verso altri orizzonti: il cinema, la scrittura giornalistica, la poesia documento. Nel 1963 i Pasolini lasciano Monteverde Vecchio per trasferirsi all’EUR, ma il rapporto tra le due famiglie rimane stretto ed è testimoniato da cartoline e lettere affettuose.
Spetta ad Attilio, sopravvissuto all’amico, riprendere il filo del discorso in due poesie scritte dopo la morte di Pasolini: Due frammenti della vita di Pier Paolo Pasolini e Ancora a Pier Paolo Pasolini.
Vale la pena riportare per intero almeno la prima, che ricostruisce in due pannelli la vita di Pier Paolo: prima il periodo friulano – magnificamente reso da Gifuni attraverso la lettura di due poesie in un perfetto friulano “ca da l’aga”, della riva destra del Tagliamento, – e poi quello romano, popolaresco e vitale. Poi, in chiusura, un congedo alla maniera dei trovatori, un commiato dall’amico scomparso, tornato, da morto, a Casarsa.

…così l’apprendista di filologia romanza
ricorse alla lingua della madre
campì di smalti ladini pale d’altare e d’amore
ne ripeté a piè di pagina
in predelle a carattere minuto la dulcedo
nell’italiano della sua classe
appena ombrato secondo la lezione
di Pound giovane scalante picchi smeraldini
nella Provenza di Arnault e di Peire…

…erano ormai gli anni del fango di Ponte Mammolo
e i ragazzi si prestavano ignari
modelli a cartoni manieristi già era
venuto il tempo
di atteggiare Franco Citti a prigione
profeta giovane peone in attesa
di schiumanti cavalli padronali


Envoi
Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il Tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti.


(da A. Bertolucci, Verso le fonti del Cinghio, Milano, Garzanti, 1993)


Simone Giusti – 6 febbraio 2013

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Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un’amicizia in versi

“Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia in versi”, Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco - Foto di Marco Caselli Nirman

"Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un'amicizia in versi" - 2010 reading

Da un’idea di Fabrizio Gifuni

Con Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni

Il fiore profondo che si manifesta nel dialogo umano e poetico tra Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini è il riconoscimento vicendevole dell’altro come diverso e assoluto. Il rispetto amoroso dell’altro – così vicino, così distante. A Roma, nel quartiere di Monteverde, nello stesso palazzo, vivono i due poeti – entrambi “approdati” in quella città – e approfondiscono negli anni e nella consuetudine della familiarità un rapporto destinato anche a dare testimonianza di sé nella forma della parola poetica. In Attilio Bertolucci e Pier Paolo Pasolini, un’amicizia in versi le voci di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni si alternano per esplorare attraverso il suono della parola il mistero luminoso di una amicizia.

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Ingegner Gadda va alla guerra-Calandrone

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Gadda e i Black bloc, due diverse follie della lingua lanciata sul vuoto

Una lingua feroce nella sua gioia è la resurrezione di Gadda, intuisce Gifuni, portando in scena i diari e le cocenti analisi politiche dell’Ingegnere sotto il taglio di luce di un Amleto che mette in scena le sue turbolenze per distrarre se stesso per primo dalla faccia oscuramente vana di quest’essere umani. Così, la trionfante protesi linguistica di Gadda è una postura spontanea di danza sulla pulsione di morte che già bacava l’indole dell’ingegnere ragazzo, sputato dal suo paese in una miserrima guerra di trincea. I diari di guerra di Gadda sono il documento di una superintelligenza incline alla compassione e insieme alla insofferenza, che tiene a bada l’orrore e le sue proprie lacrime non spostando più niente all’interno della sua cassapanca. Lo sforzo di controllare l’incontrollabile si concentra in una gigantesca ossessione, sorta di trasloco in massa della propria attenzione su cose futili per tacerne di orrende. Ma il pensiero no: quello, contrariamente, ingigantisce. Avviandosi a una seconda guerra di soldati scalzi, la lingua di Gadda è diventata il calco straripante di un vuoto sotterraneo, un modellismo bianco fitto dei mortaretti di una invenzione allo stato libero. Come il barocco napoletano che sotto ha le cave di tufo, il rovescio eroso della città di sopra, la pietra divorata per formare il groppo della Napoli visibile, così sotto la superficie della pagina gaddiana stanno le gallerie piene di teschi e scheletri che appena sopra il pelo d’acqua dei fogli ballano nell’ordinato carnevale di una lingua così piena di Eros organizzato in Logos. Ovvio che la lingua sia il cardine primario della comunicazione culturale di un popolo. Se Gadda a tal punto la rifonda, questo è l’effetto del disperato amore che egli porta alla sua gente, così cortigiana ma così coraggiosa. Sulla fondamenta di questa fantasia organizzatissima Gadda vorrebbe anche – ma disperatamente – rifondare la cultura del proprio paese. Fa paura. Fa davvero paura stare così capofitti in un ricorso vichiano, vedere con gli occhi nostri come l’Italia non sia ancora affrancata dal mito fascista di Priapo. Al punto che si è reso necessario affiggere all’ingresso del Teatro Vascello un cartello dove è confermato che tutte le parole dolenti ed esplose che vengono pronunciate sulla scena sono esclusivamente di Gadda e Shakespeare. Tanto frequente doveva essere la domanda del pubblico: ma davvero non avete aggiunto niente?, perché ogni parola sembra scritta per noi spettatori. O meglio, attori noi pure di una immutata psicologia italiana. Gifuni è stato totalmente posseduto dall’ingegnere, dalla sua intelligente malinconia e dalla sua dolentissima ironia, fino alla sciorinamento di una straordinaria agilità buffonesca che mima la fase attiva e passiva dei rapporti di potere, affetto da sventolìo magno del turibolo del proprio io-minchia. L’applauso interminabile è gratitudine verso quel Gadda che ci svela le meschinerie nostre, verso l’attore che ci ha presi in giro con tale amore ed è catarsi e gioia. Siamo infatti, oggi più che mai, dentro gli effetti della inclinazione del popolo italiano alla fallocrazia fascista che Gadda tanto lucidamente analizzava in Eros e Priapo, prendendosela più con gli italiani idolatri e cortigiani che con il loro Kù-cè, il mai nominato Mussolini, pericolosa ombra manzoniana che ne ha sparso a fiumane di vero sangue. Ma va anche detto che lo scenario planetario nel quale si muoveva quella anche provincialissima maschera narcissica da operetta è davvero cambiato e i fatti recenti delle manifestazioni mondiali e in particolare di quelle italiane, così opacamente infestate dalla violenza, ne sono dolorosa e viva testimonianza. Siamo dentro la inafferrabilità del mercato globale. Dov’è, adesso, il nemico? La propensione erettile è diventata un grafico di borsa che ha da tendere all’alto. Il mondo intero è progressivamente passato da quegli schieramenti ancora in qualche modo umanamente comprensibili, dalla tragedia ancora comunicabile delle cortigianerie e dei giovani mandati in guerra senza altro motivo che cambiare colore a legnate alle belle facce abissine, all’astrazione del fallomercato, per restare nella metafora analitica gaddiana. Non siamo emancipati ma ora il potente è astruso, mutevole e inafferrabile, la sua emanazione è planetaria e ha lo scherno e lo schermo grammaticale di un ologramma. Ma l’astrazione diventa concreta nei suoi effetti sul nostro pane quotidiano e sul nostro futuro. E allora alla genialità carnascialesca di Gadda rischiamo di sostituire i sampietrini che partono da un vuoto e vengono lanciati verso il vuoto. Già Pasolini aveva letto i rischi del nuovo fascismo, a lui contemporaneo, la cui divisa era diventata un costume intimo e non tanto una camicia che, una volta scrollata di dosso, restituiva al corpo la dignità e il vigore della sua libertà e ogni uomo tornava a possedere un vivo torace animale. Sono passati altri cinquant’anni da quell’analisi di un’Italia già terminale. Cinquant’anni dopo la divisa interna è diventata un esangue costume morale, un involucro che sta in piedi da solo senza custodire speranza alcuna ma molta della rabbia vandalica che abbiamo visto all’opera lo scorso 15 ottobre. Io c’ero, con mio figlio, alla testa del corteo: ci sono venuti addosso con i pali dei cartelli stradali, ho dovuto proteggere il mio piccolo fiutando le vie di fuga come una bestia. Dopo, sono tornata. Solo per rabbia, per urlare che basta! e fiutare invece da presso queste persone ormai abituate alla solitudine e al vuoto, secondo la lucidissima analisi di Andrea Cortellessa, persone che hanno bisogno di guide e altrimenti di bersagli. Non importa se il bersaglio è un simbolo come la vetrina di una banca. Nessuno di loro – spero – si illude di scardinare il sistema delle banche facendo crollare la vetrina di una remota filiale dell’Impero. Così accade solo che i civili che erano oceanicamente fuoriusciti tornino a seppellirsi nelle trincee verticali delle case. Ma davvero non ci resta nient’altro da fare? Ma quale sforzo di quale lingua mai, quale sfarzo potrà ballare oggi con noi sopra questa mancanza di futuro, su questa sordocieca indifferenza internazionale? Mantenendo la metafora della città vuota sotto quella piena, sono sicura che per cominciare convenga riabitare le nostre ormai svuotate fondamenta umane, rifarci intimi uno all’altro, rimpolpare di carne i nostri scheletri nudi – o davvero sopra di noi danzeranno soltanto le imago, il vapore di una scena dove le sagome nere dei peggiori fantasmi colpiscono vetrine perché non ci sono nemmeno più esseri umani da finire, il nemico è ormai astratto e inafferrabile, irraggiungibile, forse anch’egli già terreo. Ma che vuol dire riabitare le nostre fondamenta? Vuol dire innanzi tutto riabilitarci ai nostri stessi occhi, credere di avere un minimo di “potenza”, di incisività storica e politica nella storia grossa di Gadda. Uscire dalla nebulosa orribile della rassegnazione che fa disperare. La sola via per interpretare il mondo è la cultura. Studiare è la nostra sola libertà. Studiare e tramandare. Io credo che davanti all’invernale scontento che genera questa violenza sia un preciso dovere continuare a crescere i nostri ragazzi dicendo loro che la cultura aiuta a decifrare il mondo: a essere critici, a essere liberi. Forse è poco, ma è vero. Niente altro può invertire la caduta verticale del nostro paese che si dirige verso un vuoto forse neanche più erettile: il vuoto senza lingua dunque il vuoto armato di sampietrini e picconi. Il vuoto cieco e cattivo dei neri ovvero la strategia del terrore amaramente nota agli italiani. Il vuoto variopinto dei ragazzini con le birre in mano ovvero un fallimento e un dubbio che sanguina già declinato al futuro. Vuoto composito e non nominabile una volta per tutte. La presunta intervista rilasciata a “Repubblica” dal non meglio identificato trentenne black bloc pugliese F. racconta l’addestramento e spiega i metodi di attacco rivelando una lingua e una capacità di analisi poverissime. Deriva culturale. Derivata da sfacelo scolastico, da questa nostra scuola sotto attacco. E allora quale nuovo Gadda potrà essere in grado di ricostruire la città di tufo, il barocco abitabile della lingua e dunque la cultura della comunicazione, il verbo efficace del nostro popolo su questo vuoto nemmeno più umano ed esistenziale ma sociale ed istituzionale? Forse non sarà solo uno il nostro rivoluzionario portavoce, come non fu uno il poeta della rivoluzione d’ottobre in Russia quando, ai suoi inizi, era un vero, feroce, gioioso moto di libertà. I poeti sono calamitati dalle utopie. E ora i segni di rinascenza del pensiero e della fantasia ci sono tutti e sono molteplici. Non si tratta di mera reazione opportunistica a un disastro economico ma di un profondo movimento sismico culturale. La spaccatura sociale è netta ed evidente. La zona grigia e pericolosa degli indifferenti è sempre più sottile. Non c’è comodità. Fine dell’edonismo e della cultura del superfluo. Siamo all’osso e dall’osso ripartiamo. In qualche modo paradossale è un bene. Così io voglio idiotamente, dostoevskianamente interpretare questo nostro tempo: un silenzio raggelante che è andato esaurendosi. Siamo preparati a dire. Sapendo che per adesso non c’è assestamento né calma possibile, ma un impulso di pensiero che comincia a scavalcare il nostro ininfluente ego sum per tentare di riformare una lingua anche sul vuoto cadaverico o sul cadavere stesso del capitalismo.

Maria Grazia Calandrone (poetessa), 15 ottobre 2011

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Ingegner Gadda va alla guerra-Cerrato

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Fabrizio Gifuni: un Gadda speciale

Ottima prova dell’attore che sgrana come un rosario il dolore e la follia gaddiana ricondotta ad Amleto
Prova di grande spessore, ieri sera, al teatro Sociale di Como, per Fabrizio Gifuni, che, per la stagione dei Circuiti teatrali lombardi, ha portato nella sala comasca il suo originale e potente spettacolo L’Ingegner Gadda va alla guerra. Scritto dallo stesso Gifuni e diretto con ritmo incalzante da Giuseppe Bertolucci, il monologo traeva la sua ispirazione dall’esperienza umana e artistica dello scrittore Carlo Emilio Gadda, figura eminente del Novecento, preso a paradigma per il suo particolare, profondo, drammatico giudizio sulla realtà, capace di accenti poetici. La riflessione di Gifuni nasceva dunque dalla pagina scritta e in particolare, prende avvio dall’analisi delle dolorose scritture dei Diari gaddiani, una sorta di “via crucis” di inchiostro e carta, a raccontare il calvario della partecipazione alla prima guerra mondiale. il volontario interventista Gadda si scontrò in modo sconvolgente con la spietata violenza della guerra di trincea, che gli portò via anche l’amato fratelloEnrico. Come sgranando un rosario di dolore, l’attore ha interpretato, nella prima parte del monologo, il progressivo percorso verso l’orrore, quando le illusioni futuriste, giorno dopo giorno, lutto dopo lutto, delusione dopo delusione, caddero crudelmente, lasciando posto alla disperazione e ad uno stato che si potrebbe definire di follia. La citazione dei Diari non avveniva però come in una lettura scenica, intensa ma “bidimensionale”. Gifuni, che è prima di tutto, attore, incarnava attraverso una fisicità nervosa e irrequieta, le sfumature degli stati d’animo, dalla feroce ironia al parossismo della rabbia, alla prostrazione. Inoltre, per analogia, in un salto non pretenzioso ma autenticamente poetico, la “follia” gaddiana, esplicata nel suo tipico e onirico linguaggio, veniva ricondotta alla figura sempre insorgente di Amleto, un vecchio e iracondo Amleto, che come un fantasma, un’apparizione, faceva incursione in scena. Lo spettacolo non ha conosciuto momenti di stanchezza ma anzi è stato caratterizzato da un crescendo sempre più intenso, in cui, rivolgendo l’attenzione su Eros e Priapo, altro capitolo fondamentale del percorso gaddiano, Gifuni ha portato gli spettatori ad una riflessione più collettiva che individuale, in una sferzante e impietosa rappresentazione di una certa italianità. La debolezza degli Italiani, la fascinazione per “uomini dellla provvidenza”, la grottesca e sguaiata superbia dei potenti, vengono letti da Gadda con un implicito giudizio di condanna senza appello. La prova di Gifuni, dunque, non era solo rappresentativa di una pur alta parola poetica, ma, sollecitava nell’occhio, nella mente e nel cuore la riflessione sulla propria identità personale e collettiva, una riflessione che appare urgente nelle infinite guerre dell’oggi.
Applausi meritatissimi.

Sara Cerrato – La provincia (Como), 11 marzo 2011

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Ingegner Gadda va alla guerra-Rapaccioni

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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L’iperbolica bravura di Fabrizio Gifuni

Lo spettacolo si compone di due parti, la prima tratta dai “Diari di guerra e di prigionia”, la seconda da “Eros e Priapo”. In mezzo, qua e là, come intercalare, frammenti dall’Amleto di Shakespeare, che si infilano come naturale complemento, facilmente riconoscibili per le diverse luci: azzurrine, a tracciare una L sul palco per il Bardo, biancastre dall’alto per Gadda. Gifuni riconosce in Gadda un Amleto novecentesco e ne segue le tracce nei suoi scritti, esemplificati nel riferimento del sottotitolo al protagonista di “La cognizione del dolore”.

Agosto 1915, il sottotenente di fanteria Carlo Emilio Gadda è a Edolo, in una pensione dove si respira aria fresca di montagna. La notte è agitata da sogni tristi, Gaddus è dominato da grande tristezza nonostante a casa stiano tutti bene; ma è oggetto degli scherzi indiscreti dei commilitoni e sente la mancanza di casa. Lo tormentano visioni di felicità perduta e gli affetti lontani. Ondeggia tra un sogno e l’altro, tra un desiderio e l’altro. Ama la patria ma ne vede i mali incurabili e ne è sconvolto, lui che si sente un “ardito impacciato” o piuttosto un “petulante timido”.
Le date e le pagine del diario si sgranano nel racconto di Fabrizio Gifuni, gli amici liguri rievocati con leggero (ma preciso) accento genovese. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, semper in eodem loco: i fatti della guerra sono agghiaccianti nella loro quotidianità, analizzata con lucidità e senza alibi. La cattiva fornitura delle scarpe, ad esempio, che si sfaldano alla pioggia: frode all’erario e danno al morale delle truppe. Ma “noi italiani siamo troppo acquiescenti al male”. Quel male che è “guardare con gli occhi dei cortigiani”. Pietà e ironia si fondono nel tratteggiare l’orrore di quegli anni terribili, il sacrificio di tanti poveri giovani, carne da macello dentro e fuori dalle trincee.
Poi la prigionia, il duro calvario, il martirio. E il ritorno a casa, alla vita non più normalizzabile dopo quell’esperienza. Totale e senza appello è la condanna alla guerra, mossa con racconti in prima persona. Il racconto di Gifuni, vibrato e appassionante, riporta un Gadda umano, il suo sentire, il suo essere nella guerra, senza falsità, senza eccessi.

La seconda parte è narrata con accento toscano, una tirata contro la dittatura, la tirannia, contro il potere assoluto. L’analisi della psicopatologia del Cuce (evidentemente il Duce) si concentra sul delirio sessuale, nel suo “giganteggiare fasullo” su scarpe con tripli tacchi che ricorda qualcun altro. Ma in Italia pare non esserci “cognizione” e la ripetizione è lì, sempre possibile.
Impressionante la parte finale. Le luci in sala sono accese, Gifuni si rivolge agli spettatori di oggi con le parole di ieri, che si riconoscono solo per gli accenti: i temi, invece, i soggetti e gli effetti sono tutti dell’oggi più stringente. In attesa di una resurrezione.

La lingua raggiunge altezze vertiginose; i lievi cambi di abbigliamenti ribaltano l’essere sul palco (una maglia a posto della giacca ed ecco le due parti del testo). Lo spettacolo è folgorante, compatto, veloce, anche grazie alla regia intelligente di Giuseppe Bertolucci. Fabrizio Gifuni è di iperbolica bravura nello restituire quella magnifica, ricercata prosa con una naturalezza che fa emergere ancora di più la profondità di spessore, il colpire al tempo stesso cuore e ragione. Gifuni è solo in una scena completamente vuota, all’inizio traccia un segno con un immaginario gessetto, crea un percorso immaginario che poi si riempirà di parole e delle immagini che da tali parole traggono vita. Gifuni non imita Gaddus, si fa megafono delle sue parole, dei pensieri, dell’uomo. Riuscendo a restituire una delle personalità più complesse della letteratura italiana. Una straordinaria prova d’attore. Uno spettacolo che non lascia respiro, che coinvolge, emoziona, costringe lo spettatore a interrogarsi, a pensare. A porsi domande, incessantemente.

Pubblico molto coinvolto, alla fine interminabili applausi.

F. Rapaccioni, 19 febbraio 2011

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Ingegner Gadda va alla guerra-Brandolin

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Fabrizio Gifuni, straordinario ingegner Gadda

Partito in sordina è diventato nel giro di pochi mesi uno degli spettacoli più apprezzati del momento: è L’ingegner Gadda va alla guerra, con un grande Fabrizio Gifuni nelle vesti sofferte, spaesate e nevrotiche di quel Carlo Emilio, il grande lombardo, che ha segnato alcune tra le pagine più alte del nostro Novecento, in scena per due sere al Verdi di Pordenone. Un monologo intensissimo e mozzafiato, diretto da Giuseppe Bertolucci, nel quale, il racconto dell’esperienza individuale di Gadda, tratto dai Diari di guerra e prigionia, si allarga alla dimensione più generale dell’assurdità della guerra per arrivare a quell’assurdità del vivere che ne informa tutta l’opera tra dolore e ironia, tra disincanto e passione, tra rabbia e desolazione. E sono le pagine di lui capitano, nell’estate del 1915 in quel di Edolo, alle prese con la vita squallida e angosciante di caserma, con commilitoni che nulla hanno da spartire per formazione sensibilità cultura con lui e le sue angosce, il suo disagio esistenziale e il suo profondo malessere per tutto quanto di retorico, vuoto, militaresco, invece, quella vita gli riserva. C’è poi il racconto straziante della cattura sull’Isonzo all’indomani di Caporetto, la prigionia e il ritorno con il dolore per la perdita dell’amato e odiato fratello Enrico. Poi, con un colpo magistrale di teatro, ecco l’avvento del fascismo: una canzonetta di quelle becere e razziste di propaganda diviene la pista di lancio di un’esibizione che da teatro di varietà, petrolinesco, irriverente e sarcastico, si trasforma in feroce invettiva, in analisi appassionata e sconsolata del “fenomeno” fascismo, tra Eros e Priapo appunto, tra megalomania narcissica di un dittatore infoiato e donnaiolo, vittima di un eros che poi riversa nell’imporre anche con la forza un consenso dittatoriale. E qui, la scrittura di Gadda, che Gifuni insegue con funambolica perizia verbale e mimica, si lancia in una tanto dettagliata quanto amaramente comica descrizione della fallocrazia fascista, esaminata nei minimi dettagli, dall’abbigliamento delle camicie nere ai rituali collettivi. Con acume psicanalitico Gadda mette in parallelo la psicologia legata all’erotismo e l’infatuazione degli italiani (e in particolare le donne) per il “mascellone”, che diventa unico capo e polo d’attrazione erotica per la nazione, capace con le sue manie, di rendere folle un intero popolo. Un’analisi che nell’incalzare incontenibile del dire di Gifuni diviene specchio dei nostri tempi, in un parallelo con l’oggi che non ha nulla di forzato o antistorico, bensì di profonda sconsolatezza tanto è preciso all’ieri! Il tutto con un linguaggio che più gaddesco non si può, ricco di inflessioni dialettali, di invenzioni linguistiche, di quei barocchismi che stemperano la rabbia nell’ironia e nella presa in giro sottile e parodistica. Solo, sulla scena vuota, con l’aiuto di una sedia e con piccoli cambi di abito, quali togliersi la giacca e infilare i calzoni negli stivaletti per le pagine dedicate alla Grande Guerra, e poi via la camicia per l’epilogo in maglioncino nero dedicato al fascismo, di ieri e di oggi, come malattia di una nazione senza capacità critica, affascinata dal Kuce (così è chiamato Mussolini in Eros e Priapo) di turno, Gifuni dà prova di un’abilità e di un talento mostruosi, capace di trasformarsi anche visivamente inseguendo l’incalzare del discorso con una partecipazione e una verve camaleontica che passa da momenti accesi nell’ira e nell’indignazione ad altri di più trattenuta e dolente interiorità, a dire di un’anima e di un’intelligenza inquiete e straziate per quella cognizione del dolore del vivere che nello spettacolo trova brevi illuminanti riscontri nell’Amleto di Shakespeare. Una prova d’attore unica, per uno spettacolo davvero e finalmente necessario, di quella necessità che aiuta a riflettere e comprendere l’oggi, senza proclami o comizi ma attraverso le parole di un poeta e la bravura di un interprete che le fa risuonare vive nel nostro presente. Serata indimenticabile, siglata da una vera e propria ovazione del pubblico.

Mario Brandolin, Messaggero Veneto – 13 febbraio 2011

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Ingegner Gadda va alla guerra-Ottolenghi

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

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Tra Gadda e Shakespeare: Gifuni attore straordinario con la regia di Bertolucci

Un attore straordinario, un fiume travolgente di parole, un rigore assoluto di ritmi, gesti, tensioni espressive, una drammaturgia complessa colma di variazioni stilistiche, il Gadda più piano, appunti introspettivi, sbalzi d’umore, e il Gadda dalla lingua stratificata, densa, complessa, divertita e arrabbiata insieme, con riflessi in questo nostro presente, prefigurazioni tragicomiche, qua e là anche sparse citazioni amletiche: davvero meritatissimo il premio Ubu a Fabrizio Gifuni per «L’Ingegner Gadda va alla guerra» presentato ora al Teatro al Parco, da un’idea dello stesso interprete, solo in scena, e la regia di Giuseppe Bertolucci. E dopo il silenzio teso dell’ascolto – un testo nell’insieme arduo, con passaggi comunque da gustare sempre – l’applauso è esploso pieno, ripetuto, con molti «Bravo!» e la gioia speciale dell’incontro straordinario. Una sedia, luci che tagliano in vario modo il palcoscenico, passaggi inquieti, nervosi, ma anche pensosi e di sfida, una gamma vertiginosa di stati d’animo e di modi di vivere la scena tra coinvolgente partecipazione e limpido straniamento.
Magnifico.
E’ Gadda quell’Amleto che cita «parole, parole» con cui rispondere a PoIonio? è ancora lui a riconoscere che il secolo è cosl definitivamente fuori dai cardini? Sfida se stesso l’autore, si deride, ma intanto coinvolge la realtà intorno, come ricordi che affiorano impetuosi. La cognizione del dolore: con Gonzalo principe di Danimarca, difficile comunque il rapporto con la madre. Dal «Giornale di guerra e di prigionia» frammenti di diario, riportando accadimenti, descrizioni ironiche e intense collere, «I nostri uomini sono calzati in modo da fare pietà. ..». E c’è la nostalgia di felicità perdute, l’infanzia, immagini di luce. Con la tentazione del suicidio. I bombardamenti e l’ossessivo bisogno di ordine. La morte del fratello, il ritorno a casa. «La mia vita è inutile …»
Per l’ultima parte, da «Eros e Priapo», Gifuni ricorda Paolo Poli, scanzonato, beffardo, accento toscano, nella descrizione mordace, satirica del tiranno, con il perenne bisogno di mostrare/ dimostrare la propria smodata virilità. Ed è con la luce accesa in platea che l’attore ricorderà, con le parole di Gadda, i caratteri, di menzogna e prepotenza, del «folle narcissico», che nessuna remora, nessuna obiezione riesce a fermare …

Valeria Ottolenghi, La Gazzetta di Parma – 30 gennaio 2011