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L’ingegner Gadda va alla guerra

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - Foto di Marco Caselli Nirmal

“L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” - 2010

Un’idea di Fabrizio Gifuni, da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare

regia di Giuseppe Bertolucci

con Fabrizio Gifuni

Disegno luci: Cesare Accetta

Direttore tecnico: Hossein Taheri

Direttore di allestimento e fonica: Paolo Gamper

Tournèe a cura di Natalia Di Iorio

Produzione: Fabrizio Gifuni

Produzione esecutiva: Solares – Fondazione delle Arti

Quattro anni dopo ‘Na specie de cadavere lunghissimo, spettacolo che attraverso la prosa del Pasolini luterano e corsaro e gli endecasillabi di Giorgio Somalvico poneva le basi di una riflessione teatrale sulla trasformazione del nostro paese negli ultimi quarant’anni, Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci riprendono il loro discorso guidati dalla lingua e dal pensiero di uno dei più grandi scrittori del ‘900.

I Diari di guerra e di prigionia – resoconto fedele della partecipazione di Gadda alla prima guerra mondiale – e l’esilarante Eros e Priapo, scritto-referto sulla psicopatologia erotica del ventennale flagello fascista, tracciano la rotta di un viaggio che ci conduce fino al nostro presente, alla scoperta di un popolo mai cresciuto. E, in ultima analisi, di noi stessi.

Appunti per uno spettacolo

Un Amleto non più giovane, solo, senza più un padre o una madre da invocare o da maledire, sempre più debole di nervi, collerico. Solo con i suoi fantasmi. La lingua squassata da lampi di puro genio proteiforme. Sempre sull’orlo di una follia tragica eppure, a tratti, comicissima. E ricca di metodo. Ah sì, ricca di metodo. Così inizio a immaginare Gadda. Un ‘Amleto Pirobutirro’ (protagonista-ombra del suo più grande romanzo, La cognizione del dolore) che riavvolge il nastro delle sue nevrosi camminando a ritroso – come un granchio – sulle tavole della memoria. Una discesa agli inferi che riapre antiche ferite, mai rimarginate. Fino ad arrivare alla ferita originaria. A ciò da cui tutto discende. Nel male e nel bene. Al pozzo nero della sua futura infelicità ma anche, forse, all’involontaria miniera della sua immensa arte. La partecipazione dell’Ingegnere al primo conflitto mondiale (sottotenente nella milizia territoriale, arma di fanteria,V° reggimento Alpini), la disfatta di Caporetto, la detenzione nei campi di prigionia tedeschi e la morte del fratello Enrico, modificheranno per sempre la vita dello scrittore. Ma il dolore non è mai solo fatto ‘privato’. Anzi. Si fa sempre inesorabilmente ‘pubblico’. Con progressione implacabile, la furia del Gaddus inizia a montare e ad abbattersi, a colpi d’ascia, sul suo paese – che è pur pronto a difendere con la vita – sul suo popolo e sui suoi governanti. Scritti dall’assai scomodo osservatorio delle trincee, i suoi Diari di guerra e di prigionia squarciano il velo su qualsiasi retorica patriottarda per farsi atto d’amore autentico e doloroso. Acquisita coscienza del proprio dolore, questo Amleto un po’ avanti con gli anni è ormai perfettamente in grado di analizzare le storture di una Storia ciclicamente “fuori dai cardini”. Preso l’abbrivio, il flusso è inarrestabile. Con il trascorrere degli anni (quanti ?), la demenza totale di un popolo frenetizzato ha ora consegnato il suo paese a un tiranno che si preoccupò de le femmine; al delirio narcissico di un ultra-istrione, auto- erotomane affetto da violenza ereditaria.. Sèguito ideale di un discorso aperto qualche anno fa, con le riflessioni performative luterane e corsare (di ‘Na specie de cadavere lunghissimo), questo nuovo capitolo si presenta al pubblico come un atto cognitivo ‘sacrale’ – rituale laico di un consorzio civile che si vorrebbe migliore – utile forse a chiunque, oggi, voglia provare a riannodare i fili di una tela in brandelli. La tela di un paese chiamato Italia. L’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci – dice Gadda in Eros e Priapo – prelude la resurrezione, se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie.

Fabrizio Gifuni

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Il Piccolo Principe in concerto - Foto di Silvio Canini

“Il Piccolo Principe in concerto” - 2011

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Il Principe restaurato. Il racconto di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco

Confesso di non amare particolarmente Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Non ho mai capito come questa fiaba funerea e zuccherosa possa commuovere un lettore, sia egli adulto o bambino. Mi è sempre sembrato che frasi come «Non si vede bene che col cuore» siano destinate ai repertori di citazioni celebri o alle cartine dei cioccolatini. Ma proprio per questo sono rimasto tanto più colpito dallo straordinario exploit attorale che ne hanno ricavato Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco. C’è un solo modo, a mio avviso, di rappresentare il tenue universo poetico di Saint-Exupéry, ed è attraverso le risorse del teatro di figura, oggetti, pupazzi, come fece tanto tempo fa il grande marionettista svedese Michael Meschke, e nella sua scia il Teatro delle Briciole. Gifuni e la Bergamasco hanno scelto la strada opposta, quella della semplice lettura: ma la rinuncia a un’ingombrante messinscena non penalizza certo, e anzi valorizza al massimo la loro prova di bravura.

Non si può dire, del resto, che la proposta presentata al Teatro Franco Parenti di Milano manchi del tutto di un’elementare costruzione visiva e spaziale: se Gifuni agisce prevalentemente dietro un leggio, la Bergamasco siede su un’emblematica altalena le cui funi di sostegno, alla fine, si illumineranno come per guidare il ritorno a casa del piccolo protagonista. Fra loro c’è la postazione del percussionista Rodolfo Rossi, le cui particolari sonorità sono parte integrante del progetto stilistico.
Ma al centro di tutto ci sono i due interpreti, come strumenti perfettamente accordati. Lui, che ha il ruolo di narratore, e mutando accenti dà voce alle varie figurette, il re, il lampionaio, la volpe che vuole farsi adottare, sfoggia gli abituali virtuosismi tecnici: entra in scena in piena luce, si rivolge direttamente alla platea come per una comunicazione, poi accende a un certo punto non si sa quale fonte di energia e, impercettibilmente, dai toni quotidiani passa a tessere mirabolanti orditure verbali.
Lei, languidamente appollaiata sull’altalena, pronuncia le parole del Piccolo Principe con una vocetta insieme infantile e piena di una misteriosa femminilità, non priva di echi ambiguamente sensuali. Il suo racconto è quasi un puro esercizio di un talento, a lungo andare fin troppo flautato. Ma attraverso la loro recitazione torna fuori all’improvviso l’emozione, una sorta di emozione intellettuale di fronte alla gamma di effetti che un attore, praticamente con nulla, riesce a evocare.

Renato Palazzi – Il Sole 24 ore – 5 Novembre 2011

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Il Piccolo Principe in concerto - Foto di Silvio Canini

“Il Piccolo Principe in concerto” - 2011

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“Il Piccolo Principe” di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco

Tre coni di luce e parole che scorrono nel mezzo. Un astronauta narratore bloccato in un deserto che finisce per essere narrato. Un principe narrato che finisce per narrare la storia di ogni uomo che cerchi di sorvolare la stratosfera delle idee seriose degli adulti. Poco dietro un cono di luce illumina invece volute sonore, che si attorcigliano ai corpi dei personaggi.
Narratore e narrato si incontrano in una storia apparentemente scritta da sempre. È la fiaba di chi osserva la vita dall’altalena della purezza, che oscilla prima lentamente, poi più velocemente, in un continuo alternarsi di ritorni e fughe. Nessun contatto tra i coni di luce. Perché il puro rimanga tale c’è bisogno di osservare senza far bagnare il proprio sguardo nel sudiciume che imperla i viventi. L’astronauta può infatti solo disegnare oggetti da fornire al principe, merce di scambio che nel passaggio acquista continuamente sensi inattesi. Perché se la vita sfiorasse la purezza non potrebbe che farlo con i denti acuminati del veleno di un serpente. Invece lo sguardo del Piccolo Principe (Sonia Bergamasco) si posa su esseri delle più varie forme, ciascuno vittima della propria presunta unicità. Il tratto saliente dei personaggi incontrati dal Piccolo Principe diviene infatti per loro stessi una gabbia di vita. Quest’ultima si traduce nelle brillanti e perturbanti caratterizzazioni di Fabrizio Gifuni. L’uomo d’affari, come il sovrano, quanto la volpe non riescono ad approdare a quell’Altrove che, nel mancar loro, li descrive, ma sono tutti esattamente imprigionati nei gesti stereotipati dei loro corpi.
L’uomo d’affari è l’unico proprietario delle stelle, ma è ingabbiato nei suoi tesi movimenti, nel suo rimanere visibile solo in un costante profilo. La volpe ha il corpo inarcato, la mano che rabbiosa striscia sulle cosce, proprio come il suo essere finge di abbandonarsi all’addomesticamento altrui, mentre si intuisce un indomito orgoglio rabbioso rivoltarsi all’accettazione dei propri bisogni.
È proprio questa inquietudine, pienamente umana, eppure così distante dal candore dei personaggi de Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, il marchio della rappresentazione di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni. Tanto la prima è diafana nelle sue semplici vesti bianche, tanto il secondo è carnale, intriso di una passione tutta umana, interprete di quelle vite immerse nell’ambivalenza struggente del desiderio di se stessi e dell’altro. Sono mondi destinati a rimanere distanti, immersi ciascuno nel proprio cono di luce, uniti solo dall’impellente necessità di scambiarsi emozioni e consapevolezza di vita.
Il Piccolo Principe ha compiuto un viaggio nella mente di un viaggiatore astronauta, da sempre impegnato nella ricerca delle risposte che solo la sua fantasia potrà dargli. Nel paesaggio lunare della propria mente l’astronauta saprà riconoscere i tratti della purezza che, come ogni degna meta ideale, svanirà come per il pubblico la fiaba svanisce nell’aridità del reale.

Luca Errichiello – Flaneri – 14 marzo 2013

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Il Piccolo Principe in concerto - Foto di Silvio Canini

“Il Piccolo Principe in concerto” - 2011

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A Galleria Toledo omaggio al Piccolo (grande) Principe

L’alchimia di due corpi, due voci, due anime che con estrema naturalezza e bravura narrano ad un pubblico incantato la storia di un piccolo grande uomo.
Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco portano in scena a Galleria Toledo la favola del Piccolo Principe, la creatura narrativa di Antoine de Saint-Exupéry che con i suoi occhi grandi spalancati sul mondo, si interroga sul senso della vita.
Il Piccolo Principe nasce dall’estro della penna dello scrittore francese e gioca sul continuo parallelismo di punti di vista, quello adulto, in cui la prospettiva delle cose è per così dire inquinata dai vizi e dalle dissolutezze del mondo dei “Grandi” e quello invece puro e disincantato dei bambini.
Il candido fanciullo dai capelli color del grano (reso alla perfezione dalla presenza eterea e delicata della Bergamasco) si imbatte in un pilota di aerei (Fabrizio Gifuni), precipitato, a seguito di un’avaria al motore, nel bel mezzo del deserto del Sahara. Un luogo che è un non luogo, in cui eccetto la presenza dei due non c’è altra traccia della presenza umana.
I due si scrutano, si studiano, sono incuriositi l’uno dalla presenza dell’altro, ma è il Piccolo Principe a rompere il ghiaccio ed inondare di domande il serio pilota, alle prese con bulloni e viti da riparare. Il bambino penetra a poco a poco attraverso la corteccia di scetticismo con cui l’uomo che ha di fronte si protegge, e gli parla del suo mondo: un lontano asteroide del quale è l’unico abitante, circondato solo da tre vulcani ed un fiore narciso a cui egli dedica ogni cura. Ma nel suo vagabondare tra gli altri pianeti, prima di arrivare sulla Terra, il piccolo ometto ha visto e conosciuto cose a lui prima di allora sconosciute.
Con la sua ingenua purezza, il Piccolo Principe ha cercato di dissetare la sete di potere di un Re senza sudditi, di distogliere la vanità di un uomo tutto preso da se stesso, di consolare un ubriacone che lascia che il vino anestetizzi i suoi ricordi, di rallentare i ritmi di un uomo di affari che conta le stelle come se fossero titoli di banca, di liberare il custode di un lampione dal suo alienante compito di accendere e spegnere meccanicamente il lampione del suo pianeta ogni dì, ed infine di decifrare la fisionomia dei pianeti di fronte all’infelicità di un geografo che non ha gli strumenti per farlo.
Dal suo viaggio, il Piccolo Principe ha imparato che il mondo adulto è ben strambo, è fatto di gente che corre troppo, i suoi abitanti non hanno il tempo di fermarsi a guardare le stelle di notte, persi nell’affannosa ricerca della materia, senza capire che: “L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ma forse c’è qualcuno pronto a recepire questo messaggio, attraverso piccoli, misurati gesti, attraverso le immagini di un disegno che nella sua immediatezza racchiude la sua essenza.
Questo qualcuno è il pilota disarcionato, che mostra grande sensibilità davanti al piccolo ma saggio amico. Sensibilità che emerge mista a commozione, quando il Piccolo Principe, dopo un anno di permanenza sulla Terra, decide di fare ritorno al suo pianeta e per farlo si affida al siero velenoso di un serpente che lo risucchia per condurlo a casa.
Il Piccolo Principe scompare così ma la sua presenza è ancora palpabile, nei semplici e chiari insegnamenti che lascia sulla Terra, rivolgendosi a “a tutti i grandi che sono stati bambini ma non se lo ricordano più”, come compare nella dedica al libro dell’autore.
Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco non potevano regalare un’interpretazione più limpida e toccante di quanto abbiano fatto dinnanzi ad una platea gremita che ha premiato l’eccellente rappresentazione  con un lungo e sincero scroscio di applausi.
Gifuni gioca con la voce, legge i passi del racconto, connotandoli di variegate sfumature e dimostra grandi ed indiscusse capacità recitative, altrettanto fa la sua compagna di vita e di scena che è riuscita a cogliere la delicatezza ed allo stesso tempo la forza del Piccolo Principe, icona ed alter-ego del Peter Pan che è in ognuno di noi. Il personaggio di Saint-Exupéry, condivide con il Peter Pan di Matthew Barrie quella stessa eternità riservata a chi non cresce mai, e i due interpreti colgono alla perfezione questo senso di infinito.
Il segreto è molto semplice, “non si vede bene che con il cuore”, dice il Piccolo Principe, allora come trasmettere questo al pubblico? Con l’immediatezza di una recitazione che abbatte ogni barriera tra spettatori ed attore, con l’accompagnamento musicale di scena che scandisce i passaggi di questo magico viaggio e l’altalena fluorescente che accoglie il Piccolo Principe come un guscio materno, grazie a tutto ciò arriviamo davvero all’anima del nostro vivere.

Arianna Esposito – Il Pickwick – 11 Marzo 2013

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Il Piccolo Principe in concerto

Il Piccolo Principe in concerto - Foto di Silvio Canini

“Il Piccolo Principe in concerto” - 2011

Un’idea di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco

Voci: Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco

Suoni di scena: Rodolfo Rossi

Disegno luci: Cesare Accetta

In collaborazione con il Teatro Franco Parenti di Milano

Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi

Questo è uno dei segreti più preziosi custoditi in un libro che racconta di lunghi viaggi, di incontri fantastici e di misteri che cerchiamo ancora e sempre di risolvere.

Teniamo bene a mente, e nel cuore, questo segreto :“l’essenziale è invisibile agli occhi”, e con il fiato sospeso, senza aspettarci risposte ma con il desiderio di far risuonare con semplicità e con passione le avventure di un bambino – di un “piccolo principe” dallo sguardo implacabile e trasparente – apriamo il libro e cominciamo a leggerlo preparandoci a un lungo viaggio.

Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni

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«(…) Non si punta a stupire ma a coinvolgere, le parole avvolgono lo spettatore per rapirlo e buttarlo nel mondo che il piccolo principe si è costruito. E’ uno spettacolo che ferma il tempo, regala il giusto spazio alle parole e gli restituisce il valore originale, qui non c’e’ fretta, siamo in uno spazio senza tempo né confine dove la voce è la nostra unica guida in un mondo di parole e sentimenti.» di Tamara Malleo, recensito.net

«…attraverso una gamma di articolazioni fonetiche colorate ed espressive, Gifuni e Bergamasco donano al testo una forza creativa, un amore che pervade in ogni accento, inflessione o cadenza sperimentati per interpretare i tanti buffi e teneri personaggi del racconto.» – www.teatrailer.it

Milano, Teatro Franco Parenti – dal 27 al 30 ottobre 2011

Milano, Teatro Franco Parenti – dal 1 al 6 novembre 2011

Parma, Teatro al Parco – 12 novembre 2011

Pistoia, Teatro Circolo Culturale Il Funaro – 16 e 17 dicembre 2011

Assisi, Piccolo Teatro degli Instabili – 7 dicembre 2012

Fisciano (Salerno), Teatro dell’Ateneo – 19 dicembre 2012

Bellaria, Teatro Astra – 12 gennaio 2013

Arezzo, Teatro Mecenate – 26 gennaio 2013

Roma, Teatro Vascello – dall’8 al 10 febbraio 2013

Lodi, Teatro alle Vigne – 17 febbraio 2013

Pavia, Teatro Fraschini – 19 febbraio 2013

Pomarance, Teatro dei Coraggiosi – 21 febbraio 2013

Genova, Politeama Genovese – 26 febbraio 2013

San Marino, Teatro Titano – 1 marzo 2013

Forlì, Teatro Diego Fabbri – 3 marzo 2013

Napoli, Galleria Toledo – 9 e 10 marzo 2013

Saronno, Teatro Giuditta Pasta – 4 e 5 aprile 2013

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Gli indifferenti-spadaro

Gli Indifferenti

“Gli indifferenti. Parole e musiche da un Ventennio” - 2012

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Olocausto, il ricordo e l’indifferenza

Gli indifferenti: parole e musiche da un Ventennio, prima esecuzione assoluta”. E’ con questo spettacolo trasmesso in diretta da Rai-Radio3 che l’Accademia Filarmonica Romana ha celebrato lo scorso 27 gennaio la “Giornata della memoria”.
Le parole, sul palcoscenico della Sala Casella, erano quelle di Fabrizio Gifuni, attore solitario ma notissimo. Mentre la parte musicale era affidata al pianoforte di Luisa Prayer (nota non solo come raffinata interprete ma anche come fondatrice e direttrice del Festival internazionale “Pietre che cantano”) e alla voce di Monica Bacelli (soprano amato da grandi direttori come Abbado, Mehta, Pappano, e per la quale Luciano Berio ha scritto i ruoli di alcune sue importanti opere).
Un’ora e un quarto di spettacolo, asciutto, elegante, privo di fronzoli. Eppure è difficile immaginare un più intenso omaggio al ricordo dell’Olocausto, o meglio a quella parte dell’Olocausto che fu di stretta competenza italiana.
Da questo punto di vista, il punto di vista cioè del nostro Paese, al titolo “Gli indifferenti”, tratto dalla celebre affermazione di Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti”, oggi si potrebbe aggiungere qualcosa come “gli smemorati”. E poiché fra l’indifferenza di allora e la smemoratezza di oggi sembra esserci più di un legame, ecco che l’impostazione data allo spettacolo da Gifuni appare quanto mai opportuna. Nessun commento, nessuna lungaggine, nessuna retorica: carte, solo carte. Documenti inconfutabili, testimonianze incontrovertibili, evidenza dell’orrore.
Fra prologo ed epilogo, cinque momenti in tutto. “Gli anni del manganello”, dove giganteggia l’esilarante ritratto del cavaliere Benito Mussolini ad opera di Carlo Emilio Gadda. “Arte e regime”, con l’alternarsi di atteggiamenti diversissimi, dalla pavidità di Pietro Mascagni e Ildebrando Pizzetti al coraggio sprezzante di Toscanini. “Questioni di razza”, con il succedersi dell’intervista in cui Mussolini, nel 1937, dichiara al New York Times che agli ebrei italiani non sarà torto un capello, e dei famigerati “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” (1938). “Gli anni dell’Impero”, con lo sconvolgente telegramma in cui a Badoglio viene ordinato di usare in Africa i gas. Per concludere con “L’abominio”. Una pura e semplice lettura di articoli ferocemente antisemiti pubblicati da vari giornali italiani, fra cui il Corriere della sera.
Musiche di Richard Strauss, Tosti, Casella, Mascagni, Respighi, Pizzetti, Castelnuovo-Tedesco.

Nerina Spadaro – La Sicilia, 30 gennaio 2012

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Gli indifferenti-delfra

Gli Indifferenti

"Gli indifferenti. Parole e musiche da un Ventennio" - 2012

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Parole e note. Esercizio per ricordare

“Si era arrivati a una situazione non so se più tragica o se grottesca: un blocco di milioni di uomini acconsentirono di obbedire a un branco di ladri e avventurieri sapendo che erano avventurieri e ladri, e non riuscirono a sperarne la liberazione se non da forze esterne…”. Con le parole di Raffaello Ramat nel 1943 si è aperto venerdì scorso alla Filarmonica Romana Gli indifferenti, parole e musiche da un Ventennio, uno spettacolo dedicato alla Giornata della Memoria. L’attore Fabrizio Gifuni, il mezzosoprano Monica Bacelli e la pianista Luisa Prayer hanno messo a confronto le dichiarazioni dei nostri intellettuali – soprattutto compositori come Pizzetti, Mascagni, Casella, ma anche giornalisti come Montanelli e filosofi come Gentile che aderirono al fascismo e ne furono complici -, con le musiche estetizzanti di quel ventennio che terminò con le leggi razziali e la follia della guerra. Gli indifferenti è un esercizio di memoria utile a sfatare la leggenda dura a morire degli “italiani brava gente” e un voluto cortocircuito con il presente. La frase di apertura dello spettacolo prima citata, come la stragrande maggioranza dei testi scelti, potrebbe infatti appartenere ai nostri giorni. Serve a ricordarci che la mancanza di memoria e l’indifferenza ci riguardano fin troppo da vicino. E bravi, coinvolgenti e convincenti sono gli interpreti nel rendere tutto questo senza forzature, ma con ammaliziata abilità, distacco, acida ironia.

OLTRE L’EPISODIO
Questo spettacolo meriterebbe di nonrestare solo un episodio della Giornata della Memoria 2012, magari aggiungendo una maggiore teatralità, viste le indubbie doti attoriali tanto di Gifuni, vero camaleonte alle prese con tante voci diverse, che di Bacelli, cantante con una sapienza scenica che spazia dalla follia barocca settecentesca alle più decantate atmosfere impressioniste di Pelléas et Métisande di Debussy, corroborati dalla verve musicale di Prayer impagabile nell’eseguire con meccanica follia le Variazioni di Casella.

Luca Del Fra – L’Unità, 31 gennaio 2012

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Gli Indifferenti

"Gli indifferenti. Parole e musiche da un Ventennio" - 2012

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Gli indifferenti, per non dimenticare gli orrori del Fascismo

L’ Accademia Filarmonica Romana ha partecipato alla celebrazione della Giornata della Memoria con uno spettacolo che si è rivelato molto ben curato e di grande effetto sul pubblico.

Il titolo è Gli indifferenti. Parole e Musica di un Ventennio. Costruito grazie alla collaborazione tra l’attore Fabrizio Gifuni, la cantante Monica Bacelli e la pianista Luisa Prayer, tre artisti molto apprezzati oggi dalla critica e dal pubblico che seguono ogni loro specifico campo di azione.

E’ uno spettacolo strutturato come una riflessione su quel periodo tragico della nostra storia che va sotto il nome di fascismo, ideologia dalla quale l’Italia non è completamente affrancata nonostante le oggettive tragedie che essa ha scatenato sia nel nostro paese sia nel resto del mondo.

I tre artisti hanno effettuato un eccellente lavoro di ricerca sul quel periodo selezionando scritti, articoli di giornale, interviste, telegrammi, diari privati, documenti storici, musiche e canzoni, creando uno straordinario affresco sull’Italia di quel periodo citando personaggi come Piero Gobetti , Arturo Toscanini, Indro Montanelli, Pietro Mascagni, Alfredo Casella, Mario Castelnuovo Tedesco.

La struttura dello spettacolo prevede un serie di cinque capitoli ognuno dei quali dedicati ad una delle tappe della nefasta ‘escalation’ che condusse l’Italia ad uno dei punti più bassi della sua storia. Gli anni del manganello (l’affermazione del fascismo con la violenza), Arte e Regime (tutti i condizionamenti che ebbe il mondo artistico, in special modo quello della musica), Questioni di Razza (Le leggi razziali, l’ignomina forse più grande che un governo possa compiere), Gli anni dell’Impero (gli interventi devastanti per dominare gli inermi popoli dell’Africa), e l’Abbominio (l’ultimo atto della tragedia simboleggiata da Auschwitz ma che si è consumata in tanti altri posti come questo).

Queste tematiche avevano un prologo ed un epilogo che sintetizzavano con straordinaria chiarezza tutto il senso dello spettacolo che aveva una parte letteraria abbinata ad una parte squisitamente musicale, vocale e strumentale, tutti elementi che si fondevano tra loro in maniera del tutto soddisfacente. Sono state utlizzate musiche di Tosti, Casella, Mascagni, Respighi, Pizzetti, Castenuovo Tedesco, tutte molto emblematiche per rappresentare quel periodo storico.

Di grande rilievo la parte dedicata al rapporto tra Arte e Regime, con scritti di Casella ma anche dichiarazioni di Mascagni e Pizzetti accondiscendenti verso il regime ed il suo condottiero, parole che scuotono l’animo di chi ama una splendida arte come la Musica. Ad esse era contrapposto il pensiero del nostro grande Arturo Toscanini, antifascista fino al midollo, che seppe essere critico e distaccato verso il regime a costo di abbandonare l’Italia dopo i cosiddetti schiaffi di Bologna del 1931 che lo costrinsero a tornare in patria nel 1946, dopo la caduta del fascismo per riaprire, con un memorabile concerto, il Teatro alla Scala, riportato a nuovo dopo la distruzione dei bombardamenti.

La cosa che più ci ha colpito dello spettacolo è stato il prologo e l’epilogo affidato alle parole di Raffaello Ramat, critico letterario, professore di lettere all’Università di Firenze e partigiano; il 10 agosto 1943 scrisse dei pensieri che, per la loro perspicacia, potrebbero essere scritti ancora oggi.

Disse che la società dell’epoca era “un blocco di milioni e milioni di uomini i quali acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. E dimostravano la loro dissidenza o col pauroso parlottare segreto e vano o peggio con la barzelletta. Povera arma e segno interiore di debolezza”.

L’epilogo contiene parole altamente drammatiche“il fascismo non è morto ancora. Esso non è nato in Italia nel 1919 ma ha radici lunghe e difficili da troncarsi in un giorno. Esse si stendono tenaci e talvolta invisibili nel nostro carattere, si avvolgono al dannunzianesimo, al demagogismo, al governo pontificio, austriaco, borbonico, al gesuitismo, alla controriforma.. si sono rafforzate in secoli di servilismo e d’abitudine alla menzogna, di ignoranza, di disonestà divenuta sistema, di retorica e di scetticismo, di egoismo e di insipienza governativa, di classismo gretto e di assenteismo stupidamente aristocratico degli intellettuali, di accademismo e di pigrizia. Il fascismo è stato l’erede di questo ammasso di tare e ha dominato per vent’anni perché gli italiani nel complesso avevano già dentro di loro la disposizione a quel regime. Bisogna epurarsi, ma radicalmente, interiormente, perché il nemico della libertà è ancora dentro di noi.”

Sono parole forti, impressionanti, ci fanno pensare alla situazione dell’Italia di oggi ma che ci debbono far riflettere, assieme anche al significato di tutta la Giornata della Memoria. Basti pensare a Vattani il console ‘fascio-rock’ che si permette di esaltare il fascismo pur rappresentando l’Italia e la sua Costituzione che, nata dalla Resistenza, fa proprio dell’antifascismo il suo pilastro fondamentale.

Un prologo ed un epilogo ai quali ha fatto da contrasto il Lied ‘Ruhe, meine Seele!’ (Riposa anima mia) scritto da Richard Strauss nel 1894 su testo di Karl Henckell, che lo stesso Strauss riprese nel 1948 con una versione per canto ed orchestra. E’ una sorta di incoraggiamento all’oblio, l’esatto opposto del significato intrinseco della Giornata della Memoria che esorta gli uomini a non dimenticare.

Lo spettacolo nel suo complesso è risultato molto ben calibrato al quale gli autori, poteva prevedere ma, al contrario, sono riusciti a renderlo coinvolgente ed avvincente, riuscendo a toccare le corde emotive del pubblico conducendolo per mano nel significato di tutti gli avvenimenti ricordati.

Tutto ciò è stato ottenuto grazie alla bravura dei tre artisti con Fabrizio Gifuni che ha confermato la sua coinvolgente recitazione, una qualità che già avevamo apprezzato ne L’ingegner Gadda va alla guerra. Poi Monica Bacelli, cantante molto raffinata, dalle emissioni dolci e delicate, sempre espressiva, che ha saputo dare alla sua interpretazione la necessaria dimensione cameristica. Una parte musicale alla quale la pianista Luisa Prayer ha saputo mettere a disposizione tutta la sua classe di strumentista per un’esecuzione risultata affascinante, poetica ma altamente drammatica.

Lo spettacolo che ha avuto come sfondo la Sala Casella situata nella storica sede dell’Accademia Filarmonica Romana, è stato applaudito a lungo dal pubblico convenuto numeroso, molto evidentemente emozionato dai fatti raccontatati, ottimo strumento per tenere viva la Memoria di quei tragici anni con la speranza che ciò che accadde non si verifichi più.

Claudio Listanti – La Voce, 1 febbraio 2012

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Gli Indifferenti

"Gli indifferenti. Parole e musiche da un Ventennio" - 2012

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Gifuni, sul palco per dare voce alla memoria

E questa sera al Comunale replica per “Gli indifferenti”, applaudito spettacolo con Bacelli e Prayer.

Se è vero che “Il sonno della ragione genera mostri”, la cancellazione della memoria toglie al singolo e alle comunità la capacità di conservare quelle tracce delle esperienze passate, di valutare gli errori e gli orrori e dunque si è destinati a ripeterli. Il teatro è senz’altro il luogo della memoria per antonomasia: se una storia, un fatto, un avvenimento, calcano le scene di un teatro sono destinati al ricordo eterno. Da Omero a Shakespeare, dal Ruzante a Goldoni, da Cocteau e Tenesse Williams fino ai giorni nostri il teatro è lì, puntuale e preciso a far riemergere quello che spesso vogliamo dimenticare. L’altra sera al Comunale di Ferrara è andato in scena con “Gli indifferenti. Parole e musiche da un ventennio”, (si replica anche stasera) una riappropriazione della memoria grazie alla forza e determinazione di un intenso e camaleontico Fabrizio Gifuni che ha dato voce a scrittori, giornalisti e artisti; al mezzosoprano Monica Bacelli, splendida voce scelta dai più grandi direttori d’orchestra; e dalla raffinata pianista Luisa Prayer. Attraverso l’intreccio di musica, parole e parole cantate si sono presentati i vent’anni dominati dal fascismo nel nostro Paese mettendo a nudo il rapporto tra società e cultura, tra intellettuali e potere. L’arte ha il diritto – in nome della sua indipendenza – di estraniarsi da quello che le sta attorno? O, se non girarsi dall’altra parte, di essere supina e servile del potere? Gifuni snocciola parole e parole e alla fine ti cresce il desiderio di sapere chi le ha pronunciate e chi le ha scritte e ci rimani male quando legge la lode sperticata al Duce e in fondo c’è la firma di Pietro Mascagni, l’autore di “Cavalleria rusticana”. O quando Gifuni ricorda le parole del giornalista Indro Montanelli che nel 1936, andato come volontario a combattere in Etipia, scriveva che occorreva avere coscienza della superiorità della nostra razza. Non fai neanche in tempo a pensare che magari dopo ha cambiato idea e l’attore ripete il testo di una intervista di Montanelli a Biagi del 1982, dove dice che lui si era sposato con una dodicenne abissina e che là a 12 anni le ragazza sono un’altra cosa e che era come un animale docile. In mezzo a queste parole recitate ci sono quelle messe in musica e la Bacelli con “La chiamava Capinera per i suoi ricci neri e belli, stava sempre fra i monelli per la strada tutto il dì” di Amerigo Giuliani fa da contrappunto all’attore.
Ed è proprio nei momenti in cui il ventennio opera le sue maggiori atrocità, come le leggi razziali o l’abominio dell’annientamento ebraico, alle parole tremendamente omicide di Rudolph Hoess comandante di Auschwitz, e a quelle di Paolo Monelli del Corriere della sera del 1939, sempre sugli ebrei, o a quelle del giornalista romano che scrive (1941) un articolo sul “sozzo Charlot”, che la musica della mezzosoprano diventa un insensato vocalizzo: alle atrocità la cultura risponde balbettando in musica. Non c’è stata nessuna reazione? No, qualcuno ha alzato la testa come Arturo Toscanini, costretto a lasciare l’Italia. Gifuni apre e chiude la serata con le parole di Raffaello Ramat, partigiano e docente universitario a Firenze che scrive, nell’agosto 1943, che una classe è soprattutto responsabile di quanto è accaduto: quella degli scrittori. “Odio gli indifferenti – scriveva Antonio Gramsci – vivere vuol dire essere partigiani”. Tantissimi applausi e ripetute chiamate in scena, per tutti e tre gli interpreti.

Fabio Ziosi – La Nuova Ferrara, 22 dicembre 2013

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teatro

Gli indifferenti – Parole e musiche da un Ventennio

Gli Indifferenti

Gli indifferenti. Parole e musiche da un Ventennio - 2012

Un’idea di Fabrizio Gifuni, Monica Bacelli e Luisa Prayer
Voce recitante: Fabrizio Gifuni
Voce cantante: Monica Bacelli
Pianoforte: Luisa Prayer

Scrive Raffaello Ramat, critico letterario, professore di lettere all’Università di Firenze e partigiano, nell’agosto del ’43: “Si era arrivati a una situazione non so più se tragica o se grottesca di un blocco di milioni e milioni di uomini i quali acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. (…) Bisogna dire chiaramente che di questo avvilimento generale una classe sopra a tutte è responsabile: quella degli scrittori. Invito i giovani a rileggere i giornali degli anni scorsi e a fare raccolta di pagine di viltà: ma non per riderci, si per piangerci sopra”.
Quali furono le parole scritte e quale “musica” fu suonata nel Ventennio? Quale fu il ruolo della stampa ufficiale e di quella clandestina? E’ concesso agli artisti, in nome di un’autonomia dell’Arte, essere indifferenti a ciò che li circonda? Come reagirono o come si accomodarono gli intellettuali del nostro paese mentre in Italia e in Europa si produceva una catastrofe delle coscienze prima ancora che politica? Che musica veniva eseguita mentre venivano promulgate le “Leggi razziali”?
Monica Bacelli (cantante), Luisa Prayer (pianista) e Fabrizio Gifuni (attore) affrontano la materia – ognuno con il proprio strumento – mettendo insieme materiali dell’epoca: articoli di giornale, diari privati, documenti storici, telegrammi, musiche e canzoni. Da Gobetti a Montanelli, da Toscanini a Mascagni, passando per Tosti, Pizzatti, Gadda, Calamandrei, Casella, Respighi, Castelnuovo Tedesco.
In occasione della Giornata della memoria, Bacelli, Prayer e Gifuni – artisti del loro tempo – si interrogano sul senso del proprio lavoro, sul passato e sul presente, dando vita a un concertato civile contro l’indifferenza, che rinnovi il valore e il significato dell’esperienza del ricordo.

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